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Autore: Belarus    22/07/2013    2 recensioni
«Ti somiglia…» sussurrò piano, poggiandosi al suo braccio.
Cesare preferì non voltarsi, continuando a fissare i sue due ragazzi che ridevano a squarciagola nel bel mezzo della strada.
«… ma non è mio figlio.» precisò con un velo di divertimento.
Isabel non mancò di tirargli per l’ennesima volta durante quel breve soggiorno una ciocca scura in segno di biasimo.
«Non lo è, ma trattalo come se lo fosse.»

[Attenzione: Spin-off tratto dalla serie “Welcome to Johnnie Walker n3030 Shackleton River, Chicago”]
Genere: Generale, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Altri, Antica Roma, Francia/Francis Bonnefoy, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Soy un fué y un será – Sono un fu e un sarà.
Note: La storia è uno spin-off de "Welcome to Johnnie Walker n°3030 Shackleton River, Chicago" che diverrà dunque una serie. La vicenda nello specifico tratta parte del passato di Antonio, ovvero come, quando e perché abbia deciso di abbandonare la Spagna per trasferirsi in America. Il POV è quello di Cesare Vargas[Roma Antica], all’interno del capitolo – primo di due – sono presenti divergenze con l’opera originaria, i motivi si capiranno in seguito nel blocco principale del Walker e non in questo spin-off. Sono accennati inoltre alcuni dettagli del passato di Francis Bonnefoy, ma anche a quello – come a molti altri – sarà dedicato un altro spin-off. Il titolo è tratto da un sonetto del poeta spagnolo Quevedo. Dubito che questa mini storia possa avere un senso logico che trascende dall’opera primigenia e vi consiglierei di leggere il complesso, quindi a voi la scelta se avrete la bontà di arrivare sino alla fine.
Traduzioni a piè di pagina.
NoteII: Dedicata a César che mi ha ispirato e consigliato per la location.


Soy un fué y un será – Sono un fu e un sarà.





Fuentes de Ebro, 19 agosto 1912.




Àlvaro continuò lento a sventolare il braccio magro nella loro direzione, i denti – o ciò che ne restava – ben in vista, le spalle incurvate dal tempo impietoso sotto la maglia sbrindellata, sino a quando Ana Maria, l’asina nera che lo accompagnava sin da bambino con il carro, si fu decisa a ripercorrere la breve discesa che li aveva condotti sino allo sperduto paese arroccato sulla collina. Ricambiò il saluto con trasporto finché i due non furono inghiottiti dal caldo torrido che inesorabile si sollevava dal basolato polveroso della strada di campagna, tra cespugli imbruniti dalla siccità che incombeva sulla regione ormai da mesi. Li avevano incontrati per un caso fortuito nel selciato abbandonato che collegava gli antichi borghi alle città, che lentamente avevano soppiantato qualsiasi altra realtà abitativa spingendo i più a trasferirsi fiduciosi nell’aureo e florido futuro che veniva tanto decantato. Le strade erano talmente ardue e disparate da proibire a qualsiasi auto di nuova invenzione un qualsiasi percorso, macigni crollati per colpa di qualche frana, alberi sperduti che giacevano scheletrici sui cigli e terriccio rovente, non facevano che sbucare ad ogni passo e i grandi impresari avevano preferito investire nei nuovi centri urbani. Lungo quei percorsi gli unici mezzi consentiti parevano essere asini e cavalli pazienti disposti a trascinare carri da fieno, così bontà divina aveva voluto che quel vecchio sdentato si fermasse a raccattarli assetati e impolverati, per dargli un passaggio sul lastricato che collegava le borgate sorte ai piedi dell’Ebro.
<< Adesso che i miei pantaloni sono rovinati per sempre, credo di avere il diritto di sapere dove stiamo andando! >>
Riportò lo sguardo sul ragazzo che all’ombra della porta sud del fortificato arabo lo fissava con rimprovero continuando a sistemare con nervosismo le lunghe ciocche bionde in un codino impeccabile. Le labbra si piegarono in un sorriso affettuoso quando divorò gli ultimi metri che li separavano e gli assestò una sonora pacca sulla spalla per la quale l’altro storse indispettito il naso.
Il viaggio non era stato certo dei più comodi, questo aveva dovuto ammetterlo persino Cesare, ma quel carro dalle ruote rudimentali aveva rappresentato la loro salvezza, considerando poi che la distanza in chilometri che separava Zaragoza dal presunto paese che gli era stato indicato, era a loro sconosciuta, poteva ritenersi quasi miracolato.
<< Te l’ho detto prima di prendere il treno, credevo mi stessi ascoltando! >>
Superò con passo deciso l’arco bizantino ormai limato che li aveva coperti per alcuni secondi e avanzò imperterrito addentrandosi nella matassa di stradine e piazze che si abbarbicavano tra le case desolate del paese, costringendo il biondo ad abbandonare il proprio rifugio improvvisato per un più cocente tragitto.
Quando aveva pensato a quel luogo, durante il viaggio temerario in compagnia di Àlvaro e Ana Maria, lo aveva immaginato animato da bambini che scorrazzavano per le strade in mutande alla ricerca di una fontana in cui fare il bagno, uomini che chiacchieravano giocando a carte all’ombra di qualche cortile e donne intente a bisbigliare pettegolezzi sulla “poco di buono” del paese che era andata a confessarsi dal parroco dopo aver condotto sulla cattiva via chissà quale povero marito fuorviato dalla sua bellezza, ma tutto ciò che si ritrovava dinanzi adesso era un cumulo di catapecchie abbandonate e strade deserte.
<< Lo so da chi stiamo andando! Voglio sapere dove! >> strillò quasi, asciugandosi una goccia di sudore.
<< E che vuoi che ne sappia io?! >> ridacchiò, mentre la sua voce riecheggiava sulla polvere del paese.
Si volse a guardarlo sperando che anche il suo ragazzo avesse colto l’ironia della situazione, ma l’occhiata che ricevette per risposta fu abbastanza eloquente da fargli sfuggire un sospiro paziente.
<< Suvvia Francis, togliti quel broncio dalla faccia! Vedrai che la troverò, non sarà difficile! >>
<< Oncle, non sarà difficile solo perché in questo paese abiteranno massimo venti persone! >>
<< Venti, cento, cinque mila, non fa poi tanta differenza, ci vuole un po’ di pazienza e buona volontà! >>
Ripartì spedito su quella che probabilmente avrebbe dovuto essere lo stradone principale che congiungeva le due porte d’accesso e uscita di Fuentes de Ebro, nuvole di polvere presero a sollevarsi ad ogni passo che compiva sull’acciottolato ormai rovinato dalle intemperie che era stato posato durante la fondazione, gli parve di udire alcune voci roche dalle costruzioni sbarrate che si ergevano per metà distrutte ambo i lati. Tapparelle dalla pittura scrostata penzolavano moribonde sui mattoni infuocati di ogni abitazione, gettò un’occhiata curiosa a una gatta accaldata che cercava riparo all’interno di uno spaccio celato dalle tendine di plastica colorata su cui era stata raffigurata una palma tropicale. Divertito, continuò sino alla fine della strada, mentre il campanile muto della chiesa si ergeva oltre l’agglomerato di abitazioni popolari dall’aspetto trascurato, mosse qualche passo accostandosi alla piccola scalinata che svoltava verso Zaragoza, sicuro che il parroco gli avrebbe senz’altro fornito l’indirizzo preciso in cui cercare. Si passò una mano larga sulla fronte, asciugando parte del sudore che ormai impregnava le ciocche castane di capelli che vi si erano poggiate, arrotolò senza troppa cura le maniche della camicia rossiccia che aveva indossato sperando di non beccarsi un colpo di sole.
Era abituato al caldo, quello spagnolo non era poi tanto diverso dalle torride temperature che raggiungeva l’Italia durante la stagione estiva, ma la mancanza di palme, alberi, fontane o luoghi in cui riposare lo stava spossando più di quanto avesse previsto. Non sarebbe di certo svenuto nel bel mezzo della strada, non era ancora abbastanza moribondo da farlo, ma le sue condizioni non erano più quelle di un tempo, nonostante il suo aspetto fosse quello di un uomo ancora nel pieno del proprio vigore.
<< Oncle! L’ho trovata! >> lo richiamò la voce del ragazzo da un punto imprecisato.
Continuò a osservarsi intorno con aria sperduta, finché non ebbe individuato dalla parte opposta del calle il sorriso compiaciuto del giovane che lo attendeva finalmente rilassato, accanto ad un gruppo di vecchine dall’aria inspiegabilmente arzilla intente ad annuire convulsamente. Ripercorse in fretta il tragitto compiuto pochi minuti prima, chiedendosi quando quel ragazzo fosse sgusciato via dal suo controllo per gironzolare indisturbato per la città e bussare in case sconosciute. Quando l’ebbe raggiunto, salutò con un gran sorriso le anziane donne che gli si accalcarono attorno entusiaste porgendogli caraffe di sangria ghiacciata profumatissima tirate fuori da chissà dove, mentre Francis si sollevava rinvigorito dalla sedia in raffia su cui l’avevano fatto accomodare con cordiale apprensione.
<< Abita in fondo a quella strada… la casa con i fiori gialli, oui? >> chiese conferma.
Una delle anziane lo arpionò con un saltello per un braccio costringendolo ad abbassarsi alla sua altezza, sventolò il dito rattrappito lungo il vicolo che si allungava ombroso alle loro spalle, puntandolo verso un luogo imprecisato molti metri più in là. Con una certezza ferrea e saggia, dovuta probabilmente all’esperienza dell’età in cui si trovava, riportò lo sguardo su Francis umettando le labbra scure ormai rovinate dal tempo e dalla polvere.
<< Mozo, està ahì mismo! Ahì! >> ciarlò sorridendo contenta.
<< Oh, merci! Siete state davvero molto gentili, adorabili! >> la donna gli scoccò un bacio umido sulla guancia, continuando ad annuire, mentre le altre li salutavano sventolando le manine callose.
Zampettarono per un metro insieme a loro per poi arrestarsi e lasciarli proseguire, il vicolo si allungò sinuoso tra abitazioni fresche su cui il sole non era ancora riuscito ad affondare i propri raggi, una serie di ciuffi di palme prese a sbucare tra i tetti, memori di una dominazione che lì aveva lasciato il segno.
<< Non mi avevi detto di parlare spagnolo, ragazzo mio! >> sghignazzò, quando furono abbastanza lontani.
<< Non lo parlo infatti, ma non è molto diverso dalla tua lingua Oncle… >> sorrise, asciugandosi con compostezza la nuca accaldata.
Sorrise dandogli l’ennesima pacca paterna sulla spalla – senz’altro meno vigorosa della precedente alla porta sud del borgo –, lasciò scivolare le dita lungo i capelli biondi accarezzandolo come avrebbe dovuto fare molti anni prima quando era solo un bambino che giocava in casa e l’italiano non ancora imbrigliato in sciocchi giochi di potere capaci di sottrarre tempo a quella che sarebbe dovuta essere la sua famiglia. Ormai era un uomo, gli affari avevano privato Cesare del lusso di tenerlo in braccio o portargli un regalo, ma in fondo, riteneva fosse meglio così. Il tempo era poco, ma lui non era mai stato un tipo pretenzioso, non nella vita privata almeno e i troppi sacrifici compiuti a discapito di se stesso, sarebbero andati a buon fine con la sua famiglia. Francis avrebbe avuto ciò che gli spettava, esattamente come gli altri.
Sospirò rassegnato, riportando gli occhi castani sulla piccola casa a più piani da cui sbocciavano profumatissimi fiori gialli, che ormai si ergeva in tutta la sua misera altezza, tra altre catapecchie costruite in chissà quale anno del secolo precedente. Fissò con attenzione ogni singolo mattone polveroso, le tapparelle che penzolavano verdognole al piano terra e al secondo, la piccola porticina intagliata nella parete ruvida da cui si scorgeva con non troppa fatica una stanza ombrosa con un tavolo sgangherato. Si accostò all’alto cancello di legno che chiudeva l’accesso al cortile sul retro dove una piccola scala alquanto ripida pareva condurre direttamente alle camere, mentre Francis teneva il naso puntato in aria. La chioma brillante di un fico allungava i suoi rami biancastri oltre le assi di legno corrose, quando ebbe poggiato la mano alla serratura arrugginita, il suono di alcuni passi sul balconcino piastrellato lo convinse a scrutare nella stessa direzione del giovane francese. I suoi occhi si posarono cauti tra le fioriere, sulla figura di una donna che reggeva sbigottita un catino d’alluminio grezzo carico di maglie bianche logorate dall’uso. Serio ne tracciò ogni lineamento garbato, la bocca arrossata che socchiusa pareva piegarsi lentamente in un sorriso a lui perfettamente noto, gli occhi sgranati nella loro tonalità di verde tanto brillante, le spalle scoperte dal lungo vestito chiaro. Un moto di rammarico e gratitudine lo colse aggrovigliando qualcosa all’interno del suo animo.
<< Cesare? >> domandò di colpo lei, quando ebbe poggiato la biancheria.
<< Hola, Isabel! >> sorrise finalmente, mentre la donna rideva incredula.


Ferdinando Carriedo non era mai stato un uomo particolarmente attraente neanche durante i più floridi anni della sua vita, non era né ricco né benestante, non si sarebbe potuto definire nemmeno un tipo spiritoso, non apparteneva lontanamente alla categoria di uomini carismatici capaci di attirare l’attenzione nel più infimo e derelitto dei luoghi, ma Cesare gli riconosceva un pregio che probabilmente nella maggior parte degli altri uomini scarseggiava: la pazienza. Era senza ombra di dubbio, l’essere più paziente che Dio avesse messo sulla terra, un lavoratore instancabile, un silente osservatore della realtà, che umile e bonario era riuscito a costruirsi in quella piccola cittadina spagnola un cantuccio in cui trascorrere i propri anni.
Poggiò sereno il cucchiaio con cui Isabel aveva servito a lui e Francis un po’ della sua macedonia di fichi e arance fatta in casa, lo salutò con un cenno del capo, mentre claudicante per una zappa finita per errore sulla sua caviglia sinistra, svaniva nella camera accanto alla cucina, ricercando un po’ di frescura dalla calura e dallo sforzo compiuto nell’accogliere gli ospiti inattesi.
<< Non si lamenta di nulla e credo di non averlo mai sgridato neanche da bambino, ha preso la pazienza di Ferdinando sai?! >>
Isabel poggiata al mobile della cucina di dubbia fattura, gli sciorinò dinanzi lo strofinaccio umido e spiegazzato con cui aveva appena asciugato le mani sottili, gli occhi parvero brillarle di un profondo senso d’orgoglio.
Era ancora una delle donne più belle su cui Cesare Vargas avesse mai posato lo sguardo durante la sua vita. Il cipiglio era quello di una bambina testarda, ma la muta maturità che aleggiava attorno alla sua figura, le dava l’aspetto di quelle madri consapevoli capaci di comprendere e risolvere qualsiasi problema con un solo sguardo prolungato. Gironzolava per la propria casa con quel suo tipico incedere altalenante che tanto aveva fatto sospirare i ragazzi di Zaragoza quando ancora era un’adolescente sorridente ignara della vita, i capelli mossi di un castano talmente scuro da apparire nero scivolavano soporosi sulle spalle nude. Da quando li aveva accolti nel cortile della propria abitazione su Calle San Isidoro, non aveva fatto che sorridere e chiacchierare di qualsiasi cosa le venisse in mente dall’albero piantato in giardino all’accenno di barba che faceva capolino sul mento del francese, con quella cadenza spagnola che l’italiano non aveva mai sperato svanisse dalla sua bocca rossa. Aveva sempre adorato sentirla parlare, persino più dell’ammirarla nella sua innegabile bellezza, vi aveva dal primo momento trovato un’affinità innegabile e involontaria che si ha con un caro amico d’infanzia o la propria sorella.
Ciò nonostante, non poté che amareggiarsi vedendola vagare tra sedie sgangherate e pentole per metà bruciate falsamente ignara della cruda realtà che attendeva sopita al di fuori delle porte di Fuentes de Ebro.
Era una debolezza egoista e generosa quella di fingere serenità in momenti in cui ogni fibra del proprio corpo è ridotta a brandelli, il sorridere delle avversità, il soprassedere a mancanze che semmai avessero il peso che gli spetta, finirebbero per trascinare nell’oblio. Era una dote che si acquisiva nel divenire genitori, nel sentire gravare sulle proprie spalle la responsabilità di una vita che non appartiene a chi l’ha generata, nel dover sopperire alla mancanza di difese di qualcun altro, nel doversi rendere disperatamente abbastanza forti da salvare se stessi e i propri figli, questo Cesare lo sapeva perfettamente, ma sapeva anche che quella era un’attitudine connaturata in Isabel, che la spingeva a essere incrollabile persino nelle peggiori disgrazie.
<< Dote che gli servirà di certo a questo mondo… >> costatò con un velo di rammarico nel tono.
La società moderna che allungava i propri artigli in quel secolo appena nato, avrebbe messo a dura prova chiunque, le carte erano mescolate di continuo da giocatori che anni prima non avrebbero osato farlo alla luce del sole, gli affari commerciali cominciavano a essere ingestibili, l’Europa capitolava inesorabile nella morsa di banchieri ingordi e governi instabili capaci di far sanguinare la mente di qualsiasi uomo, criminale o onesto che fosse. Aveva visto tracciarsi innanzi a sé un futuro travagliato per cui provava già stanchezza e per quanto difficile potesse apparirgli in quel momento della sua vita, aveva deciso di perseverare in quella sua opera disperata per porre rimedio a quel poco che poteva ancora essere deciso, per salvare la sua vera famiglia dalla bolgia cui di lì a poco tutti sarebbero dovuti andare incontro. Si rimproverava ogni notte per la scarsa prontezza con cui aveva reagito a quei cambiamenti mondiali che alla gente apparivano tanto lontani, per non aver compreso quanto vicino fosse il suo baratro personale e inevitabile quello delle persone a lui care. Eppure, quello stesso cruccio che lo cullava in sogni simili a incubi, che impietoso lo poneva innanzi all’ineluttabilità del fato, gli forniva adesso l’unica via di scampo e ancora di salvezza.
<< Lavora al campo Ginel al suo posto adesso, avrei voluto mandarlo a Zaragoza a studiare come quei ragazzi delle grandi città o magari nella capitale, ma non ho potuto dargli ciò che merita… >> mormorò con un filo di voce.
Ebbe l’impressione che l’orrida prospettiva che soltanto i suoi occhi riuscivano a scorgere oltre quella patina d’oro e ricchezza che il mondo andava decantando non fosse sola come tristemente si aspettava. La vide sorridere come sempre, mentre Francis le porgeva un fazzoletto in silenzio e si ricordò del perché così tanti anni prima avesse provato amore per quella ragazza spagnola conosciuta per caso per le vie di una città ignota a entrambi. Sospirò sforzandosi di privare le proprie mani di una carezza che non avrebbe dovuto rivolgere a lei, pregando affinché quella proposta trovasse riparo nelle parole affrante di una ragazza cresciuta troppo in fretta e che si sfiancava reggendo sulle proprie spalle una famiglia per cui ben poco avrebbe potuto fare.
Isabel non era mai stata una donna arrendevole neanche a sedici anni quando Cesare le aveva parlato la prima volta, ma l’essere diventata madre l’aveva cambiata inevitabilmente, glielo leggeva negli occhi stremati che continuavano irremovibili a sperare in nome di qualcuno che aveva messo al mondo e che sperava di far sopravvivere. Lei e Ferdinando non potevano garantire un futuro a ciò che a loro era più caro, non avevano mezzi capaci di rallentare quella cruda marcia forzata verso il futuro, ma provavano continuamente a renderla quantomeno tollerabile con ogni goccia del loro sangue.
Lasciò scorrere lo sguardo oltre la porta che dava sul balconcino da cui l’aveva vista dopo vent’anni di separazione, qualcosa in fondo al suo stomaco parve dimenarsi incontenibile dandogli la certezza di aver compiuto la scelta giusta e le parole uscirono dalle sue labbra ancor prima che le avesse pensate.
<< Francis perché non vai a prenderlo al campo? Io devo parlare con Isabel. >>
Il ragazzo lo guardò stranito come se si fosse appena accorto della sua presenza, gli occhi blu si soffermarono per qualche secondo sul sorriso sereno che l’italiano gli stava rivolgendo, mentre la mano lo accarezzava sulla spalla con una fermezza inconfondibile. Sospirò dopo qualche breve istante di silenzio, un ghigno malizioso gli si dipinse sulle labbra quando si fu finalmente alzato, sventolò con teatrale convinzione le mani, mentre le spalle si sollevavano per poi abbassarsi quasi sconfitte.
<< Torno tra un’oretta o due, d’accord? >> propose furbescamente.
<< No, vedi di tornare presto o mi verranno le preoccupazioni! >> rimbrottò divertito.
Il biondo gli rivolse un’occhiata tra lo stupito e l’offeso, l’ennesimo sospiro gli allargò il petto magro, mentre apriva la piccola porticina che conduceva al cortile e discendeva silenzioso per la scala in pietra che si abbarbicava sulla casa arroventata. Isabel strinse il canovaccio aggirando il tavolo da pranzo per poi affacciarsi al balconcino da cui un’ora prima aveva rivisto Cesare, attese paziente che il cancello di legno del giardino si fosse richiuso e un sorriso entusiasta gli si dipinse sul volto, talmente sereno da far stringere il cuore dell’italiano.
<< Devi andare fino in fondo a questa strada, poi prendi la seconda a sinistra e arrivi ai campi! È quello con i pomodori e la staccionata rotta, mi raccomando sta attento! >> tonò apprensiva.
<< Oui, oui, merci! >>
<< Ah Francis! Si chiama Antonio! >>
Cesare sorrise osservandola, mentre sventolava la mano con la fede nuziale verso la strada.
Aveva scelto davvero un bel nome per suo figlio.






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Note dell’autrice:
- “Oncle”: Zio [ver.fr.]
- “Mozo, està ahì mismo! Ahì!”: Giovanotto, sta proprio lì! Lì! [Vers.spag.]
Fatte questi due piccoli appunti, ringrazio chiunque abbia letto o avrà la pazienza di leggere! Entro la prossima settimana pubblicherò il secondo e ultimo capitolo di questo spin-off.
Merci, mes ami! *-*


  
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