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Autore: Gatto Magro    26/07/2013    3 recensioni
Capitano. Grotta. Cera.
E tutto quello che avrò la malaugurata idea di scrivere, finché alla TV non fanno qualcosa di bello.
1. Ossequi, Capitano.
2. Ave Icarus.
3. All I wanna do is (bang-bang).
4. Sunday mo(u)rning.
5. Le Porte Spettrali.
6. Caro Bellamy,
7. I tuoi 23 anni, I miei 26 anni.
8. duemilasette – duemilatredici
9. Scritto sul muro con l'eyeliner.
10. "It's like being at Disneyland. On acid."
11. We go where we know. (RIPUBBLICATA "Ma le fragole hanno fatto la muffa.")
12. Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato).
13. Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.)
14. Then the night fell on us.
15. The Queen is dead.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le vicende Ciglia Finte e altre cose di Superficie. '
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Bellamy, come mi sento solo.
Divoro Plauto e Bukowski, strana accoppiata che ho gettato nello zaino a casaccio. Li ho buttati al bordo del letto; solo un certo pudore mi ha trattenuto dal lanciarli sul pavimento, questo stupido asservimento della mente umana di fronte a nomi me lo insegnano all’università ogni giorno, ogni ora, ogni respiro. Avrei voluto seguirti quando sei scappato. Invece sono rimasto a nutrirmi dei pochi momenti particolari che avvengono, di tanto in tanto; come quello di cui ti parlavo qualche riga qui sopra. Alla fine l’ho dimenticato davvero, perciò dimenticalo anche tu per favore, o mi peserà troppo questo ricordo perduto – soprattutto il nostro incontro immaginato. È stata tutta colpa di quella ragazza di cui ti avevo forse accennato in una o due parole, lei e la luce del giorno che mi ha sorpreso senza preavviso, con la penna appena sollevata e l’ordine che stava per sgorgare dal mio cervello alle dita…
Bellamy, mi sento così solo che, se il mondo fosse appena un po’ più avventuroso e il mio compagno di stanza tenesse una pistola nel cassetto delle mutande, probabilmente mi sparerei con un sospiro di sollievo e uno spruzzo di sangue incolore. Non sono al campus, ma prima di uscire l’ho controllato, quel cassetto; ho soltanto scoperto che Mitchell ha diverse paia di mutande viola, e la cosa mi ha sollevato il morale di qualche briciola, che subito ho perso nel viale sassoso dai buchi nelle mie tasche.
Ho raggiunto il lago. Vorrei essere in grado di raccontarti l’aria carica di luce, le increspature dell’acqua, la musica sottile dell’erba. Vorrei accucciarmi e chiudere gli occhi, passare disteso sull’erba fresca il resto della giornata, indisturbato.
Ho paura che nessuno verrebbe a cercarmi – meglio, ho paura dell’assoluta certezza che provo che nessuno verrebbe a cercarmi. Forse Mitchell, dopo che si è accorto che ho frugato fra le sue mutande. Non voglio sprecare parole spiegandogli della pistola eccetera. Mi lascerei salvare.
Ora ti lascio, Bellamy. Non riesco più a tenere la penna in mano. Sto così male.
Spedisci un angelo che mi soffi all’orecchio la storia che ho dimenticato.
 

***

 
Si svegliò al ritmo martellante di una canzone da discoteca, sparata a volume esagerato da una stanza nello stesso corridoio, e propagata in eco sorde che facevano tremare i vetri delle finestre e gli spedivano il cuore in gola. Lo inghiottì di nuovo, a fatica.
Era tardi – forse le sei del pomeriggio, e dalla fessura di cielo blu che si mostrava timidamente dalla portafinestra si staccava un aroma dolciastro di fiori estivi, nutriti dell’arsura che si respirava in boccate dense in sere come quella.
Si era addormentato sulla poltrona, immerso in un cumulo di vestiti suoi e di Mitchell, con addosso scarponi, mutande e un paio di guanti dal bordo di pelo. Non aveva la più pallida idea di quando e come fosse rientrato al campus, né aveva il ricordo di aver indossato quegli indumenti e di essersi accomodato sulla poltrona, incorniciato dal quadro di luce rossastra di un tramonto di chissà quale giorno.
Sabato, giovedì. Luglio o ottobre, tutto si trascinava in maniera uguale, secondo per millimetro.
Si scrollò via i jeans e le magliette che si erano incollate al suo corpo coperto di una patina di sudore, e seminò una scia di vestiti  fino al piccolo ritaglio di bagno, dall’altra parte della stanza. Si sedette sul piatto della doccia e chiuse la tendina di plastica, ritrovandosi circondato da una morbida oscurità aranciata, punteggiata da code di pesciolini sospesi in un mare piatto e fluttuante.
L’acqua che pioveva a singhiozzo era gelida.
Chiuse gli occhi e immaginò una nuova strofa per la sua canzone.
 

***

 
Bellamy, sono il signore dei raggi di sole cuciti alle dita molli dell’uomo sul palcoscenico. Ad un mio ordine, penetrano rivoli di fumo, si avvolgono ad una caviglia nuda, colgono la trasparenza di una pietra fra i capelli o del ghiaccio sul fondo dei bicchieri inscheletriti.
Tu dimmi che cosa potrebbe divertirti, e io dirò loro di eseguirlo.
Vuoi vederli irradiarsi sulle spalle appuntite di quella donna dal vestito nero – drappi di spine, spille di cartapesta mi sussurrano le sue unghie maciullate, volteggiare in un gioco di vetro e specchi appena sopra la cortina di teste lucidate, sgorgare a fiotti dalla gola tagliata del pianista?
Inondarmi la camicia scura di perle iridescenti, in rapido scioglimento a contatto con la mia pelle – la luce è fredda come il ghiaccio, Bellamy – illuminandomi il volto di un riflesso strabico e palpitante, come una luna ubriaca barcollante attraverso il cielo, stelle in ritirata dalle guance diafane mascherate da un velo di nube per l’aspra vergogna della loro madre ubiqua. Ma se preferisci che l’uomo dalle mani di guanto continui a cantare, io non lo impedirò.
La sua voce scroscia dai miei occhi, la sua voce è piangere lacrime calde per un amore che perde le ultime gocce di sangue fra le tue braccia, tinte le braccia di colore invisibile e caldo, più che altro – ecco, Bellamy, la luce è fredda, il colore è caldo, sì – la sua voce è un anestetico respirato attraverso il corpo intero proteso ad ogni inflessione di tono, come un’onda, onda, ombra immortalata da un lampo di luce inaspettato, fotografia sfocata, iridi abbacinate, membra immobilizzate in attesa della fine. Contiamo i secondi, ci disperiamo.
Ma, intanto, lasciarci cullare è l’attimo esteso di cui più ringrazieremo dio. Non lo fermerò io, lo fermeranno le mie dita sulla tastiera quando sarà il momento di prendere coraggio e spingere la testa fuori dall’acqua tiepida,
ho detto, Bellamy: acqua, colore, luce?...
L’acqua è luce?
La voce scroscia. Il ghiaccio si scioglie fra le dita oblunghe di un ragazzino dalle labbra sensuali. Voce, acqua. Acqua scroscia.
La doccia. L’acqua gelida.
Le sagome scure delle mie mani danzano davanti alle mie palpebre abbassate; guidano, muovono, pregano, tracciano musica. L’uomo sul palcoscenico si dissolve in un’interferenza elettrostatica che mi mette paura, la mia pelle si increspa di brividi di abbandono – acqua, gelida, luce?...
Nessuno si ricorda di me.
 
 
 
 
 
 
 
 
Gatto Magro_____
Blablablabla.
Sono solo pezzi di un racconto contorto che ho provato a scrivere mentre ero al mare – l’aria salmastra mi fa strani effetti, lo ammetto. Ho scritto la vera e propria “Prima Parte” ma non la pubblico, nel caso mi venisse di continuarla. Questa in pratica era la bozza preparatoria.
Bottoni di zucchero, cari. 

   
 
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