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Autore: Martolinsss    26/07/2013    11 recensioni
L'orgoglio di lui, il pregiudizio di lei. Due mondi lontani che arrivano a toccarsi per uno strano scherzo del destino. Lo scontro sarà inevitabile: forse uno dei due vincerà, distruggendo l'altro. O forse ne usciranno entrambi feriti, deboli, ma soprattutto migliori.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO VII


Il sudore scivolava lento lungo il mio corpo. Me lo sentivo dietro il collo, sui gomiti quando alzavo le braccia per battere le mani a ritmo di musica, e nell’incavo delle ginocchia. Scivolava piano, facendomi rabbrividire, come l’adrenalina che scorreva invece dentro di me, nelle mie vene, fino quasi a divorarne tutto il sangue presente.
Continuavo a saltare da una parte all’altra del palco e per quanto dicessi a me stesso che lo facevo per far divertire il pubblico e perché quando la musica è così alta non si può stare fermi, in realtà lo facevo per attirare la sua attenzione. Lei. Sophie. Terza fila, in fondo a sinistra. Il resto dell’arena avrebbe anche potuto essere vuoto per me, era come se il suo sedile fosse illuminato da un faro che puntava direttamente su di lei, mentre tutto il resto era immerso nel buio più totale.

Mancavano solo un paio di canzoni alla fine e io mi girai verso gli altri per vedere se avessero cambiato idea. Zayn mi fece un cenno di approvazione con il capo, mentre dietro di lui Liam mi sorrise a trentadue denti. A quel punto mi alzai e il pubblico si aspettava da me il solito discorsetto previsto dalla scaletta che avevo ripetuto a memoria non so quante volte a persone di ogni nazionalità.
Siamo felicissimi di essere qui, siete il pubblico più rumoroso di sempre, non ci sono parole per farvi capire quanto vi siamo riconoscenti. Quella volta no, avevo ben altro da dire ed era un’idea che mi era venuta poco prima di salire sul palco e che avevo condiviso solo con gli altri ragazzi, perché se qualcuno della produzione mi avesse sentito di certo non me lo avrebbero lasciato fare. Strinsi più forte il microfono tra le mani e facendo vagare lo sguardo tra la gente, iniziai a parlare.
 
“Questa è una serata molto speciale per me” esordii e notai che la voce mi tremava appena “e non solo perché è l’ultima data del tour nel Regno Unito, ma perché tre bellissime persone sono sedute in mezzo a voi per sentirmi cantare. Per quanto riguarda due di loro, sono sicuro che si sono divertite moltissimo fino adesso, perché le ho viste continuamente saltare sulle loro sedie” e mentre lo dissi guardai Katherine e Elizabeth, che per la sorpresa e il fatto che stessi parlando direttamente a loro, erano quasi in lacrime. La terza persona però non è una patita della nostra musica, ma è venuta lo stesso e quindi vorrei ringraziarla cantando per qualche istante qualcosa di diverso. Questa canzone mi piaceva molto ancora prima di scoprire che è anche la sua preferita, e sono sicuro che piace anche a molti di voi, quindi se sapete le parole, per favore cantatela con me!” E mentre nell’arena era sceso un silenzio di tomba, con Niall che mi accompagnava piano con la sua chitarra, iniziai a cantare la prima stronza di “This”, di Ed Sheeran.
 
This is the start of something beautiful
This is the start of something new
You are the one who'd make me lose it all
You are the start of something new

 
Mi fermai al ritornello, perché sapevo che era già un miracolo che nessuno della produzione fosse intervenuto salendo sul palco per fermarmi, ma quando cercai Sophie tra la gente e vidi l’espressione sul suo viso, seppi che quei pochi versi erano bastati. Ringraziai mentalmente le due gemelline per avermi saputo dire quale era la sua canzone preferita e tornai a cantare con gli altri le ultime due nostre canzoni, un senso di leggerezza nella testa e nel corpo che non aveva niente a che fare con i milioni di flash che immortalarono l’ultimo secondo dell’ultimo concerto del tour inglese.
 
Un’ora dopo eravamo tutti e quattro seduti sui sedili posteriori dell’auto che le avrebbe riportate a Oxford. La prima mezzora di viaggio passò nella confusione più totale, tutti troppo entusiasti dal concerto appena concluso per parlare piano e non infastidire l’autista. Risi così forte a una battuta di Elizabeth sui pantaloni che aveva indossato Niall quella sera che quasi mi rovesciai addosso metà della lattina di coca cola che stavo bevendo. Quando entrammo in autostrada c’era pochissimo traffico e l’auto acquistò sempre più velocità.
Il rumore sordo dell’asfalto che scorreva veloce sotto di noi, il verde dei prati sfumato al giallo dei campi fuori dai finestrini, uniti alla stanchezza della giornata, fecero capitolare le due bambine, che dopo neanche un’ora crollarono addormentate, la testa appoggiata l’una sulla spalla dell’altra. Attento a non svegliarle mi spostai sul sedile per essere più vicino a Sophie. Quando le presi la mano lei chiuse gli occhi e sospirò contenta, appoggiando la testa contro il finestrino. Vederla in quella posizione, con gli occhi chiusi, portò nella mia mente una marea di ricordi.
 
“Questa scena mi ricorda tanto quella volta sul treno, lo sai?” le dissi e un sorriso malinconico le si dipinse sul viso. “È passato così poco tempo, se ci pensi, ma quante cose sono cambiate. Guardaci ora!” e nel dirlo sollevai le nostre mani intrecciate, per baciare il palmo della sua.
 
“È stato divertente vederti arrivare di corsa quella sera, tutto trafelato e senza respiro, ma se devo dirti la verità non ritornerei indietro, e non rinuncerei a questo, per nessuna cosa al mondo” mi rispose poco dopo.
 
“Bene, perché non ti lascerei tornare indietro in ogni caso..” e forse suonò un po’ più minaccioso di quanto intendessi, ma sapevo che Sophie aveva capito. Lei capiva sempre tutto.
 
Avevo sonno e ogni tanto il silenzio nell’auto diventava così confortevole che sapevo che se mi fossi appoggiato a lei, il suo maglione bordeaux sembrava così morbido, mi sarei addormentato all’istante. Non volevo farlo però, non importa quanto stanco fossi. Lei era seduta lì, al mio fianco e ogni secondo con lei meritava di essere vissuto. Avrei avuto tutto il viaggio di ritorno per dormire e, se ero fortunato, sognare di noi due insieme.
 
L’auto accostò davanti a casa loro poco prima della mezzanotte.
 
“A casa sana e salva, puntuale come Cenerentola!” le dissi aprendole la portiera. Lei mi fece la linguaccia, ma ebbi un tuffo al cuore quando notai con quanta leggerezza ormai si appoggiava a me, senza più ritrarsi al mio contatto. Svegliammo piano le due bambine e le aiutammo a entrare in casa, perché erano ancora così stanche e mezze addormentate che da sole non sarebbero mai riuscite a reggersi in piedi. Le salutai ringraziandole per la giornata e poi mi sedetti in cucina, appoggiando i gomiti sul tavolo, mentre Sophie andò su di sopra con loro per metterle a letto.
Era una bella cucina, non tanto grande, ma pulita e ordinata, con le tendine azzurre alla finestra e qualche strofinaccio qua e là. Profumava di casa, di famiglia e mi persi nel ricordo della cucina di mia madre e di quanto mi piaceva fare con calma colazione lì, dove tutto profumava di lei, il sabato mattina, quando non dovevo andare a scuola. Sophie era ormai sparita da quasi un quarto d’ora, immaginavo che svestire e mettere sotto le coperte due bambine addormentate non fosse esattamente facile, quindi mi misi ad aspettarla con pazienza.

Dopo un po’ però iniziai a sentire il sonno prendere il sopravvento su di me e, per evitare che lei mi trovasse addormentato sul tavolo della sua cucina qualche minuto dopo, mi alzai e feci un giro in salotto. Come l’altra stanza, anche questa era molto accogliente. Un divano dall’aria comoda e un tappeto bianco soffice di fronte alla tv, qualche cuscino colorato qua e là e tanti quadri appesi alle pareti. Il camino era ancora leggermente acceso dalla sera prima e al suo interno le braci illuminavano la stanza con qualche bagliore rosso fuoco.
Stavo per spegnere la luce e tornare in cucina dopo il mio piccolo giro panoramico, quando notai una foto sopra la mensola del camino. Essa attirò la mia attenzione perché era l’unica che c’era, in mezzo a una statuetta della Torre Eiffel e a una miniatura della statua della Libertà. Quando fissai dall’altro lato della stanza quei freddi occhi blu, impressi sulla carta per sempre, tutto il sonno sparì all’istante e il battito del cuore accelerò notevolmente. Mossi qualche passo all’indietro, come per allontanarmi da quell’immagine, perché non poteva essere vero. Arretrai sempre di più fino a che i miei polpacci urtarono il divano e mi lasciai cadere a peso morto su di esso, senza preoccuparmi del rumore che avrei potuto causare nella casa silenziosa e addormentata.

Con mani tremanti tirai fuori la fotografia, l’altra fotografia, che avevo trovato quel pomeriggio alle giostre. Era lo stesso ragazzo, non c’era dubbio. E se averla trovata vicino alla giostra dalla quale le due bambine erano appena scese aveva potuto essere una coincidenza, la foto nel salotto della loro casa non lo era di sicuro. Quel ragazzo era la mia fotocopia e il fatto che una sua immagine fosse nel salotto di Sophie, indisturbata, come se nulla fosse, e senza che lei avesse mai minimamente accennato a quella somiglianza, mi lasciava uno strano senso di vuoto e incompletezza all’altezza dello stomaco. Sapevo che dovevo parlarne con lei, prima di farmi mille castelli per niente, ma quando lei scese le scale qualche secondo dopo, non riuscii più a guardarla con affetto e tenerezza, come avevo invece fatto fino a mezzora prima.
Un velo di ghiaccio era calato sui miei occhi, allontanandomi dal fuoco vivo dei suoi e quando vidi il suo sorriso stanco ma soddisfatto per aver messo a letto le bambine, non potei fare a meno di corrucciare la fronte e distogliere lo sguardo, confuso e infastidito.

Sophie, quante cose mi stai nascondendo? E qual è il vero motivo per cui sei entrata nella mia vita?


♦♦♦♦♦

 
 Scesi le scale a tre scalini alla volta, impaziente di passare ancora un po’ di tempo con lui prima che dovesse ripartire per Londra. Mi stavo quasi per precipitare tra le sue braccia, ma lo sguardo che vidi sul suo viso, corrucciato, disorientato, quasi arrabbiato, congelò tutte le mie intenzioni e mi fermai a qualche passo dal divano sul quale era seduto, le braccia conserte e le labbra serrate in una linea dritta e severa.
 
“Che cosa succede? Hai una faccia!” gli dissi cercando di mantenere un tono scherzoso, ma la preoccupazione era già tangibile nella mia voce.
 
“Perché non me lo dici tu che cosa succede, Sophie?” e mentre parlava non mi guardava nemmeno in faccia, perché il suo sguardo era puntato verso la mensola del camino e, più precisamente, alla fotografia di Micheal che vi era appoggiata sopra. Io rimasi in silenzio, odiando me stessa per essermi dimenticata di quella foto e non aver pensato a nasconderla in qualche modo prima che arrivassimo.
 
“Se non ti va di parlare di quella foto, perché non mi parli di questa invece, eh?” e mi gettò un’altra foto che stava stringendo fra le mani. Era un’altra immagine di Micheal e la riconobbi all’istante, dalle poche parole che erano state scarabocchiate sul retro con una penna viola. “Per sempre con noi”, nella calligrafia disordinata e ondeggiante di una bambina: Elizabeth. Era la foto che tenevano sempre sulla scrivania nella loro cameretta, ed ero stata così distratta in quei giorni, che non avevo nemmeno notato la sua assenza.
Era normale che avessero voluto portarla con loro quel giorno, per sentirlo più vicino, non potevo farne loro una colpa. Come avevo potuto essere così stupida? E soprattutto come avevo potuto pensare di tenere la verità nascosta a Louis? Non che fosse chissà quale rivelazione per lui, ma questa era stata la mia occasione per mettermi alla prova, per fargli capire che si poteva fidare davvero di me, che non volevo ci fossero più segreti e parole non dette tra noi, invece l’avevo deluso e ora dovevo pagarne le conseguenze.
 
“Va beh, visto che non hai intenzione di darmi neanche uno straccio di spiegazione..” e fece per alzarsi. Quando capii che se ne voleva andare davvero mi gettai in avanti per fermarlo e sentii un dolore quasi fisico, al centro del petto, quando lui si ritrasse, con un’espressione quasi disgustata, dal mio tentativo di poggiargli la mano sul braccio per calmarlo.
 
“No! Non te ne andare ti prego..” dissi con un tono di voce che lui non mi aveva mai sentito, ma che io invece conoscevo così bene, ed ero quasi sorpresa di non aver sentito me stessa usarlo per così tanto tempo. Era il tono di voce che avevo usato ogni singola volta che qualcuno non ne aveva potuto più di me e aveva deciso di andarsene. E ogni volta che qualcuno se ne andava, io incolpavo me stessa, per non aver saputo trattenerli, per non aver saputo essere abbastanza per loro.
Perché un conto è non sforzarsi e accettare che una persona se ne vada, un altro conto è non poter fare altro che osservarli scivolare via dalle nostre dita, consapevoli di aver fatto il proprio meglio, di aver dato il proprio massimo, ma quel massimo non è bastato perché quelle persone che non ci vogliono più hanno trovato di meglio. Avevo sempre saputo che il mio massimo a Louis non sarebbe mai stato sufficiente, che nonostante tutto l’impegno che potessi metterci, lui avrebbe sempre potuto trovare di più, di meglio. Vederlo però andare via così ora, non perché si fosse improvvisamente reso conto che io per lui non ero abbastanza, ma perché non ero stata sincera, andava oltre ogni mia capacità di resistenza.
Non c’era nulla da accettare, niente da metabolizzare e nessun fattore esterno da comprendere. La colpa era mia e come quando ero piccola, e mia mamma mi sorprendeva a fare qualcosa di sbagliato, non avevo intenzione di arrampicarmi sugli specchi e inventarmi mille scuse per salvarmi, per giustificarmi. Ogni volta che qualcuno mi rimproverava, e io sapevo che avevano ragione, stavo lì, con la testa china, a sentirmi dire ancora una volta quanto sbagliata fossi, quanto li avevo delusi e quanto non si sarebbero mai aspettati nulla del genere da me. Louis invece non mi aveva ancora detto niente, in piedi nell’ingresso, e forse quel silenzio era ancora peggio di un rimprovero.
 
“Resta, ti prego..” gli ripetei, facendo un altro passo verso di lui. Volevo toccarlo, afferrarlo per la giacca e tirarlo verso di me. Volevo poter sfiorare quelle guance arrossate per la rabbia e distendergli la ruga che gli si era formata in mezzo alle sopracciglia. Volevo che si sedesse lì per terra con me, davanti alla porta, e che mi stringesse come aveva fatto prima, in macchina, quando nessuno dei due aveva idea di quello che sarebbe successo qualche ora dopo in quella stanza.
Ancora una volta le mura di una casa tornarono a sembrarmi le pareti di una prigione, come lo erano state in passato quelle di casa mia, e come allora il mio primo istinto fu quello di scappare, ma questa volta non potevo, non potevo fare questo a Louis. Louis che si meritava una spiegazione. Louis che mi voleva bene. Louis che l’aveva protetta da se stessa.
 
“Mi vuoi dire chi è quel ragazzo e che cosa c’entra con te?” mi chiese qualche secondo dopo e potevo vedere nel modo in cui chiuse gli occhi quando parlò, quanta fatica gli stava costando mantenere un tono di voce normale e non mettersi ad urlare in mezzo al corridoio deserto. Rimasi a fissargli le labbra che si aprivano per formulare quelle parole, poche, ma così precise e taglienti. Lo guardai come quando da bambina mi mettevoa fissare il sole e gli adulti mi dicevano di smetterla. Io continuavo e loro mi dicevano “Ma lo sai che fa male?". Allora abbassavo lo sguardo e c’era ancora la luce accecante negli occhi, sull’asfalto, sulla punta delle scarpe, sulle targhe delle macchine che provavo a leggere. E mi successe così anche quella volta, con Louis davanti a me che aspettava, che si meritava una spiegazione. Mi mettevo a fissare i ricordi, “Ma lo sai che fa male?" e mi riempivo gli occhi del mio passato e non vedevo più niente del presente.
 
“Lui è Micheal..” dissi in un sussurro “Il fratello maggiore di Katherine, Elizabeth e Adam..” continuai, senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Sentii il suo respiro accelerare, ma non sapevo se per la sorpresa, l’agitazione o la rabbia. Ogni spiegazione mi faceva paura, perché non importava quale fosse quella giuista, ognuna avrebbe portato alla parola fine. Nessuna di quelle alternative mi avrebbe ridato indietro Louis.
 
“E perché non me ne hai mai parlato? Quante volte ti ho chiesto della famiglia con cui vivi, per conoscerti meglio, per capire come sei, per imparare cosa ti piace. Ma tu niente, mai neanche un accenno..” mi rispose lui e la sua voce era talmente bassa che la si udiva appena, il rumore del frigorifero in sottofondo.
 
“Lui è morto circa un anno fa, prima che io venissi a vivere con loro. Di solito era lui che si occupava dei bambini quando era a casa e la sua scomparsa fu il motivo principale per cui Clark e Marie cercarono una ragazza che li aiutasse. Tuttavia quando arrivai, non mi dissero molto di lui. Soltanto che era morto in un incidente  e che non si parlava mai di lui perché gli altri bambini ne erano ancora molto scossi. Di più non mi fu detto e io non chiesi mai, e andò tutto bene fino a una sera di circa cinque mesi fa, quando scoppiò un violento temporale che fece andare via la corrente. Ero a casa da sola con Adam quella sera e ancora lui non si fidava molto di me. Era un bambino timido e amava avere i suoi spazi. Quando però cominciarono a sentirsi i primi tuoni, mi pregò di prenderlo in braccio e di mandarli via. Continuava a ripetere di non aprire loro la porta e di dire che ormai era morto, che non potevano più fare niente per lui. Rimasi profondamente turbata da quelle parole e non ti nascondo che mi spaventai molto a vederlo singhiozzare in quel modo. Quella sera poi ne parlai con i suoi genitori e così mi spiegarono che in una notte come quella, un anno prima, Micheal aveva perso la vita, scivolando dalla sua moto a causa dell’asfalto bagnato. Le sue ultime parole prima di uscire per andare da un amico erano state “Non preoccuparti mamma, tra un minuto vado via” e se n’era andato davvero, perché da allora non gli sentì mai più dire altro.”
 
“È sicuramente una storia molto triste e mi dispiace, ma continuo a non capire cosa c’entra tutto questo con me!” chiese spazientito, e sapevo che ormai era arrivato il momento di dirgli la verità.
 
“Ha a che fare con te, perché tu sei come lui, almeno fisicamente intendo. Prima di quel giorno non avevo mai visto una sua fotografia, ma quando me ne mostrarono un paio non potei non notare la somiglianza con te. Già allora ti conoscevo perché passavo gran parte delle mie giornate con le due gemelline e loro non facevano altro che parlare dei One Direction, in particolare di te. Prima pensavo fosse solo una stupida ossessione, tipica della loro età, ma quando poi mi accorsi della somiglianza impressionante tra voi due, tutto mi fu improvvisamente chiaro. Katherine e Elizabeth ti seguivano con così tanta dedizione non per la tua voce, certo le vostre canzoni le piacevano, ma soprattutto perché ricordavi loro il fratello maggiore che avevano perso. Si appoggiavano a te per non dover accettare che Micheal non ci fosse più, come una specie di fantasma, che per quanto irreale le aiutava a mantenersi a galla..” andai avanti a spiegare, sperando, pregando che una piccola parte di Louis si fidasse ancora di me e mi credesse.
 
“Continuo a non capire, cosa c’entra tutta questa storia con noi due?” mi chiese ed ebbi un brivido all’idea che potesse ancora pensare a me e a lui insieme, a un noi. Ma sapevo che non dovevo farmi illusioni.
 
“Lo so che non capisci ancora, ma ci sto arrivando. Le cose cambiarono quando il giorno del vostro concerto a Oxford cominciò ad avvicinarsi. Non erano riuscite a prendere i biglietti, ma avevano scoperto il nome dell’albergo, e siccome i loro genitori lavoravano, Marie chiese a me di accompagnarle. Io non volevo, perché, beh, non ho mai fatto mistero del fatto che non mi piacevate. Ma ora sapevo di Michael, sapevo perché ci tenevano così tanto a vederti e così le portai fuori da quel maledetto albergo. Non so che cosa c’era di strano quel giorno, forse eravate di fretta, forse perché pioveva, ma nessuno di voi quando uscì si fermò. E la cosa peggiore fu che loro continuavano a dire che tu saresti stato diverso, che tu, a differenza degli altri, ti saresti fermato. Invece non fu così e il dolore che vidi sui loro volti quando se ne accorsero fu semplicemente troppo.” Un lampo di comprensione passò negli occhi di Louis.
 
“Quindi è per questo che sei arrivata lì come una furia e mi hai tirato quello schiaffo?” mi chiese serio.
 
“Sì, e la cosa peggiore fu che l’avevo fatto per loro, ma le due bambine se la presero ancora di più con me, dicendo che era colpa mia che te ne eri andato. Le loro parole, unite al bel discorsetto che i tuoi manager mi fecero in ufficio, mi ridussero uno straccio. Poi tu arrivasti di colpo in libreria ed ero ancora così arrabbiata che non avevo voluto cedere e dirti la verità di cui eri in cerca. Dopo tu te ne uscisti con l’idea dell’appuntamento e quella sera a cena fui a un passo dal raccontarti tutta la storia, ma ancora una volta non lo feci, perché ero convinta che quella sarebbe stata l’ultima volta che ti avrei visto. Innamorarmi di te non faceva parte del piano..” ammisi, lasciandomi scappare un singhiozzo, che Louis ignorò completamente. Se ne stava in silenzio, perso in chissà quali pensieri, così continuai a parlare, per allontanare il momento in cui se ne sarebbe andato, senza guardarsi indietro.
 
“Non mi parlarono per tre settimane di fila e con Marie pensammo che l’unico modo per risolvere la situazione sarebbe stato fare in modo che potessero passare qualche ora con te..” Louis non mi lasciò finire, perché si mise a ridere, ma la sua era una risata amara, senza nemmeno una goccia di allegria.
 
“Ma che brava Sophie, quindi è per questo che hai voluto che ci incontrassimo oggi, non è vero? Così che ricominciassero a parlarti e non ti vedessero più come quella cattiva. E io che pensavo che loro fossero solo una scusa per rivederci e ho quasi litigato con Liam per ottenere un pomeriggio libero per stare con te..” e a quel punto dovetti mettermi fisicamente contro la porta, per impedirgli di uscire.
 
“No, non dire così. Lo sai che non è vero! Tutte le telefonate e i messaggi nelle settimane prima di oggi, le pensavo davvero, le penso davvero quelle cose! Non ho scelto io che tu entrassi nella mia vita, ma ho deciso di combattere affinché ci rimanessi. Non lo capisci? Proprio perché sei importante, e non volevo che la nostra storia rimanesse un segreto, ho voluto sistemare le cose con loro!”
 
“Allora perché non mi hai detto di Micheal? Non ti fidi abbastanza? Non hai pensato che avevo il diritto di sapere la verità prima di incontrarle oggi? Non pensi che se lo avessi saputo mi sarei potuto comportare meglio con loro e non rischiare di deluderle ancora? Mi sento un tale idiota!” mi chiese arrabbiato.
 
“Non sei un idiota, Louis! E oggi sei stato splendido con loro, non avresti potuto comportarti meglio! Guardami ti prego!”
 
“Ti sto guardando, ma la persona che vedo non è la Sophie che pensavo di conoscere. Forse quella Sophie neanche esiste. Ho scoperto più di te in mezzora stasera che in quattro settimane!” e nella sua voce c’era solo rabbia per se stesso, per avermi creduto, per essersi fidato, e tanto, tanto disprezzo.
 
“Certo che esiste, Louis! Sono io, e ti prego di credermi. Il fatto che io non ti abbia parlato di Micheal non c’entra niente con noi, non devi mettere in discussione quello che provo per te!”
 
“Scusa se te lo dico, ma non sei proprio nella posizione di dirmi cosa devo o non devo fare!” e quando mi disse queste parole indietreggiai, perché non era più Louis, ma Louis Tomlinson, la popstar internazionale, snob e presuntuosa. “Cazzo Sophie, io ti ho baciata oggi pomeriggio, non so se te lo ricordi! E mi sono messo contro tutta la produzione, per cantarti una canzone che non era nostra al concerto stasera!”
 
“Lo so, ed è stato bellissimo gesto da parte tua, ma io non potevo sapere..” tentai di difendermi.
 
“Che cosa? Non potevi sapere che non sono una marionetta e che non puoi manovrarmi come vuoi? Grazie per il pensiero, ma ho già troppe persone che cercano di controllare ogni minima cosa che faccio, non ho bisogno che lo faccia anche tu!” mi disse risentito. Fu come ricevere una pugnalata. Mi aveva paragonata ai suoi manager, a tutte quelle persone che gli stavano accanto solo per soldi o per avere il loro quarto d’ora di gloria. Mi sentii cadere, in basso, ma nonostante la profondità di quell’abisso, non trovai in esso le parole per rispondere a quelle accuse. Qualche secondo dopo rialzai gli occhi, per cercare i suoi, già rassegnata a trovarci dentro altra rabbia e rancore. Invece c’era solo silenzio. Le pupille erano diventate così scure, per la luce, per la delusione, che il blu quasi non si vedeva più. Il blu che così tante volte mi aveva salvata. Il blu in cui nuotare non mi faceva più paura. Il blu che mi aveva dato da bere e che mi aveva lavata dalle mie paure ogni volta che i suoi occhi si erano posati sui miei. Quello, più che il tono di voce che Louis usò poco dopo, mi convinse che non c’era più nulla da fare. Niente a cui aggrapparsi. Niente che potesse salvarci. Un clacson risuonò dalla strada.
 
“È meglio che io vada..” mi disse con voce assente, distratta, e senza una parola, uno sguardo, una tocco di più, Louis si girò e uscì, non solo da quella porta, ma probabilmente anche dalla mia vita.

EPILOGO

 
Sophie non si sarebbe dimenticata le cose che Louis le aveva detto. Non tanto perché erano state sincere, non tanto perché erano state importanti, ma per il modo in cui quelle cose l’avevano fatta sentire. Erano passati cinque giorni da sabato sera e fondamentalmente lei aveva smesso di farsi domande. Non si chiedeva più come aveva potuto essere tanto orgogliosa e stupida, come aveva potuto lasciar andare Louis, guardando scivolare via la fiducia che lui aveva avuto in lei, come una manciata di sabbia tra le dita.
Il primo giorno no, perché quello fu terribile e buio, senza nessun messaggio o telefonata, ma già dal secondo giorno Sophie iniziò a dirsi che forse era destino che le cose avessero dovuto andare esattamente in quel modo. Anche se quella sera non fosse successo nulla, Louis a breve sarebbe partito e sapevano entrambi quanto debole e acerbo il loro rapporto fosse.

Disse a se stessa che spesso ci ostiniamo a tenere in piedi cose che non hanno avuto il coraggio di sostenersi da sole per sfidare il vento freddo e pungente. Ci mettiamo noi controvento a camminare per loro e a volte funziona, ma questo non è il modo in cui l’amore dovrebbe essere. L’amore, quello vero, quello che dura, è sicuro di sé, non ha bisogno di essere convinto, di essere spinto nella giusta direzione.
Sophie non avrebbe dimenticato Louis, questo no, perché il fatto che una persona non sia più fisicamente con te non significa che non te la porti dentro ovunque vai. E non avrebbe dimenticato neanche ciò che lui le aveva insegnato, incominciando dal riavere fiducia in se stessa e a superare, poco a poco, le sue paure. Sophie si sarebbe sempre ricordata di Louis, non importava quanto ormai lui la odiasse, perché era stato capace di farla sentire come se lei non fosse la cosa più sbagliata del mondo, e quella non era una cosa che Sophie, anche se ci avesse provato, avrebbe potuto dimenticare.
 
Era con quei pensieri in testa, mentre affondava distrattamente la bustina di tè nella tazza piena di acqua bollente, che mercoledì pomeriggio Sophie sentì la porta dell’ingresso aprirsi e richiudersi subito dopo con un scatto. Qualche istante dopo Adam e suo padre entrarono in cucina, i cappotti ricoperti da goccioline di pioggia. Non si era nemmeno accorta che aveva cominciato a piovere. Gironzolarono per un po’ nella stanza, facendosi entrambi una tazza di tè per riscaldarsi, ma era ovvio, perfino agli occhi stanchi e offuscati di Sophie, che le stessero nascondendo qualcosa. Così decise di chiedere e, quando aprì la bocca per parlare, dovette prendersi dei secondi per schiarirsi la gola, perché parlare ad alta voce, dopo così tanti giorni di silenzio, le faceva quasi male.
 
“Com’è andata allo stadio?” chiese sforzandosi di essere cordiale, ricordando vagamente di quando quella mattina l’avevano informata che sarebbero andati a Londra per vedere una partita.
 
“Bene, avevamo dei posti fantastici, per fortuna si è messo a piovere solo quando stavamo già tornando indietro!” rispose Adam cercando di suonare entusiasta, ma il sorriso non gli raggiunse gli occhi.
 
“Perché non mi dite che cos’è successo, così evitiamo di stare qui a prenderci in giro?” sbottò lei quando ne ebbe abbastanza di quelle chiacchiere vuote.
 
“Abbiamo visto Louis, era seduto qualche fila davanti a noi..” rispose cauto Clark. Sophie dovette chiudere gli occhi per non mostrare quanto quelle parole le avessero fatto male. Avrebbe pianto dopo, tra qualche minuto, da sola nella sua stanza, ma non lì, davanti a loro.
 
“Era solo? Voglio dire.. Era con qualche ragazza?” si sforzò di chiedere.
 
“No, era con un paio di suoi amici che non avevo mai visto. È venuto subito quando mi ha visto e mi ha chiesto come stavo..” Tipico di Louis. Sempre così fottutamente gentile. Sempre a preoccuparsi per gli altri.
 
“Poi mi ha detto che gli dispiaceva che non ci fosse stato Niall, perché era sicuro che ci saremmo trovati bene insieme, visto il panino enorme che stavo mangiando..” continuò Adam, sorridendo al ricordo.
 
“Come mai gli altri ragazzi non erano con lui?” Sophie chiese cercando di suonare disinteressata.
 
“Perché sono partiti domenica per l’America, sai per il tour. Ha detto che lui aveva prenotato un volo questa settimana e non era partito subito come invece avevano fatto loro.. Per stare con te.”
 
“Davvero ha detto così?”
 
“Certo che no, ma si capiva! Ho tredici anni, non sono più un bambino!” rispose Adam in tono fiero, ma lei ormai non lo sentiva già più. Louis non era partito con gli altri. Louis aveva programmato di restare ancora in Inghilterra per passare del tempo con lei, solo loro due. Louis si trovava a Londra da solo, mentre i suoi amici erano già oltreoceano. Sophie allora capì che meritava di saperlo. Meritava di sapere che lo aveva saputo e che, anche se probabilmente non gli importava più, lei gliene era grata.
 
“Clark prendo la tua macchina, okay? Non ci metterò molto, promesso!” esclamò all’improvviso, alzandosi dal tavolo e afferrando il mazzo di chiavi nell’ingresso.
 
“No, dammi le chiavi!” le rispose lui.
 
“Per favore, ho bisogno di parlargli..” Sophie lo supplicò.
 
“Dammi le chiavi. Guido io!” e le sorrise brevemente, prima di uscire con lei sotto la pioggia battente.
 
Quarantacinque minuti dopo Clark accostò nel parcheggio dell’aeroporto e Sophie schizzò fuori dalla macchina, in preda a mille pensieri. Magari l’aereo è già decollato. Magari ho sbagliato terminal. Magari farà finta di non vedermi. Si precipitò davanti allo schermo delle partenze e il suo cuore perse un battito quando vide che c’era un aereo diretto a New York tra meno di venti minuti. Lesse il numero del gate e cominciò a correre, ogni fibra del suo corpo che sperava non fosse troppo tardi. Arrivò all’imbarco e vi trovò una marea di gente. Uomini in giacca e cravatta, turisti, ma di Louis neanche l’ombra. Mancavano ancora dieci minuti, ma forse lui era già stato imbarcato, probabilmente avendo avuto un biglietto in prima classe.
 
“Merda, merda, merda!” sentì qualcuno sibilare dietro di lei e non ebbe bisogno di voltarsi per capire a chi apparteneva quella voce. Perdendo la sensibilità alle ginocchia vide un Louis disperato correre lungo il corridoio per raggiungere il gate prima che chiudesse. Per un attimo Sophie temette che nella fretta non l’avesse vista, ma poi lui si fermò, per sistemarsi il cappellino di lana che gli stava cadendo sopra gli occhi, offuscandogli la vista, e la vide.
 
“Che cosa ci fai qui?” esclamò, entrambi ancora ansimanti e con le guance arrossate per la corsa. Sophie avrebbe voluto solamente buttare la sua borsa per terra e gettarglisi addosso, facendogli cadere il biglietto e il passaporto di mano. E forse un tempo, lui glielo avrebbe lasciato fare e si sarebbe stretto più forte a lei. Ma non quel giorno, non dopo la litigata dell’altra sera, e Sophie lo sapeva bene. Se voleva impedire che Louis salisse su quell’aereo, sapeva che doveva parlare, e che doveva farlo sinceramente, mettendo da parte tutta la sua vergogna, il suo orgoglio, e le sue insicurezze.
 
“Ho bisogno di parlarti! Poi potrai salire su quell’aereo e dimenticarti di avermi mai incontrata, ma ora per favore, ascoltami!” lo supplicò.
 
“Voglio solo sapere perché sei qui..” insistette lui.
 
“Perché non posso sopportare l’dea di perderti per sempre!” rispose lei, sull’orlo delle lacrime.
 
“E perché me lo stai dicendo qui adesso, dopo cinque giorni di completo silenzio?”
 
“Perché con te non riesco a mentire, come non stavo mentendo sabato sera quando ti ho detto che non avevo programmato di innamorarmi di te! E io so mentire Louis, ci ho vissuto grazie a questo e, anche se è brutto dirlo, non sai quanta sofferenza mi sono risparmiata! Ma con te non ci riesco, e questo mi terrorizza! Per anni sono stata quella che era talmente stanca e delusa dalla vita che riusciva ad abituarsi a tutto. Non importa quanto già difficili le mie condizioni fossero, un’altra cosa andata per il verso sbagliato non era che un’ulteriore mattone sulle mie spalle, che ormai non mi curavo neanche più di inarcare, per alleggerirmi il peso. Ero vuota Louis, vuota. Non sentivo niente, non c’era niente dentro di me e mi andava bene così. Perché quando sei vuota non importa quanto male ti fanno le persone che incontri, non hai niente da dargli e  non c’è niente quindi che ti possano portare via. Invece in queste settimane io ti ho offerto tutto di me su un piatto d’argento, pronto per essere preso e gettato via, una volta che ti fossi stancato del giocattolo nuovo, che non brillava più, o dopo che ti fossi resi conto che non aveva mai veramente brillato come avevi creduto. Tu, standomi vicino, mi hai fatto venire voglia di non essere più quella ragazza vuota e, a poco a poco, ho lasciato che i colori rientrassero nella mia vita. Li tenevo nel cassetto, non ero ancora pronta ad usarli, ma erano lì e sapevo che, qualora avessi voluto, avrei potuto tirarli fuori e imbrattare le tele bianche dentro di me. Quando te ne sei andato, sono tornata a sentirmi trasparente, come se tu non fossi mai entrato nella mia vita. Andandotene mi hai svuotata e ho pensato che io senza di te, quei colori, non li volevo più. Ti ho urlato, supplicato, con tutta la voce che avevo di riprenderteli, di lasciarmi solo il nero, perché è così che sentivo. Nera, vuota, perché essere capace di sentire qualcosa fa paura, sentire questo per te fa paura. Ma quando Adam è tornato a casa oggi e mi ha detto che ti ha incontrato da solo allo stadio, mentre gli altri erano già partiti, ho capito che non potevo lasciarti partire senza dirti quanto hai fatto per me, e che tu hai tutto il diritto di dimenticarmi, ma che voglio che tu sappia che io non farò lo stesso, non ci proverò nemmeno. Il sole non smette di essere giallo perché qualcuno è costretto in casa e non può uscire a guardarlo, Louis. Tu ci sarai sempre, e continuerai a splendere, anche se io non potrò più essere là fuori con te a guardarti!”
Non era esattamente quello che Sophie aveva programmato di dirgli, la parole avevano cominciato a uscire dalla sua bocca senza controllo. Aveva abbandonato la sua razionalità e già se ne stava pentendo, perché era sicura di aver confuso ancora di più le cose tra di loro. Per questo motivo il sorriso di Louis, quando lei smise di parlare, le risultò completamente fuori luogo.
 
“Perché non ci beviamo qualcosa di caldo prima del prossimo aereo?” le chiese, indicando i loro cappotti umidi.
 
“Ma se il tuo aereo è già qui e sta per partire..” le disse lei, con voce confusa.
 
“Biglietto rimborsabile!” si limitò a risponderle Louis, piegando le sue labbra in un sorriso divertito.
 
“Allora perché non te lo sei fatto cambiare subito e non sei partito con gli altri?”
 
“Perché non ho mai smesso di sperare che saresti venuta a fermarmi. Non te l’avrei mai perdonato, se non fossi corsa qui oggi, lo sai?”

E forse non tutto fra di loro era stato risolto, forse non ogni cosa era stata chiarita, ma Louis lasciò cadere a terra il suo zaino per aprire le braccia. Sophie ci si fiondò dentro, senza un secondo di esitazione, con tanto impeto da farlo quasi cadere all’indietro, e nascose la sua testa nell’incavo tra il collo e la spalla.

Un tuono risuonò in lontananza, ma quando Louis rise sorpreso, accarezzandole piano i capelli e tornando a respirarne il profumo, sospirando di sollievo, Sophie seppe che il temporale là fuori non aveva niente a che fare con loro.




Buonasera a tutti! Non riesco a crederci che questo sia davvero l'ultimo capitolo!!
Penso che ormai non ci siano più tanti commenti da fare sulla storia, mi era passato per la mente di farlo finire quando Louis ne andava, lasciando Sophie lì sola nell'ingresso, ma poi mi sono sentita in colpa e allora ho aggiunto un epilogo in terza persona, che ha allungato il capitolo, ma che penso sia stato utile come conclusione imparziale della storia!!
Spero davvero che il finale sia stato all'altezza delle vostre aspettative e visto che siamo agli sgoccioli, ci tengo a ringraziare tutte le persone che hanno sempre recensito! Sono grata ovviamente anche a coloro che l'hanno messa nelle preferite e tutto, però davvero ci tengo a dire grazie a quelle persone che ogni settimana si precipitavano qui per commentare, sapendo quanto mi avrebbe resa felice! Grazie per aver letto questa storia, per averla seguita e per averla trovata interessante e non la classica storiella irreale e zuccherosa!!
Per chi vorrà, ci sentiamo presto con delle storie Larry (i miei piccoli) *-*
Per ogni cosa mi trovate su twitter! @martolinsss Grazie ancora, buone vacanze a tutti!
Marta


   
 
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