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Autore: Ever Lights    29/07/2013    3 recensioni
One-shot partecipante al contest di Aniasolary, "Never and Again contest"
"All’improvviso tutto sembrò cambiare: Jacob non aveva più tredici anni, Isabella non ne aveva più nove. Sembravano due adulti, che si tenevano mano nella mano. Due grandi amici che ricordavano i bei momenti passati insieme.
Bella si girò verso il suo migliore amico, guardandolo in viso. «Jake, mi prometti una cosa?»
Lui si voltò nello stesso istante in cui i loro occhi si incrociarono. Una specie di scintilla animò le loro anime, qualcosa oltrepassò il cielo, l’albero ondeggiò e il vento si fece più forte, ma non si accorsero quasi di nulla. Lui annuì, prendendole forte la mano. Tredici anni e qualcosa che stava per succedere, qualcosa che lo avrebbe cambiato nel profondo.
«Mi prometti che, ovunque noi saremo, anche fra tantissimi anni, ti ricorderai di me?»
[...]
«Rimirare un tramonto mi ricordava te. Tu eri il mio tramonto, lo sei sempre stata. La promessa di non dimenticarti l’ho mantenuta, sono stato fedele.»
"
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Jacob
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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tramonto
Tramonto




I capelli della bambina svolazzavano liberi nella brezza fresca di un tardo pomeriggio d’estate, con il sudore che le imperlava la fronte e le braccia, le mani che tenevano saldo l’orlo del vestito, troppo lungo e inadatto per una corsa nei campi.
Isabella correva, senza voltarsi indietro, le risate che si perdevano libere come uccelli nel cielo. Gli steli di grano le colpivano le gambe, un leggero bruciore si propagava sulla pelle chiara come la luna, piccoli segni rossi le imporporavano quel candore così bambinesco.
«Bells! Aspettami!»
Lei si girò, guardò per un istante il suo migliore amico che la seguiva veloce, con la pelle ambrata che risplendeva sotto i raggi cocenti del sole.
«Tanto non mi prendi!», lo canzonò, mostrandogli la lingua in segno di sfida. Isabella sapeva che Jacob Black era un ragazzino tenace e in qualche modo vendicativo, eppure non la spaventava l’idea di farlo arrabbiare: lo conosceva forse fin troppo bene, per lei era come un fratello maggiore.
La bambina aumentò l’andatura, sfrecciando in mezzo al campo di grano, centinaia di piccoli chicchi librarono al passaggio di Bella.
Il ragazzino non smetteva di correre, con solo l’obiettivo di prenderla e farle così tanto solletico da toglierle il respiro, ottenendo così la vittoria poiché lo avrebbe scongiurato di smettere. Era il tallone d’Achille che indeboliva la sua migliore amica, forse uno dei pochi che Jacob sapeva.
«Non mi sfuggirai!», le urlò, cercando di essere il più serio possibile, soffocando una risata e abbozzando un sorriso. Intanto Isabella era sparita dal suo raggio visivo, ma sentiva chiaramente il grano spezzarsi più in là, vicino al piccolo ruscello. Non si fermò, continuò a correre fino a che gli steli pronti alla mietitura si diradarono per poi scomparire totalmente alle sue spalle. La bambina era alla base di un melo alto qualche metro; Bella teneva le mani dietro alla schiena, un sorrisetto furbo le dipingeva il viso, le gote arrossate, piccole gocce di sudore che le colavano lungo le tempie. Il vestito e le ginocchia erano macchiate d’erba – forse era caduta un paio di volte, le scarpe da festa sporche di terra, il fango le imbrattava i calzini bianchi.
I loro sguardi si incrociarono. Isabella fece un passo indietro, senza mostrare le mani, e Jacob avanzò verso di lei. Qualche secondo dopo, la bambina era già sui rami più alti del melo, mentre il ragazzino la seguiva a malapena, con il fiato corto e le mani che gli bruciavano. Lei sì che era brava ad arrampicarsi sugli alberi senza farsi male, non come lui che si sbucciava perennemente le ginocchia e i palmi quando provava a salire su qualche tronco.
Ovvio, Isabella era una ragazzina delle campagne, una che non riusciva a fare a meno di stare a stretto contatto con la natura. Passava ore sugli alberi vicino a scoiattoli o uccellini; cantava per chissà quanto tempo, fischiando e attirando l’attenzione di vari randagi che passavano a qualche metro da lei. Non si conteneva quando trovava qualche cucciolo abbandonato, portandolo da sua madre che prontamente la rimproverava con parole dolci per non ferire quella bambina buona come il pane.
Jacob invece era totalmente il contrario della sua migliore amica: passava il suo tempo per le strade, con i suoi coetanei, oppure dentro casa a suonare il pianoforte o a leggere un buon libro. Non era capace ad andare a cavallo o arrampicarsi su un albero, a pescare o a imitare i versi degli uccelli.
«Bells, scendi!», la implorò, massaggiandosi le dita. La corteccia gli aveva graffiato i palmi che ora sembravano andare a fuoco. Isabella gli fece una pernacchia e poi gli tese la mano, come a invitarlo a raggiungerla.
«Sai che non ci riuscirò mai, sto meglio quaggiù.», le rispose, eppure qualche secondo dopo si ritrovò seduto sul grosso ramo dove Bella aveva trovato rifugio. Da lassù vedevano tutto il campo di grano, e anche oltre: la strada, le automobili che sfrecciavano, le colline imporporate dal rosso del sole che cominciava a calare. Tante altre volte Jake aveva visto uno spettacolo così, ma solo su libri o in vecchie fotografie scattate da suo padre.
«È bello, vero?», mormorò Bella, ciondolando le gambe esili nel vuoto. Erano ad almeno tre o quattro metri d’altezza, e Jake si stupì del fatto che lei non volesse scendere, visto che soffriva fortemente di vertigini.
Lui annuì. Il vento era aumentato e ora solleticava i loro colli, i capelli della bambina avevano ripreso a volare e, colpiti dai raggi del sole, sembravano aver preso una sfumatura rossiccia.
«Vengo spesso qui, visto che è vicino casa. Ma non è la stessa cosa essere qui da sola o con qualcuno.», continuò lei, senza distogliere gli occhi da quel tramonto così incantevole. Quasi tutti i giorni saliva sull’albero, si accomodava, facendosi cullare dal canticchiare degli uccellini e dalla fresca brezza che risaliva dal rio e dal lago poco lontano, e aspettava che le tenebre calassero e che sua madre la chiamasse dal loro giardino illuminato con le vecchie lampade ad olio. «Volevo tanto portarci un amico.»
All’improvviso tutto sembrò cambiare: Jacob non aveva più tredici anni, Isabella non ne aveva più nove. Sembravano due adulti, che si tenevano mano nella mano. Due grandi amici che ricordavano i bei momenti passati insieme.
Bella si girò verso il suo migliore amico, guardandolo in viso. «Jake, mi prometti una cosa?»
Lui si voltò nello stesso istante in cui i loro occhi si incrociarono. Una specie di scintilla animò le loro anime, qualcosa oltrepassò il cielo, l’albero ondeggiò e il vento si fece più forte, ma non si accorsero quasi di nulla. Lui annuì, prendendole forte la mano. Tredici anni e qualcosa che stava per succedere, qualcosa che lo avrebbe cambiato nel profondo.
«Mi prometti che, ovunque noi saremo, anche fra tantissimi anni, ti ricorderai di me?»
Cosa poteva risponderle? Ovviamente sarebbero sempre stati migliori amici, avrebbero sempre vissuto nelle campagne del Kansas, frequentato lo stesso gruppo di conoscenti. Sarebbero andati nello stesso liceo e poi alla stessa università, magari scegliendo solo due formazioni diverse, ma Jake era sicuro che nulla sarebbe cambiato anche quando sarebbero cresciuti e gli anni sarebbero passati.
Invece non fu così, almeno lui non avrebbe mai pensato a un cambiamento così drastico.
 
 
New York, la grande mela. Le luci delle strade illuminavano le camere ormai buie dell’ospedale, mentre il pronto soccorso pullulava di vita come non mai.
Isabella si aggiustò il camice, posizionando lo stetoscopio a ciondoloni intorno al collo. Le sirene delle ambulanze ululavano, si avvicinavano, altre vite andavano salvate, altri cuori che non bisognava far cessare di pompare.
«Ho decisamente bisogno di un caffè.», mormorò la donna, rivolgendosi a una collega che se ne stava seduta al centralino. Le sorrise, porgendole la caraffa piena di liquido nero come la pece, che per le papille della dottoressa significavano una cosa sola: altre ore incessanti di duro lavoro.
Bella trangugiò il caffè caldo nel giro di pochi secondi, per poi buttare il bicchiere usa e getta. Aveva ottenuto una laurea in medicina e aveva trovato un posto fisso al Lenox Hill Hospital, e dopo tanti anni si chiedeva ancora perché avesse scelto quell’indirizzo di studi. Non che odiasse ciò che faceva, per carità, solo che… Forse non era la persona adatta a quel tipo di lavoro. Si affezionava incredibilmente ai suoi pazienti, si lasciava incantare dalle storie della loro vita, stava ore ad ascoltarli elogiare il proprio amore verso i figli, i nipoti, i famigliari in generale. Era come avere una seconda famiglia, altre persone a cui voler bene.
Ma quella era solo la parte piacevole dell’essere un dottore, ed era anche infinitamente minuscola rispetto a ciò che le aspettava giornalmente.
Quando un cuore cessava di battere, una mano mollava la presa da un’altra, un corpo cadeva nel sonno perenne, Isabella scaricava il compito a qualche suo collega di annunciare l’accaduto alle famiglie. La donna non sarebbe mai riuscita, conoscendosi, a pronunciare quelle parole che ormai aveva sentito tante volte. Si richiudeva nello stanzino e i singhiozzi si impadronivano del suo corpo, colpito da una crisi isterica. Non si era mai visto un medico piangere per la morte di un paziente, ma Isabella era fatta così, era debole sotto quel punto di vista.
«Fino a che ora vai avanti, stanotte?», le chiese la centralinista. «Fino alle quattro?»
Bella annuì, per poi controllare il cercapersone che suonava incessantemente. Congedò l’amica con un gesto della mano e corse verso l’entrata del pronto soccorso, dove un’equipe di colleghi la stava aspettando.
Le porte si spalancavano, i paramedici spingevano una barella con su sdraiato un uomo dalla pelle scura, con il collo bloccato e sangue ovunque.
«Uomo, trentatré anni, incidente stradale, rischio di trauma cranico, presunta frattura del femore e della tibia, ha perso molto sangue. Ha bisogno di una trasfusione e di recuperare liquidi persi. Gruppo sanguigno A positivo.»
La faccia del paziente era ricoperta da uno strato di liquido rosso ormai secco, gli occhi erano piccoli e socchiusi, le pupille dilatate dalla paura.
«Salve, sono la dottoressa Isabella Swan, è in ottime mani, non si preoccupi.», lo rassicurò Bella, stringendogli le dita intorno alle sue. L’uomo sbarrò gli occhi, cercò di dire qualcosa ma lo stato di shock non gli permetteva di produrre neanche un suono. Qualche secondo dopo, le pupille si rovesciarono all’indietro.
Isabella contò nella mente: uno, due, tre… Segni di un coma, lo sapeva, ormai lo riconosceva ancora prima che si fosse manifestato per intero. Il ragazzo le strinse un’ultima volta la mano, pronunciando una frase che nella mente di lei non si era mai cancellata.
La fecero allontanare, con le lacrime che le scendevano ripide lungo le guance, e se ne stava in piedi davanti alla sala operatoria, torturandosi l’interno della guancia fino a farlo sanguinare.
Si rifugiò di corsa nello stanzino, sedendosi per terra e portando la testa fra le ginocchia, urlando a pieni polmoni: una crisi isterica. Rimase lì per ore, fino a che il sonno non la prese.
 
 
La camera era scura, le serrande abbassate. Un’incessante bip gli frastornava le orecchie, un tubicino gli faceva il solletico nell’incavo del braccio.
I suoi occhi dovettero abituarsi all’oscurità prima di accorgersi che si trovava in una stanza d’ospedale. Jacob Black cercò di ricordarsi il più possibile: si era fermato per aiutare una ragazza con l’automobile in panne, poi si erano messi a chiacchierare, si era chinato e…
Il vuoto. Schiacciò le dita sulle tempie per cancellare il nero, per aiutarsi. Ricordava ancora solo un botto e il suo corpo dolorante, l’odore di sangue che gli riempiva le narici, il senso di nausea, la vista annebbiata…
Sprofondò ancora di più nel cuscino, con il rimbombare nelle orecchie. La testa gli faceva veramente male, la gamba sembrava andargli a fuoco. Nella flebo forse c’era morfina? O qualcos’altro per alleviare il dolore?
Ripensò per qualche secondo al volto della dottoressa, che all’inizio gli sembrava così famigliare… E poi erano bastate due parole, un’identificazione, per accertarsi della realtà.
Isabella Swan. La sua Bella, la bambina con cui correva nei prati nel Kansas. Quella ragazzina dai capelli lunghi castani che prima gli erano parsi molto più chiari di quanto rimembrasse. La Bella mingherlina con le gambe leggermente storte, con la spruzzata di efelidi sulle guance e sulle spalle, le gote che si imporporavano non appena qualcuno le faceva un complimento o un apprezzamento.
Le aveva voluto così bene che la sua immagine era rimasta viva negli anni. Jacob si ricordava perfettamente di lei, in ogni minimo particolare. Quasi conosceva la precisa posizione di ogni neo che aveva sulla schiena, quante lentiggini coloravano il suo viso grazioso. Tutte quelle piccole cose, quelle immagini insignificanti per quanto importanti per lui, avevano costituito il fotogramma di Isabella nella mente del ragazzo, perché aveva segnato una parte della sua vita. Erano cresciuti insieme, si erano voluto bene come fratelli. Lui l’aveva protetta come non mai.
Tossicchiò e sentì un bruciore nel petto, le bende gli pizzicavano la pelle. Si girò per guardare oltre la luce e sulla soglia vide un sorriso, il primo della giornata.
 
 
Le mani le bruciavano da matti, ma Isabella non se ne curò. Il calore del caffè sulle mani serviva per riportarla alla realtà, farle rendere conto che non stava sognando.
Dopo essersi addormentata appoggiata alla parete, con la testa fra le ginocchia, Eden, una sua collega, l’aveva trovata e fatta risvegliare dal suo torpore. Da quel momento, la testa di Bella sembrava scoppiare, peggio ancora che dopo una sbronza.
L’avevano obbligata a prendersi un caffè molto forte, perché nel caso della dottoressa era l’unico rimedio per far passare il mal di testa da post crisi isterica. Non l’avevano lasciata un secondo da sola, esattamente come succedeva tutte le volte che lei crollava psicologicamente.
“Ha bisogno di qualcuno con cui parlare, quando sa che è sull’orlo di una crisi. Stia con la gente, ci chiacchieri. Non stia mai da sola quando si sente sballottata.”
Era andata da uno psicologo. Uno psicologo, roba da pazzi… Come se ne avesse avuto veramente bisogno, o almeno lei la pensava così. Ma i suoi genitori l’avevano portata laggiù con la forza, come se si trattasse di una visita quotidiana. Era andata su tutte le furie, perché non sarebbe servito a nulla.
Era ancora seduta sulla sedia nello stanzino delle infermiere, con Eden che le accarezzava i capelli e le altre donne che le gironzolavano attorno come mosche, quando prese una decisione: doveva alzarsi, andare da quell’uomo e vedere se tutto era vero. Pensava di esserselo sognato, perché era strettamente impossibile, ma se la tenevano lì non poteva fare nulla.
«Devo andare da un paziente.», disse, raddrizzandosi. Teneva ancora il caffè in mano, che ora si era nettamente raffreddato per la gioia dei suoi poveri palmi.
Nessuno si oppose, e con passo svelto Isabella percorse i corridoi fino ad arrivare davanti alla porta dell’uomo sconosciuto del pronto soccorso. Dormiva ancora, la fronte imperlata da goccioline di sudore microscopiche. Doveva provare un dolore lancinante, e lo stomaco della dottoressa si contorse a quel pensiero. Se era veramente chi pensava che fosse, non se lo meritava, per niente. Il monitor segnava i suoi battiti cardiaci, che ora erano tornati regolari dopo un arresto durato meno di due minuti. Non tremava, non aveva convulsioni, non sembrava contorcersi più di tanto… I suoi colleghi avevano fatto un lavoro magistrale, come da etichetta. Ma Isabella non si dava pace. Doveva esserci lei in quella sala operatoria, tenere lei in mano il bisturi. Voleva dire allo sconosciuto che tutto sarebbe andato bene prima di farlo addormentare.
Ma ci sarebbe veramente riuscita? Avrebbe aperto quel corpo, lasciando sì che le voci nella sua mente smettessero di parlare?
Ora le mani le tremavano vistosamente, quindi la risposta era chiara. No, non ce l’avrebbe fatta. Si sarebbe allontanata urlando e piangendo, sentendosi solo in colpa. Non poteva torturare quell’uomo, non lei.
Era stato meglio così, in un certo senso, perché la crisi isterica in ogni caso era arrivata, e Isabella non aveva fatto in tempo per placarla.
Ripensò per un attimo alle parole dette dal paziente.
Te l’avevo promesso”
Voleva sapere il perché di quella frase. Magari, visto lo stato di shock e la commozione cerebrale, l’aveva scambiata per qualcun altro. Molte volte l’avevano salutata pensando a un’altra persona, era successo, non si preoccupava. Ma quella volta invece un senso di ansia le logorava lo stomaco, la pancia.
Quando rialzò lo sguardo, lui si era svegliato. Sorrise al pensiero che i medici dell’equipe l’avevano tenuto in vita, sebbene i traumi subiti fossero piuttosto forti. Oltre alla commozione cerebrale e alla frattura della gamba, aveva perso la milza e il bacino aveva riportato delle microfratture che nel giro di qualche settimana si sarebbero messe a posto.
Ad un certo punto, l’uomo si voltò, e lei sorrideva ancora. Rimase spiazzata, non sapeva cosa dire o cosa fare, così rimase sulle sue, con il sorriso sulle labbra, a giocherellare con il bordo del bicchiere di carta.
«Sono stati grandiosi, i miei colleghi. Si rimetterà presto.», mormorò, avvicinandosi lentamente. Posò il caffè sul comodino e si lasciò guardare: gli occhi di lui vagavano sul suo viso, esaminandolo in ogni piccolo particolare.
«Puoi smetterla di fingere, Bells.», disse rauco, porgendole una smorfia che poteva assomigliare vagamente ad un sorriso. «Non c’è bisogno di prendersi in giro.»
Lei ingoiò il nodo che le si era formato in gola e iniziò a giocherellare con le dita. «Jake?»
L’uomo annuì e debolmente le strinse le mani fra le sue, che tremavano. Le raccontò tutto, e lei si sedette al suo fianco, ad ascoltarlo attentamente, proprio come faceva con tutti i suoi pazienti.
Entrambi conoscevano però come si erano persi di vista: da un giorno all’altro Isabella dovette trasferirsi con i genitori a New York, mentre Jacob sarebbe rimasto laggiù, nel Kansas. La ragazza dei prati che si spostava a correre per le strade affollate di taxi e grattacieli; niente più campi di grano, tramonti visti dai rami di un melo, ruscelli che scorrevano pacifici al limitare di un giardino.
Jake se l’era immaginata, a piangere in un appartamento della Grande Mela, ricordando tutto ciò che si era lasciata alle spalle… Lui compreso.
Il ragazzino ormai uomo aveva fatto lo stesso: aveva trascorso interi pomeriggi chiuso nella sua stanza, a rimembrare la voce di Bella che era sparita assieme alla sua felicità.
Per entrambi il sole era sparito. Non videro più nessun tramonto senza ricordarsi l’uno dell’altra, lontani migliaia di chilometri.
«Rimirare un tramonto mi ricordava te. Tu eri il mio tramonto, lo sei sempre stata. La promessa di non dimenticarti l’ho mantenuta, sono stato fedele.», sussurrò lui con voce strozzata, segno che stava per cedere.
Isabella non sapeva se somministrargli una nuova dose di antidolorifici o rispondergli, ma presa dall’impeto posò le sue labbra fredde su quelle di Jacob, che erano totalmente l’opposto.
Quante volte avevano entrambi sognato un bacio come quello? Tante, troppe, soprattutto lui, che si era sempre immaginato al fianco della sua Bells, a guardare un tramonto in riva a qualche fiume o, meglio ancora, in cima a quel melo che aveva popolato i sogni di tutti e due.
Dopo qualche secondo si staccarono, le mani che ancora si stringevano. Ora le labbra di Isabella erano bollenti.
«È il tramonto.», sussurrò, fissandolo negli occhi scuri. Ricordava tutto di lui, ogni piccola cosa, e i suoi occhi le erano sempre piaciuti, così scuri e profondi, come la notte che ormai sovrastava la città.
Jacob la guardò sorpreso. «È notte fonda, non dire stupidaggini.»
Lei lo zittì, posandogli due dita sulla bocca. «È il tramonto che segna la fine della lontananza. Perché noi siamo di nuovo insieme, come sopra quell’albero di mele nel Kansas.»
Felici e liberi, mani nelle mani. Lui aveva di nuovo tredici anni, lei di nuovo nove. Erano di nuovo uniti.
 
 
Nel giardino della casa di campagna una bambina con la pelle ambrata e i capelli rossicci rincorreva le farfalle. I suoi occhi, dello stesso colore del cioccolato, le inseguivano, brillando al sole che ormai si stava ritirando dietro le colline. Dietro di lei, Isabella e Jacob ridevano, seduti su una coperta con un bimbo paffuto che muoveva i primi passi. I capelli neri e la pelle chiara risplendevano alla luce rossastra del crepuscolo, mentre gli occhi chiari – presi dalla nonna materna, sembravano gioire.
Erano ritornati nel Kansas per una vacanza, per far conoscere ai figli la terra che aveva cresciuto i loro genitori. Fra quei campi, era sbocciato un amore giovane, fanciullesco, nascosto dall’innocenza di una bambina ma scoperto alla mente dell’adolescente.
Ma in realtà era stata una pausa richiesta sia da Bella che da Jake, per tornare un po’ a scoprire loro stessi, per tornare dove erano nati, anche per incontrare i genitori di lui che ancora non avevano conosciuto il nipote maschio.
Le risate della famiglia si propagavano per tutta la distesa di erba. Nonostante ormai fosse tardo pomeriggio, e l’oscurità si stesse affacciando, il caldo non sembrava mollare, ma Isabella e Jacob ne erano ben felici.
Jocelyn ballava sotto quel cielo screziato di rosso, lilla e arancio; cantava una filastrocca che Bella le aveva insegnato qualche giorno prima. Seguiva il ritmo delle parole pestando i piedini sul prato, in un balletto divertente agli occhi dei suoi genitori.
Daniel batteva le mani cicciottelle, con un sorrisino sdentato sul viso. Due fossette ai lati della bocca fecero sì che Bella gli baciasse entrambe le guance.
Si erano sposati dopo un anno che si erano rincontrati. Tutti dicevano che stavano andando troppo velocemente, che ci sarebbe voluto più tempo per conoscersi meglio. Ma a cosa poteva servire? Loro si conoscevano dalla nascita, non avevano segreti, il tempo ormai non contava più, ora che erano tornati insieme.
Isabella era rimasta incinta qualche mese prima del matrimonio, e Jocelyn era arrivata poco prima di Natale, con qualche giorno di anticipo. L’avevano fatta vestire di rosso, in stile natalizio… Una delle solite idee di Jacob.
Le ci erano voluti più di cinque anni per dire di nuovo ‘sì’ a Jake per allargare la famiglia, e Daniel non si fece aspettare. In una mattina primaverile era venuto al mondo un fiorellino dal peso decisamente notevole. Se era stato veloce ad arrivare, a nascere non si poteva dire lo stesso. Ben due settimane di ritardo e quattro chili di dolcezza.
Erano passati più di sette anni da quel loro incontro nell’ospedale di Manhattan, e Isabella ancora non riusciva a credere che il destino fosse stato così benevolo con lei.
Da quando Jacob era al suo fianco, non ebbe più crisi isteriche, e il suo lavoro andò a gonfie vele. Era felice, decisamente.
Ora il tramonto era al suo massimo apice, con i colori che dipingevano ogni cosa.
Jocelyn indicò la palla di fuoco oltre le colline, e Bella sorrise, per poi vedere il melo. Era sempre lì, nessuno lo aveva abbattuto, niente era cambiato.
E nella sua mente erano di nuovo bambini, a correre fra i prati, a ridere e rotolarsi nei campi di grano. Erano di nuovo su quel ramo a guardare il crepuscolo, uniti come non mai.
Guardò Jacob negli occhi, sorridendo. Sì, le cose non erano cambiate più di tanto, alla fine. Lo amava, e con lui avrebbe rimirato ogni singolo tramonto della sua vita, fin quando lui sarebbe stato al suo fianco.



Ta-daaaaan! Ebbene sì, sono tornata, con un pairing che non mi si addice granché XD
Però ho voluto partecipare al contest di Aniasolary, "Never and again contest", e ho scelto la coppia opposta a quella per cui tifo di solito lol
Comunque ammetto che sono veramente felice del risultato, cosa veramente strabiliante visti i mesi di secca... Nella mia mente c'erano le balle di fieno come nel deserto, yuppi!
Non so che altro dire, se non chiedere alle ragazze a cui piace JacobxBella di dirmi la loro :) Non sono una grande tifosa, della coppia, si sa, però... Meglio provarci! :)
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Grazie mille per aver letto, e si va di commentare sarei veramente felice.
Un bacio,
Ever :)
   
 
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