Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |       
Autore: HeartSoul97    31/07/2013    2 recensioni
"Alex Watson è una normale diciassettenne londinese, forse solo un po' sfigata, niente di più. I suoi amici? Una ragazza bellissima e dolce, un'allegra libraia e un chitarrista che sogna la fama. Ma i suoi nemici? Uno solo: un ragazzo tanto bello quanto stronzo, che non fa che prenderla in giro, e che abita proprio accanto a lei! Le cose cominciano a precipitare quando una misteriosa lettera giunge alla nostra protagonista..."
Ora, spazio all'autrice. Abbiate pietà, è la primissima storia DAVVERO romantica che scrivo, non ho esperienze su cui basarmi, quindi chiedo umilmente il vostro parere. Opinioni positive ben accette, negative anche di più, perché servono a migliorare. Grazie per l'attenzione, a tutti.
Un'altra cosa: nei vostri commenti potete darmi spunti o consigli su ciò che potrebbe succedere. Vorrei infatti che la storia risultasse anche divertente, ma io non ho molto senso dell'umorismo, quindi imploro il vostro aiuto. Grazie mille.
Vi auguro sinceramente una buona lettura e spero che continuerete a seguirmi.
HeartSoul97
Genere: Demenziale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Scolastico
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
                                                      A volte non te lo aspetti, ma...


***Premessa***

Non ho idea di come funzioni esattamente il sistema scolastico inglese, ergo lo farò funzionare come quello italiano.

 
1. Un non troppo normale martedì
                                                                                                                                                                                                                             Butterfly grown in the smoky haze
                                                                                                                                                                                will learn to sing it in a bitter phrase. 

   
Quando mi sveglio, sento subito che qualcosa non va. La luce. C’è troppa luce. Guardo immediatamente l’orologio. Dieci minuti alle otto, ovvero esattamente venticinque minuti al suono della campanella.
«Merda» impreco, correndo verso il bagno.
In meno di dieci minuti mi sono data un’aggiustatina e mi sono vestita. Prendo lo zaino, infilo la porta ed esco: non ho tempo né per la colazione né per controllare se ho preso tutto, come faccio ogni mattina. Anzi, se corro forse riesco anche a non arrivare in ritardo.
Purtroppo oggi il destino ce l’ha con me, e arrivo con ben dieci minuti di ritardo, beccandomi anche un’occhiataccia della White. Non oso pensare cosa stiano pensando i miei compagni: arrivo trafelata, affannata per la corsa e, probabilmente, anche sudata. Mi dirigo a testa bassa verso il mio banco, mentre la White riprende l’appello bruscamente interrotto dal mio arrivo.
«Che ti è successo, Alex?» mi chiede Momo, che siede vicino a me. Lei è la mia migliore amica. Ci conosciamo da quando avevamo sei anni, e non riuscirei mai a separarmi da lei.
«Storia lunga, con sveglia rotta e genitori menefreghisti inclusi» borbotto in risposta. Certo che mamma e papà potevano pure avvertirmi!
Le prime due ore sono un supplizio, fare storia con quella donna è più noioso di guardare di continuo un criceto che gira sulla ruota. Hai già le ragnatele sulla faccia alla fine della prima ora. La White ha una parlata monotona, continua, come una pentola sul fuoco, ma le sue corde vocali possono produrre un acuto spaventoso se vede un alunno disattento, o che si sgranchisce le dita quando la penna incespica sul foglio per prendere appunti.
Anche l’ora dopo, di inglese, non è proprio il massimo. Il prof Richardson è anche una persona divertente, ma resta il fatto che è un professore. Ci dà sempre molti libri da leggere, compito che svolgo con piacere. Richardson è spaventoso solo quando si arrabbia o entra in classe già arrabbiato. Oggi è uno di quei giorni, a quanto pare, perché ha il volto paonazzo e le sopracciglia aggrottate, e la vena sulla tempia gli pulsa in una maniera che si vede perfino dall’ultimo banco. Saranno stati quelli della C a farlo arrabbiare? Chi lo sa, di solito è colpa loro. Sta di fatto che il prof è intrattabile e irascibile per tutta l’ora.
Veniamo avvolti dalla ricreazione con sollievo. Mark e Jessica, i gemelli, stanno ringraziando il Signore di avergli risparmiato l’interrogazione di Richardson. Passo i miei dieci minuti di libertà insieme a Momo, parliamo di quello che faremo a pomeriggio, oltre ai compiti. Io non ho programmi particolari; la mia amica deve andare a fare la sua amata acquagym. È il suo sport preferito.
Quando suona la campanella, comincio a tremare di paura per quello che dovrò fare. 
Ginnastica. La materia che odio di più in assoluto, per tre motivi: uno, Miss Fischietto, come la chiamo io, è in assoluto la prof più rompiscatole del mondo che ci fa fare esercizi assurdi; due, sono dannatamente goffa; tre, condividiamo la palestra con la classe del mio più acerrimo nemico, nonché vicino di casa.
«Ehi, Watson, abbiamo scordato la sveglia stamattina?» Parli del diavolo, spuntano le corna. A parlare è stato proprio lui: Jake O’Brian, il rubacuori più popolare della scuola, nonché mio peggior nemico da quando lo conobbi, in terza elementare. Avevo quasi otto anni, eravamo nella stessa classe, e lui ogni giorno si mangiava la mia merendina e metteva le lucertole nel mio astuccio. Un incubo. E poi si è anche trasferito nell’appartamento accanto al mio. Doppio incubo.
Di madre italiana e padre irlandese, è un ragazzo la cui bellezza è direttamente proporzionale al suo essere stronzo. Alto un metro e ottantacinque, dal fisico asciutto e scolpito, capelli nerissimi e volontariamente spettinati ad incorniciare un volto regolare dalla carnagione un po’ scura, sul quale due occhi azzurri splendono come diamanti in una caverna.
Gli scocco un’occhiata irritata, ma visto che non mi viene in mente niente da rispondergli, lo ignoro e me ne vado negli spogliatoi.
Con la coda dell’occhio noto che le ragazze della mia classe entrano negli spogliatoi praticamente camminando all’indietro. Ma dico, un po’ di contegno. Non siate così palesi, nel mangiarvelo con gli occhi.
Sospiro, maledicendo la mia precisione nell’aver messo la tuta nello zaino ieri sera. La odio. La odio perché mi sento impacciata e più goffa del solito. E perché mette in evidenza la ciccia così abilmente nascosta dai jeans. E i fianchi troppo larghi. Mi odio.
Dopo aver messo quell’affare, vado da Miss Fischietto. Vuole che facciamo una corsetta, e poi saltelli. Ma che cavolo, solo noi dobbiamo sembrare dei perfetti idioti mentre facciamo ginnastica?
«Sopporta, Alex!» mi dice Momo, comprensiva, sentendo il mio sonoro sbuffo.
Momo è una ragazza davvero bella. È alta e magra, ha i capelli biondo miele e gli occhi nocciola. La invidio da morire, eppure le voglio un bene infinito. I ragazzi fanno la fila per uscire con lei, ma lei se ne frega. Davvero non la capisco. Al posto suo, io ringrazierei gli dei tutti i giorni.
Guardo con odio le mie compagne che hanno avuto la brillante idea di giustificarsi. Ovviamente non si sono giustificate perché non possono fare ginnastica (cosa che oltretutto non ha mai fatto nessuno) ma per guardare quello sbruffone mentre gioca a basket. Sì, okay, è un bel ragazzo, e ci tende pure a evidenziarlo, con quella maglietta aderentissima, ma sotto la bella faccia c’è un gran pezzo di merda.
Proprio mentre sto rimuginando, vedo un pallone da basket arrivarmi addosso, e faccio appena in tempo a proteggere i miei preziosi occhiali che ricevo una botta incredibile ai polsi.
«Ops, scusa Watson, non ti avevo visto!» dice qualcuno, accompagnando la frase con una sonora risata di scherno.
Incasso il colpo e faccio finta di niente. In realtà mi sto incavolando parecchio. Ma tanto che ci posso fare? Sfigati si nasce, e io lo sono nata. È una cosa che non posso cambiare.
Per tutta la lezione di ginnastica, cioè due ore, mi piovono addosso palloni di ogni sorta. Il mio sopportometro è al limite. Per chi non lo sapesse, il sopportometro è il mio misuratore di sopportazione: quando è al limite, come adesso, siamo vicini alla fase di esplosione.
Stiamo tornando negli spogliatoi, è finita l’ora. Mi tocca ingoiare quel rospo amaro che sono le ultime frecciatine di quel cretino. Il sopportometro sale… e ancora… e ancora.
DLING! Il sopportometro è pieno! Ringraziamo che è l’ultima ora.
Mentre usciamo da scuola, qualcuno mi da uno spintone – e sono pronta a scommettere che non è stato casuale.
«Hai finito di rompere il cazzo alla gente, razza di cafone di merda che non sei altro?!» sono in modalità Esplosione, è sempre così, divento l’apoteosi dello scaricatore di porto.
«Whoa, Watson. Certo che sei energica, per essere una tappetta» dice Jake, ghignando.
«Hai altro fiato da sprecare, o posso avere la grazia di tornarmene a casa?»
«Grazia? Non mi pare che tu ne abbia» risponde, con quell’odioso sorrisetto sghembo.
Ha per caso degli istinti suicidi? Perché oggi non lo so se ci torna vivo, a casa sua!
«Allora vuoi proprio morire, eh?» gli dico, aggressiva.
«Chissà, forse sì» dice, continuando a ridere. Ma si è bevuto il cervello?
Momo, perché abiti dall’altra parte della città? mi chiedo, implorando mentalmente l’aiuto della mia amica.
Mi avvio verso casa con lui appresso, insolente.
«Perché mi segui?» gli chiedo.
«Ti devo ricordare anche che abitiamo nello stesso palazzo, Watson? Stai messa parecchio male, per avere diciassette anni!»
Toglietemelo da torno, o faccio una pazzia!
«Se chiudessi quella boccaccia che ti ritrovi…»
«Tu la chiami boccaccia, ma sono davvero poche le ragazze che la disdegnano»
«Non mi interessano i particolari della tua vita sentimentale»
«E scommetto che anche a te piacerebbe…»
«Non dire cose disgustose come questa, Jake. Non ti bacerei neppure se fossi l’ultimo uomo rimasto su questa Terra. Preferisco l’estinzione».
«Così mi offendi»
«Era quella l’idea».
Mi guarda mettendo il broncio e poi fa gli occhi da cucciolo.
«Non ci casco, cretino» sibilo. Conosco fin troppo bene quell’espressione, che convince tutte le ragazze della scuola a perdonarlo per qualsiasi cosa.
«Ma che palle» sbuffa, cambiando espressione, «sei l’unica che non ci casca. Tutte le altre ci cascano, quando faccio così»
«Povere idiote. Non si accorgono neppure quando fingi» commento.
«Ma così è più divertente» dice, ritirando fuori quel sorrisetto sghembo che adesso sembra più un ghigno dispettoso. Per tutto il resto della strada continuiamo a battibeccare in questo modo, anche se ogni tanto rimaniamo zitti a fissarci in cagnesco.
«Perché ogni giorno che passa diventi più idiota?» gli chiedo, mentre giungiamo al nostro palazzo.
Entriamo nell’atrio.
«Non sono stupido, so benissimo che sei pazza di me»
«Bella battuta, ma preferirei giocare a mosca cieca in autostrada piuttosto che innamorarmi di te» dico chiamando l’ascensore.
«Ehi, vacci piano. Non mi pare di fare così schifo…»
«È quello che ogni maschio pensa di se stesso». Entriamo in ascensore e pigio il pulsante del terzo piano.
«A giudicare dagli sguardi delle tue compagne di classe, non direi di avere torto».
Siamo sul pianerottolo. Prendo le chiavi di casa dal mio zaino e lui tira fuori le sue dalla tasca della giacca.
«Jake, ti rendi conto che questo discorso non ha né capo né coda?»
«E allora? È divertente parlare con…» fa una pausa, «con gli sfigati».
«Vaffanculo, Jake O’Brian» sibilo entrando dentro casa mia e sbattendo la porta.
È più forte di me, non riesco ad andare d’accordo con lui. E poi, onestamente, se sono io stessa a chiamarmi “sfigata”, mi va bene, ma che me lo dice questo cafone non mi va per niente giù!
In cucina trovo un biglietto di scuse della mamma per non avermi svegliato stamattina. E mi raccomanda di mangiare bene e a pomeriggio di passare in libreria a comprare un libro per il compleanno di papà, i soldi me li aveva lasciati lei. Vorrà dire che passerò in libreria, una passeggiata non fa male a nessuno. Specie se si è in una giornata come questa, che vela tutto il paesaggio di una malinconia sottile. Forse è per questo che amo Febbraio.
Dopo aver pranzato più o meno con quel che ho trovato, tiro fuori la mole di compiti che mi tocca fare. Mannaggia ai professori, hanno rinnovato quell’antico e sadico piacere che provano nell’affibbiarci continuamente roba da fare. Specialmente Matematica e Inglese, non fanno che caricarci. Pazienza, dopotutto studiare è il sacrosanto dovere di ogni bravo studente.
Ma nonostante ciò, riesco a finire i compiti abbastanza presto da leggermi almeno un altro capitolo del mio libro preferito del momento, ovvero Il grande Gatsby.
Esco poco dopo le quattro. La libreria si trova sulla Harley Street, a un tiro di schioppo da casa mia, sulla Devonshire Street.
Mi è sempre piaciuto passeggiare per la città. Vedere gli autobus passare per le strade, le persone che camminano frettolose, tristi, contente, sovrappensiero. Per me è un piacere unico. È per questo che prendo poco l’autobus, altrimenti non potrei notare tutte queste cose.
Chissà perché mentre cammino sento una sorta di pizzicorino sulla nuca, come se qualcuno mi stesse osservando, o addirittura seguendo.
La Mary’s Bookshop è un po’ piccola. Mentre apro la porta, lo squillo allegro di un campanello avvisa della mia presenza.
Io e Mary, la proprietaria, ci conosciamo da molto tempo. È un’amica di mia zia Sophie, che quando ero piccola mi portava spesso qui. Poi mi faceva scegliere un libro e me lo comprava. È morta l’anno scorso in un incidente.
«Ciao, Alex! Come stai? È da tanto che non ci vediamo!». Mary mi saluta raggiante. È una donna sulla quarantina, ma ancora molto bella. Sebbene qualche filo grigio cominci già a striare i folti capelli biondi, e qualche ruga sia apparsa sulla sua fronte, gli occhi sono rimasti gli stessi, azzurri e luminosi come dieci anni fa.
«Sto bene, Mary. Se ci dessero meno compiti, mi farei vedere più spesso!». Non voglio lamentarmi, ma è l’unica spiegazione che le posso dare.
«Oh, bambina, non è possibile che vi carichino come muli. Non è giusto». Si aggiusta gli occhiali sul naso.
«Questo è il dovere dello studente, Mary» le dico, rifilandole la stessa cosa che mi sono detta prima.
«Comunque, a parte la scuola, a casa tutto bene? Mamma e papà?»
«Stanno bene, benissimo. A proposito di papà, stavo cercando un libro per lui, tra un po’  è il suo compleanno».
Mary mi sorride e mi guida attraverso gli scaffali.
«Abbiamo ricevuto questo libro circa una settimana fa, ha ricevuto parecchie lodi da parte della critica» dice, mostrandomi un volume piuttosto massiccio.
«Joyland, di Stephen King». Leggo la trama. Sembra interessante. E poi a papà piacciono i libri di Stephen King.
«Va bene, lo prendo. Me lo impacchetti?».
Aspetto che fa il pacco, pago e infilo il libro nel mio solito e coloratissimo borsone extra-large. È estremamente utile, specie se devi nascondere un regalo.
In verità vado un po’ di fretta, e non solo perché devo tornare a casa entro le sei. Voglio andare a trovare una persona.
Prendo il primo autobus che mi porta in Bulstrode Street, poi proseguo a piedi fino al posto che mi interessa. È un garage, ma prima che riesco a raggiungerlo scivolo sul ghiaccio del marciapiede e do una sonora botta sul fondoschiena. Bene, che bella giornata.
Mi rialzo dolorante massaggiandomi l’osso sacro. L’importante è che nessuno mi abbia vista, cadere sul ghiaccio è proprio da sfigati… oh, aspetta, io sono una sfigata. Quasi mi viene da ridere. Anche se la strana sensazione che qualcuno mi stia seguendo non è del tutto svanita, visto che sento ancora la nuca che pizzica.
Dal garage non proviene alcun rumore. Spero di non essere arrivata tardi, aver fatto tanta strada per niente…
Mi affaccio alla porta, e vedo i ragazzi che stanno riponendo gli strumenti. Il bassista fa caso a me, e fa un cenno al chitarrista. Il ragazzo si gira e mi sorride.
Vi starete chiedendo chi sia. Non è mio fratello e neanche il mio ragazzo (figuriamoci!). È Sean, un amico.
«Alex! Ma dai! Pensavo ti avessero rapita gli alieni. Sono due settimane che non ti fai viva!». Continua a sorridermi e mi invita a entrare. Gli altri ragazzi gli danno pacche sulle spalle mentre si avviano verso le proprie abitazioni. 
Sean ha una band, e fin dalla quarta elementare il suo sogno era di diventare un famoso chitarrista, come Jimi Hendrix, Slash o Kurt Cobain. Suona la chitarra, ma non sa cantare molto bene. O meglio, questo è quello che dice di sé: in realtà ha una voce splendida.
«Non mi ha rapita nessuno, Sean. Come vedi sono viva e vegeta, magari solo un po’ stanca» sorrido anch’io. Mi fa molto piacere venire a trovarlo, peccato che posso venire qui solo poche volte.
Il ragazzo rimette la chitarra nella sua custodia. È una Gibson Les Paul in mogano. I suoi genitori gliela hanno regalata per il suo quattordicesimo compleanno; quel giorno era talmente felice che sembrava niente potesse abbatterlo, finché non gli ho detto che avevo scelto una scuola superiore diversa dalla sua. Dopo aver fatto elementari e medie insieme, l’inseparabile trio (io, Sean e Momo) si era sciolto per metà, ma io e Momo siamo rimaste in contatto con lui.
Sean si mette il giubbotto e si calca un cappello sui capelli marroni un po’ lunghi. I suoi occhi sono rimasti gli stessi da quel lontano giorno di seconda elementare quando abbiamo cominciato a giocare insieme, di quel castano scuro che gli conferiva un’aria incredibilmente dolce.
Quando usciamo dal garage, chiude la serranda e ricominciamo a parlare.
«Allora, Alex, come stai?»
«Non c’è male. Piuttosto, come stai te. E io ho provato anche a contattarti via SMS, qualche volta, ma non mi hai mai risposto»
«Come, non ti ho mai risposto? I tuoi messaggi non mi sono mai arrivati! Mi chiedo perché… ah, già, ho cambiato numero, probabilmente mi sono dimenticato di dirtelo. E comunque va tutto bene, i ragazzi sono sempre in gran forma».
«Ah, ti conosco da dieci anni e ti sei dimenticato di dirmi una cosa del genere? Mi fa piacere!» gli dico scherzando. Ci stiamo avviando verso casa sua, riconosco la strada. Controllo l’ora, sono quasi le cinque e mezza. Dovrei farcela, a tornare a casa in tempo.
«Dai, mi è passato di mente…».
Poi faccio la fatidica domanda, una domanda che faccio più per cortesia che per vero interesse.
«E Ingrid come sta?»
«Mi ha lasciato». Rimango spiazzata da questa risposta.
«Ah. Mi dispiace» farfuglio, anche se non è proprio vero.
«Dici? A me no. Era chiaro che le cose non funzionavano. È stato meglio così, non la sopportavo più» dice, e poi si mette a ridere. Che strano ragazzo.
Continuiamo a parlare del più e del meno per un bel po’. Sean mi aggiorna su tutte le novità riguardo alla sua band, i Radioactive Flame.
«Vieni al concerto, sabato?» mi chiede, quando siamo davanti a casa sua.
«Fai il concerto? Fantastico! Dove lo fate? Devo chiedere a mamma il permesso, però…»
«Be’, non è proprio un concerto. Diciamo che siamo al posto di un’altra band che non può venire, perciò facciamo da intrattenimento per il pubblico. Ci esibiamo al pub sulla Crawford Street, il Black Moon. E se i tuoi non ti danno il permesso, ci parlo io con Susan e Dave» e mi fa l’occhiolino. «In ogni caso è la prima volta che suoniamo in pubblico, perciò abbiamo provato delle canzoni davvero fantastiche, qualcuna di qualche band famosa e ne abbiamo un paio scritte da noi. Non vedo l’ora. E porta anche Momo. Adesso ti do il mio numero, così stasera mi invii un messaggio e mi dici se potete venire».
Ci scambiamo di nuovo i numeri di telefono, poi devo salutarlo di corsa perché rischio di perdere l’autobus. È sempre bello scambiare quattro chiacchiere con Sean. Mi ha fatto dimenticare tutto quello che è successo durante la giornata. Rifletto su queste cose mentre mi avvio verso la fermata dell’autobus più vicina.
Il problema sorge quando arrivo davanti al portone di casa mia e mi accorgo che sono quasi le sei e un quarto. Ci ho messo più tempo del previsto, mamma e papà saranno sicuramente infuriati.
La fortuna non è dalla mia parte, visto che mentre aspetto l’ascensore arriva anche il mio amabile vicino di casa. Bella compagnia.
«Che fai, Watson, rientri anche tardi? Come sei trasgressiva, oggi» comincia di nuovo a prendermi in giro.
Mantengo la calma solo perché mi ripeto di continuo che tutti i nodi vengono al pettine, prima o poi.
«Anche tu sei in ritardo, in fin dei conti. Angela sarà preoccupata» ghigno. Sto giocando la sua stessa carta.
«A differenza tua, io posso rientrare quando voglio»
«E allora perché stavi correndo?». È vero. È entrato nell’androne trafelato, come se avesse fatto una lunga corsa. Fregato.
Quando arriviamo sul pianerottolo, prendiamo le nostre chiavi insieme, un po’ come stamattina. E, incastrata sotto la fessura della porta, trovo una lettera imbustata. Non c’è nome, solo il mio indirizzo. Chissà di chi è?
«Be’… ‘notte» dico, aprendo la porta e infilando in tasca la lettera. Mentre entro, prima di chiudere la porta, sento quel cretino declamare:
«“Buonanotte, buonanotte! Lasciarti è dolore così dolce che direi buonanotte fino a giorno!”».
Pure Shakespeare mi citava!
 
 
 
***
Angolino autrice
Ciao a tutti! Sono tornata (tremate, gente!).
Prima di tutto, ringrazio tutti coloro che hanno avuto il fegato di arrivare fin quaggiù. Davvero, non ho mai incontrato gente più coraggiosa di voi. E ringrazio anticipatamente chiunque lascerà un commento, negativo o positivo che sia. Servono a dare sempre il meglio.
È la mia seconda storia a più capitoli, e la prima a tema del tutto romantico. Perciò, necessito di aiuto! E voi potete aiutarmi. Siate interattivi. Vi chiedo umilmente di darmi consigli su cosa potrebbe avvenire, su un qualche nome, sull’aspetto della nostra protagonista (più o meno ho già un’idea, ma potrei cambiarla), su una giornata o un evento. Vi sarò immensamente riconoscente.
Tra parentesi, nella mia città esiste un pub che si chiama La Luna Nera, quindi l’idea per il nome del locale l’ho presa da lì.
Le frasi che troverete all’inizio di ogni capitolo, quelle scritte in corsivo, sono un po’ particolari. Alcune le ho scritte da me, inventate sul momento, altre invece sono i titoli dei capitoli di un manga che ho a casa. Non so se devo mettere il copyright o che altro. Comunque, pazienza.
E lo ammetto: per i primi capitoli andrò un po’ a tentoni. L’idea ce l’ho, però è difficile… argh!
Smetto di scocciare e mi preparo al lancio dei pomodori.
Alla prossima e spero di non avervi ripugnato,
Heart
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: HeartSoul97