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Autore: deepblueyes    01/08/2013    2 recensioni
Cosa faresti se un Demone, per scommessa, ti offrisse in un Contratto l'amore della tua vita, chiedendo in cambio soltanto la tua anima?
Accetteresti?
E se poi ti trovassi invischiato in un mondo di cui non immaginavi neppure l'esistenza, rischiando la vita, e scoprissi che la tua esistenza era sempre stata soltanto un'apparenza di normalità?
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 13
Sonno.


Aprii lentamente gli occhi e mi ritrovai a fissare il soffitto chiaro della mia stanza: raggi di luce soffusa fendevano l'aria, offrendo un palcoscenico al pulviscolo, libero di danzarvi dentro senza una precisa coreografia. 
Era così rilassante da osservare, mentre si muoveva leggero e lento nell'aria, minuscolo e impalpabile.
Sentii d'improvviso un forte rumore di vetri infranti provenire dal piano inferiore, e scattai a sedere, tutt'altro che intontita. Cosa stavano combinando là sotto?
Mi alzai velocemente dal letto e mi avvicinai alla porta: poggiai l'orecchio a contatto con la superficie di legno cercando di percepire altri rumori, chiedendomi se si fossero messi a litigare e avessero finito col rompere qualcosa. Che qualcuno fosse rimasto ferito?
Ma il silenzio era assoluto, tanto che riuscivo a sentire il battito accelerato del mio cuore rimbombarmi nelle orecchie. 
Persino il cigolio che fece la porta quando la aprii mi sembrò quasi assordante con tutta quella calma... mi sporsi fuori con la testa e diedi un'occhiata lungo il corridoio: dovevano aver abbassato tutte le serrande, perché l'intera casa era in penombra. 
Non riuscivo a capire il motivo di quel silenzio... dubitavo che fossero andati tutti a dormire. Anzi, probabilmente non ne avevano neanche il bisogno, di dormire... non erano mica umani. 
Avanzai insicura nel buio, dirigendomi lenta verso le scale, e quasi mi sembrò che il corridoio si fosse fastidiosamente allungato... da quando era così grande?
Quando raggiunsi finalmente le scale, mi fermai di nuovo, e fissai per qualche istante i gradini che svanivano nel buio. 
Anche al piano di sotto doveva essere tutto chiuso, il che era davvero strano. Cosa mai stavano facendo laggiù?
Cercai di percepire qualcosa, un suono, una voce, un altro schianto. Ma non avvertii nulla. Solo il silenzio, che rendeva quell'oscurità ancora più densa e impenetrabile. Rabbrividii, con la vaga idea di tornare in camera e chiudermi dentro.
Mi voltai indietro pronta a tornare sui miei passi, quando sentii qualcosa sbattere di sotto, forse in salotto... che fosse la porta o una delle finestre, non riuscii proprio a capirlo, ma fu abbastanza da spingermi a scendere.
Un gradino alla volta, stringendo forte il corrimano, reprimevo l'istinto di chiamare il nonno o Gabriel: non volevo fare la figura della fifona inutilmente. 
Arrivata alla fine della scalinata, un vento freddo mi spettinò e fece cigolare sinistramente una delle porte. Sentendo un'improvvisa ansia addosso mi guardai alle spalle, ma non c'era nulla: le scale erano completamente vuote e scure.
Camminando all'indietro attraversai l'ingresso e raggiunsi la porta del salotto. 
Era chiusa. Che stessero discutendo ancora?
Delicatamente abbassai la maniglia, aspettandomi di trovare la porta chiusa a chiave; ma mi sbagliavo, si aprì senza fare nemmeno un cigolio. 
Anche il salotto era in penombra, e vuoto.
Il fischio del vento gelido che entrava dalla finestra spalancata, facendo ondeggiare le tende, era il solo rumore presente. Corsi subito a chiuderle, a fatica per la forza del soffio d'aria che veniva da fuori.
Appena le ante sbatacchiarono una contro l'altra e lo scricchiolio della maniglia che ruotava cessarono, sentii uno strano sibilo. 
Un respiro affannoso.
Piano, pianissimo, mi voltai verso il centro della stanza, rivolgendomi a quel suono che mi faceva accapponare la pelle. A tentoni, gli occhi sbarrati, trovai l'interruttore della luce e la accesi.
Riverso a terra, in un caos di piume scure e imbrattato da un denso liquido nero, Gabriel mi fissava senza battere le palpebre, gli occhi completamente bianchi, rantolando.
“Alice... ”
Terrorizzata, guardai intorno a me nella stanza, ma non c'era nessuno.
“Alice...”
Tremavo, cercando freneticamente di liberarmi di quella voce, e feci per portare le mani alla testa, ma le bloccai a mezz'aria: lo stesso, catramoso liquido nero che colava dagli occhi, dalle orecchie, dalla bocca di Gabriel, scivolava lungo il mio polso e sporcava le mie mani.
“Alice...”
Non riuscivo a respirare, mi mancava l'aria...

“Alice! Maledizione ragazzina, vuoi deciderti a svegliarti o no?!”
Aprii di scatto gli occhi e mi ritrovai a un centimetro dalla faccia di Cassandra, che mi fissava spazientita con le mani piantate sui fianchi. 
Ci misi qualche istante a rendermi conto che non mi trovavo più a casa mia, ma sul sedile posteriore di una delle costose auto del nonno, non più immersa nel buio ma circondata dalla luce del sole e da una vegetazione stranamente familiare.
Appena i miei occhi si adattarono a tutto quel bianco e smisi di avere la vista annebbiata da pallini scuri, studiai subito le mie mani: la pelle era perfettamente bianca e pulita. 
Mi rilassai subito, abbandonandomi contro il sedile. 
Un incubo. Soltanto un incubo, non c'era niente di reale in ciò che avevo visto. 
“Oh no, non provare a riaddormentarti! Forza, bisogna andare. Non ti porto certo di peso in casa!” insistette Cassandra, facendosi indietro per lasciarmi uscire dalla macchina, sempre più seccata dalla mia lentezza.
Con un sospiro, mi feci coraggio e scesi. 
Riconobbi quasi subito quell'enorme giardino pieno di fiori e alberi, come l'immensa villa bianca che mi si stagliava di fronte. 
Erano anni che non ci venivo, qui. A trovare il nonno.
Storsi il naso quando distinsi il profilo della piccola cappella a fianco della casa: il nonno mi costringeva ad andarci tutti i giorni per un paio d'ore. L'incubo di quand'ero ragazzina.
Non ero entusiasta all'idea di trovarmi di nuovo in questo posto, nemmeno un po'... ma, a quanto pareva, qui sarei stata al sicuro. O meglio, lo sarebbe stata la mia anima.
Dalla seconda auto i passeggeri erano già scesi, e seguii con lo sguardo il nonno dirigersi frettolosamente alla porta principale, che era stata aperta da qualcuno all'interno; il mio entusiasmo, se già prima non era alle stelle, crollò vertiginosamente sotto i tacchi. 
Ne avevo visti già anche troppi di angeli in quelle ore, ed era stato abbastanza traumatico da bastarmi per il resto della mia vita.
“Allora, che vuoi fare? Restare qui fuori fino a domattina?”
Mi voltai indietro e lanciai un'occhiataccia a Cassandra: ma che problemi aveva?
Con un altro sospiro, mi incamminai verso l'odiata villa, sperando con tutta me stessa che tutto quel casino si risolvesse in fretta e che, perché ciò fosse possibile, il nonno dovesse sbrigare una marea di affari fuori da casa sua e restasse, quindi, ben lontano da me.
Mentre raggiungevo la porta principale, seguita a pochi passi da Cassandra e dal tipo tenebroso, che, se non ricordavo male, si chiamava Cameron (con il sospetto sempre più concreto che li avrei avuti intorno abbastanza spesso, in quei giorni), mi costrinsi a rendermi conto di cosa stava succedendo: quando Gabriel si era intromesso nella mia vita, aveva subito messo in chiaro la sua natura. Sì, il gioco di prestigio che aveva fatto nell'aula di biologia, prendendo fuoco, unito a quel suo fascino magnetico, tentatore, avrebbe convinto molti a dubitare che stesse semplicemente scherzando, anche se probabilmente avrebbe spinto altri a credere di essere usciti di testa.
Per quanto riguardava me invece... gli avevo creduto all'istante, mi ero lasciata abbindolare e avevo firmato quella friabile e inquietante pergamena. Quasi subito dopo che l'inchiostro si era asciugato avevo cominciato a rendermi conto del peso del mio gesto, e alla fine avevo capito che, infondo, per quanto fosse carino, dolce e gentile Nicolas non valeva la mia anima. 
Eppure, non avevo nemmeno provato a dire a Gabriel che avevo cambiato idea, che non mi importava più.
Soltanto ora, dopo aver scoperto che nemmeno la mia famiglia, come tanto meno il mondo in cui vivevo, erano come avevo sempre creduto che fossero, normali e umani, capii davvero il perchè: nel profondo, sapevo che se fosse svanito il Contratto, lo avrebbe fatto anche il demone. 
E io non volevo che se ne andasse. Non volevo.
Ero talmente presa dai miei pensieri che non mi accorsi di essere entrata in casa finché non sentii la porta sbattere alle mie spalle. L'immenso ingresso era esattamente come lo ricordavo, con il pavimento di parquet scuro e l'enorme scalinata posta di fronte alla porta, anch'essa bianca, col corrimano dello stesso legno dei pavimenti. 
Cassandra puntò a sinistra, diretta, lo sapevo, verso uno degli intimi saloni del nonno, tutto vecchie poltrone rigonfie, tavoli rotondi e finestre, la TV sempre spenta e l'aria austera. Capii di doverla seguire perché Cameron rimase immobile dietro di me finché non cominciai a camminare.
Per tutto il tragitto avevo fissato la punta delle mie scarpe, mentre una domanda mi rimbalzava in testa, sempre la stessa: dove sei Gabriel?
Quando entrammo nel salone, il brusio che lo animava si spense di colpo, e la decina di individui all'interno mi puntarono gli occhi addosso, con un'aria tutt'altro che accogliente.
Il nonno si allontanò dal tipo con cui stava parlando (che, da quanto sembrava arrabbiato, non doveva stare gradendo troppo la conversazione) e si rivolse a me senza nemmeno guardarmi: “Alice, ricordi dov'è la tua stanza?”
“Si, certo.” risposi, guardandolo storto. 
Per essere un angelo, era un vero stronzo, dovevo riconoscerglielo.
“Bene. Non sarai sola in stanza. Muoviti e sali, vi farò chiamare quando il pranzo sarà servito e potrete scendere.”
Sollevai un sopracciglio, mordendomi la lingua per non rispondergli a dovere, memore dello schiaffo di qualche ora prima, mi voltai e tornai sui miei passi, fino a raggiungere l'ingresso e salire l'enorme scalinata. 
Se non altro, non avevo quei due alle calcagna.
Ricordavo che la porta della mia stanza era bianca, con sopra letterine colorate a formare il mio nome. Quando la raggiunsi, esitai, perché il legno era spoglio, senza l'allegra e colorata scritta “Alice” sopra, tanto che mi venne il dubbio d'aver sbagliato camera. 
Poi sentii chiaramente delle risate all'interno: il nonno aveva accennato al fatto che non sarei stata sola...
Bussai leggermente, poi entrai.
Seduti su quello che anni fa era stato il mio letto, due ragazzi, probabilmente miei coetanei, si voltarono sorpresi e smisero di ridere. 
Stavano giocando a un qualche gioco che non conoscevo.
La ragazza aveva corti capelli neri e grandi occhi scuri da cerbiatta, esile come un giunco e con il viso magro ed espressivo; lui doveva essere parecchio alto, dal fisico allenato, capelli spettinati biondo miele e un'aria allegra e spensierata.
Lei fu la prima a riprendersi dalla sorpresa: “Ciao!” esclamò con voce gentile, alzandosi e avvicinandosi a me: “Tu devi essere la nipote del signor Rain. Io sono Marlene, piacere di conoscerti!” sorrise, tendendomi la mano.
“Alice.” risposi semplicemente, stringendogliela.
L'altro ragazzo si alzò subito dopo dal letto e si avvicinò sorridente: “Axel, un vero piacere!”
Dopo aver stretto anche la sua mano, li osservai attentamente per qualche istante: “Anche voi due siete... angeli?”
Axel e Marlene scoppiarono a ridere: “No, ma certo che no. Siamo discendenti di angeli, proprio come te.” mi rispose lei, col suo tono dolce. 
“Sapreste spiegarmi cosa significa, di preciso? E che ci fa tutta questa gente qui?” chiesi, sperando che il nonno non avesse ordinato loro di tenermi allo scuro di ogni cosa. Sapevo che ne sarebbe stato capace, visto quanto già sapevo.
“Davvero non lo sai?” si sorprese Axel, ridacchiando.
Io mi limitai a fare cenno di no con la testa, scrocchiandomi le dita dal nervosismo.
“Bé, sediamoci allora, così ne parliamo.” aggiunse, dirigendosi di nuovo verso il letto e togliendoci da sopra il gioco, così che potessimo starci comodi tutti e tre.
“Ok, grazie.” dissi, sorridendogli, e sprofondai nel materasso.

Qualche ora prima, presso casa Keeper.

Con la testa reclinata indietro, ascoltavo il suono delicato del suo respiro, nella sua stanza al piano di sopra, sprofondata nel letto che ormai conoscevo più che bene. Era il lento, profondo, rilassato sospiro di un sonno senza sogni, un sonno che distende le membra e confonde i sensi.
Ora che ci pensavo bene, non ero mai entrato in uno dei suoi sogni. Nemmeno una volta. Chissà perché... 
“Chi sono?”
… forse credevo che il viaggio attraverso il suo subconscio non sarebbe stato poi così interessante. Oppure, mi era semplicemente mancato il tempo, visto che stavo sempre a vagare per la noiosissima e monotona testa di quel Nicolas la notte, così che la sognasse. Storsi il naso al pensiero di quell'umano. Non riuscivo a capire cosa ci avesse trovato Alice di così affascinante da arrivare a vendermi la sua anima per averlo.
“Iblis, rispondimi! Chi vuole aprire le Porte dell'Inferno?”
Smisi di fissare a vuoto il soffitto e rivolsi gli occhi al vecchio pennuto di fronte a me. Possibile che ogni fottuta volta doveva interrompere il filo dei miei pensieri? Erano secoli che faceva così, secoli. Che cosa fastidiosa. Fastidiosa all'inverosimile, accidenti.
“Non ne ho idea.” ribattei annoiato, tornando a impegnare la mente su cose più piacevoli della sua brutta faccia grinzosa. Ma quando cavolo si sarebbe deciso a crepare anche lui? Vero che il mandato angelico per scendere tra gli umani era in genere più lungo di quello demoniaco, ma diamine mi stava sempre tra i piedi. Perché non si decideva a tornarsene in Paradiso e mi lasciava in pace? 
“Bugiardo.”
Sorrisi: “Bé, devo pur avere qualche difetto no?”
Percepii chiaramente le catene benedette di Cameron tintinnare una contro l'altra, scorrendo verso la sedia alla quale ero stato costretto per la terza volta, quella notte. Non distolsi lo sguardo però e rimasi a fissare l'angelo dritto negli occhi, anche se con la testa ero rivolto ai suoni ovattati del piano superiore.
Lasceresti davvero Alice in pericolo? 
Percepii a stento la sua voce nella mia mente, tanto cercavo di difendermi da intrusioni esterne, ma la sentii. 
E mi venne da ridere. Risi di gusto, anche se non c'era nulla di cui essere felice. 
D'altronde, erano angeli. 
E gli angeli non badavano alla protezione di uno solo, al bene dei pochi che gli erano più vicini, ma obbedivano  al compito di proteggere l'intero genere umano. E se per salvare tutti gli altri si fosse rivelato necessario che uno morisse, non si facevano scrupoli a lasciare che ciò accadesse. 
Erano angeli caduti, Angeli Neri, lontani dalla luce del Paradiso. E più tempo ne rimanevano all'ombra, più diventavano freddi e crudeli. Era il prezzo che dovevano pagare per scendere al fianco degli umani.
“Non posso credere che tu l'abbia detto... complimenti, mi hai spiazzato. Sembra quasi che tu sia sempre meno... angelico, o sbaglio?” osservai, inclinando il capo a sinistra.
La sua espressione, se già prima era dura, si irrigidì ulteriormente per appena un attimo, ma fu sufficiente a farmi capire che le sue ali non dovevano più essere candide e luminose come una volta.
“Comunque sia, ancora non so risponderti con certezza, i miei sono solo sospetti. Ma so chi potrebbe dirmi di più.” aggiunsi, liberando le mani da quelle corde inutili che mi tenevano ancorato a quello scomodo pezzo di legno. Avevo recuperato la mia energia, finalmente.
Mi alzai in piedi, e subito i quattro angeli minori si affiancarono al vecchio, temendo forse che mi lanciassi di nuovo contro di lui come avevo fatto poco prima; ma Gabriel aveva capito che non ne avevo l'intenzione, e non era minimamente allarmato.
“Mi stai dicendo che dovrei lasciarti andare dove ti pare?” chiese, al solito espressivo come una pianta in un vaso. 
Mi ero sempre detto che avrei dovuto insegnargli l'esistenza del linguaggio del corpo e delle espressioni facciali.
“Più o meno si. Ho un Limbo o due a cui fare visita.”risposi, togliendomi quel poco che era rimasto della mia camicia malmessa e liberandomi anche delle scarpe, davvero inutili in volo. 
Quindi dovrei fidarmi e basta.
Lo guardai negli occhi per qualche secondo. Si, e sai anche il perché, no? 
Poi misi la testa indietro e scrocchiai il collo, rilassando i muscoli: far spuntare le ali non era mai né facile né piacevole, soprattutto se lo si faceva poco dopo averle ritirate in seguito a un atterraggio di fortuna. La pelle formicolava, mentre perdevo la maschera umana che avevo dovuto mantenere fino a quel momento. 
Un doloroso schiocco anticipò lo spuntare delle ali, dalle piume nere come quelle dei corvi e talmente grandi da farmi sentire ristretto in quel salottino. Forse avevo sdraiato la sedia, allargandole.
Immagino non resterete qui. Dove la vuoi portare? 
Parlare con le zanne non era la cosa più comoda della storia, perciò preferivo dialogare con la mente in forma di demone.
Mi mostrò una grande villa bianca, in un giardino sterminato, una zona benedetta in ogni angolo. Stare lì sarebbe stata una tortura, per me.
Capito. Vi raggiungo prima che posso.
Svanii in una fiammata nera e mi spostai all'esterno, più in alto delle nuvole, così che nessun umano potesse notarmi. Rimasi ancora qualche istante sospeso a mezz'aria, fissando il punto sotto le nubi dove sapevo esserci la casa di Alice.
Poi mi voltai e andai. Avevo un sacco di lavoro da fare.

  
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