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Autore: _enrougestlareine    04/08/2013    1 recensioni
Quindici anni, un passato incerto e un futuro che si profila ancora più nebuloso, Dearden è la figlia adottiva del Generale Wordswath, uno degli uomini più importanti della Società.
Viene rapita dai ribelli durante una cerimonia dove riceve una collana il cui ciondolo è identico alla nuova mostrina del padre. E per lei, quel ciondolo è un semplice simbolo del valore del proprio genitore adottivo. Ma se così non fosse? Se quello fosse il simbolo di qualcosa di diverso, ben più pericoloso e inquietante?
Dearden ha sempre sostenuto l'insensatezza della guerra, dato che - secondo lei - non esiste più nessun motivo per combattere. Ma è davvero così?
Genere: Avventura, Azione, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Abbandono
 

« Soldato! »
Oggi sembro tutto, ma non un soldato. Nonostante ciò mio padre mi rivolge il saluto abituale. Raddrizzo la schiena portando immediatamente la mano sulla fronte, a mo’ di risposta.
All’improvviso, sul suo viso si fa strada la comprensione. Lui è il protagonista di questa serata, il motivo per cui ho indossato questo ridicolo abito bianco. Si acciglia leggermente, aggrottando la fronte e voltandosi verso la porta da cui è uscito.
Dov’era, a proposito? Consiglio di guerra? Brutte notizie dalla Città Morta?
Inarco un sopracciglio, sperando che mi legga le domande inespresse in volto e che decida di rispondermi. Ma non nota nulla. Qualsiasi cosa l’abbia tenuto occupato fino ad un minuto fa, sta impegnando la sua mente anche adesso.
« Stai bene, vestita così »
Il complimento mi coglie del tutto impreparata e ho a malapena il tempo di accennare un minuscolo grazie che la sua ombra mi ha già superata.
È sempre così, con mio padre. Non riesce a rimanere concentrato su di me, preferisce dedicarsi ai pensieri che gli affollano la mente oppure agli elogi altrui.
Senza accorgermene, ho preso a seguirlo lungo i corridoi del Palazzo, a qualche passo di distanza. Si ferma sette volte a salutare sette uomini diversi. Due di questi hanno un accento diverso, sospetto siano alcune delle spie dalla Città Morta.
Sotto le unghie di uno, c’è ancora della cenere. Mio padre la nota – vedo il suo sguardo abbassarsi e i suoi occhi stringersi nel tentativo di osservare meglio le mani dell’uomo – ma non dice nulla, limitandosi ad accennare un sorriso. Si comporta sempre così, quando si tratta di questioni importanti o diplomatiche. Inoltre, non è una persona particolarmente precisa e spesso lascia perdere questi piccoli particolari. Ma ciò non significa non li noti, anzi.
« Dearden? Vieni cara. », Karina compare al mio fianco, indicandomi una porta bianca laterale. Karina è l’“assistente” di mio padre, se così si può definire il suo incarico.
Bada a me da quando ne ho memoria ed è sicuramente stata più presente di mio padre, ma non per questo la considero al pari di una madre.
Io non ho una madre; non ne ho bisogno.
Karina si occupa di me, ma evidentemente questa non è l’unica parte del suo accordo con il generale Wordswath. A quanto sono riuscita a capire nel corso degli anni, Karina fu fatta prigioniera durante la stessa spedizione che uccise i miei genitori biologici. La sua fortuna fui io.
Mi stringeva fra le braccia, quando i soldati la trovarono, e questo probabilmente le salvò la vita. Non ho ancora compreso come ciò l’abbia aiutata e nemmeno cosa comprenda il suo accordo con mio padre, ma so per certo che le è impossibile lasciare la Città. A malapena esce da Palazzo, figuriamoci.
Mio padre le rivolge una lunga occhiata indagatrice e Karina sostiene il suo sguardo più a lungo di quanto io non sarei capace di fare. Il generale abbassa il viso e accenna una sottospecie di sorriso, poi sparisce nei corridoi del Quartiere.
Karina ha passato l’esame, posso andare con lei.
Seguo la donna in un mezzo labirinto, buio e mai visto, mantenendo un silenzio quasi religioso. Ridacchio appena, pensando alla religione.
Ormai nessuno crede più all’esistenza di un’entità superiore dedita alla nostra supervisione. La gente ha visto troppo per crederci ancora. Preferisce pensare di essere abbandonata a sé stessa, invece di riporre fiducia in una figura fin troppo distante.
« Karina, sei religiosa? »
La donna si volta verso di me, senza smettere di camminare. Si guarda intorno alla ricerca di telecamere, prima di parlare.
Sì, lo è. Altrimenti non si sarebbe assicurata di essere sola.
« Penso lo siamo tutti, ognuno a modo proprio. Nonostante alla gente piaccia vantarsi del fatto di essere perfettamente autonoma, credo nel Fato e in ciò che questo comporta.
Credo che nessuno di noi sarà mai certo dell’esistenza – o inesistenza, a differenza dei punti di vista – del Destino, ma non penso esista qualcuno lassù. »
Indica con un cenno del capo il cielo, ma siamo al coperto e torna a fissarmi negli occhi.
« E anche se ci fosse ha lasciato che tutto questo accadesse, quindi non dev’essere un granché. »
Mi chiedo cosa intenda quando dice “tutto questo”, ma non ho il tempo di porle la domanda a voce alta perché Karina apre un’altra porta e mi spinge nella Sala Grande.
In mezzo alla gente.
Mi fissano, mormorando sotto voce qualche pettegolezzo. Per un attimo ho voglia di chiedere loro che voci girano sul mio conto, dato che sono una specie di santarellina. Poi ricordo l’etichetta esostengo i loro sguardi, carichi di invidia e fastidio, mentre mi faccio strada fra le divise militari degli uomini e gli abiti colorati delle donne. Non mi volto indietro, ma sono dolorosamente consapevole del fatto che Karina non mi sta seguendo. Non è ammessa la sua presenza a questo tipo di eventi. Sono sola.
« Soldati! » Per essere una società che ridicolizza ogni aspetto del combattere, siamo fin troppo interessati alla guerra. Veniamo trattati come se fossimo tutti soldati, dall’età di sette anni, e siamo governati da un Consiglio di diciannove generali e militari di vario grado. Siamo proprio un bel paradosso, c’è poco da dire.
Scattiamo tutti sull’attenti, come fossimo un corpo unico.
Mio padre sorride orgoglioso da dietro le spalle dell’anziano militare che ha preso la parola. Pochi prestano attenzione alle parole di rito che vengono pronunciate dall’uomo. Ho assistito a questa cerimonia tante volte e non sono minimamente interessata alla nuova mostrina di mio padre, ma la luce si riflette sul metallo e il mio sguardo viene attratto dal riverbero.
Si tratta di un piccolo triangolo fatto con qualche strana lega metallica che ha la lucentezza del platino e il colore scuro del piombo. Probabilmente è la mostrina più particolare della sua collezione e la sfoggia con un sorriso a quarantasettedenti.
« Dearden »
Qualcuno pronuncia il mio nome e nella confusione generale lo sento appena, quasi per sbaglio. Una mano mi sospinge in avanti, facendomi perdere l’equilibrio. Rischio di finire lunga distesa per terra, ma riesco a riprendermi in tempo aggrappandomi al braccio di uno dei soldati lì intorno. Il ragazzo – il suo viso ha tratti ben cesellati che rivelano la sua giovane età – ricambia il mio sguardo, incitandomi con un gesto del capo ad avvicinarmi al palco.
Penso sia l’unica persona, in questa stanza, a non odiarmi.
Le dita giocherellano con l’orlo del vestito mentre prendo posto sulla piattaforma sopraelevata. L’anziano militare si rivolge a mio padre con fare smodatamente cerimonioso: « Generale Wordswath, a lei l’onore »
Gli porge qualcosa che non riesco a scorgere e mio padre si affretta a farmi indossare una catenina fatta della stessa lega metallica della sua mostrina. La piccola folla applaude senza eccessi, ma il fragore che odo non è dovuto alle acclamazioni del pubblico.
È il frastuono provocato dalla vetrata alle mie spalle che va in frantumi.
Mio padre mi getta a terra, senza nemmeno avvertirmi. Urto con la testa il pavimento e quando cerco di rialzarmi, giusto per capire cosa sta succedendo, vedo doppio. L’anziano militare mi spinge il capo a terra di nuovo, e al contrario di quanto si potrebbe pensare  mostra una forza inaudita.
Il corpo di mio padre mi fa da scudo contro le schegge di vetro che ancora cadono su di noi come pioggia. Nemmeno per un attimo, però, penso si tratti di un gesto nato dalla sua paterna preoccupazione per me. È solo l’addestramento da soldato, il suo istinto da militare che cerca di proteggere i civili. Nulla di più.
Sento delle voci concitate tutte intorno a me, ma non riesco a collocarle in un solo punto. Vedo a malapena degli stivali blu sfilarmi davanti agli occhi.
Fermi tutti. La divisa del soldato dell’Unione prevede calzature verdi; il blu è il colore dei.. Ribelli.
Improvvisamente i militari presenti nella stanza scattano in piedi, pronti a fronteggiare gli intrusi. Sono consapevole del pericolo solo in parte e non mi rifugio nei corridoi laterali come dovrei fare; come le donne dagli abiti colorati stanno facendo.
Resto distesa a terra e scivolo nell’incoscienza per un attimo, senza però riuscire a rimanere lucida per più di una manciata di secondi. Qualcuno mi tira in piedi ed inizialmente penso si tratti di una delle guardie del corpo di papà.
La vista esplode in un caleidoscopio di colori e probabilmente mi affloscerei di nuovo a terra come un tappeto, se non fosse per il braccio che mi sorregge.
Quando, finalmente, riesco a tornare lucida più a lungo di un battito di ciglia, scorgo entrambe le guardie del corpo impegnate nel combattere due ribelli. Non sono messi poi così bene. Mi volto con uno scatto e la testa inizia a girare. Il volto che mi ritrovo a fissare però, non mi è affatto familiare. Non è uno degli uomini di mio padre.
Indossa la divisa, ma c’è qualcosa di diverso nel suo sguardo. Qualcosa che non ho notato prima.
« Urla pure, prinzessin »
In realtà non ho voglia di gridare. Mi limito a fissare il suo volto, tentando di scorgere qualche indizio sulle sue origini. Ora che lo osservo da più vicino noto la mascella squadrata e l’azzurro sbiadito dei suoi occhi. Tratti distintivi dei ribelli.
L’aspetto di un cittadino della Società è pressoché anonimo. Capelli scuri e occhi castani. La pelle solitamente è molto pallida, dato che difficilmente ci esponiamo ai raggi solari.
Avrei dovuto capirlo. Non avrei dovuto lasciare che il suo sorriso incoraggiante mi distraesse, avrei dovuto prestare più attenzione ai dettagli.
Mi divincolo dalla sua presa, assestando un calcio negli stinchi del ragazzo. Il suo volto si contrae in una smorfia e per un momento mi lascia andare.
È abbastanza.
Comincio a correre, senza sapere dove mi sto dirigendo. Le porte laterali della Sala sono già state sigillate, non posso semplicemente scappare. Fuggire non è una possibilità, ma nascondersi sì.
Gli scontri al centro della stanza sono ancora in pieno svolgimento e rappresentano un ottimo diversivo. Con attenzione – non mi sembra il caso di prendermi un calcio o un pugno in pieno viso – mi infilo fra gli uomini impegnati a combattere, usando i loro corpi massicci come nascondiglio.
Mio padre si volta mi vede e urla qualcosa che assomiglia a « Qualcuno porti via quella stupida ragazzina! ». In tutta risposta arretro di qualche passo, giusto per aumentare la distanza dagli scontri. Urto qualcosa alle mie spalle e inizialmente non ci presto nemmeno attenzione, pensando si tratti della parete. Con lo sguardo fisso sugli uomini davanti a me, prendo a setacciare il muro alle mie spalle alla ricerca della maniglia di una porta. Peccato che non si tratti di una parete.
« Cerchi qualcosa, honig? »[1]
Questa volta urlo, non riesco a farne a meno.
Il ribelle con la divisa dell’Unione mi preme un fazzoletto sul naso e bocca. L’odore pervade subito le mie narici e un lieve torpore mi si diffonde addosso. Sono a malapena consapevole del fatto che il pezzo di stoffa è intriso di cloroformio e che è la terza volta in un giorno che perdo conoscenza. Deve costituire una specie di record.
Il pavimento si fa improvvisamente vicino e il ribelle non si preoccupa del mio corpo che crolla a terra. Non prova nemmeno ad afferrarmi ed io non ho abbastanza forza da rinfacciarglielo.
Mi abbandono all’oscurità celata dietro le mie palpebre e tutto è silenzioso.
Sembra notte.
 


[1]Honig: dolcezza in tedesco – utilizzato in senso dispregiativo.







Angolo dell'autrice

Allora, inizio col dire che questa fan fiction qui presente significa molto per me. Potrà essere una sciocchezza, ma ci tengo veramente. Quindi vi prego di recensire o comunque di farmi sapere, in qualunque modo a vostra disposizione, se quello che scrivo vi piace o meno. Soprattutto, vorrei consigli. Non cerco complimenti sfacciatamente falsi, voglio critiche costruttive che mi aiutino a migliorare. 

Ecco, detto questo, vi lascio perché non trovo più nulla da dire. 
Sono partita con l'intento di scrivere qualcosa di relativamente importante qui, nell'angolo dell'autrice, ma non ho nessun argomento a quest'ora della notte.
Perciò mi limiterò a fare la mia uscita ringraziando Giulia {UAU, ti ho chiamato con il tuo secondo nome! Cos'è, la prima volta? Probabile} per avermi spinto a pubblicare. Thank you, lovah.
Okay, ora vado seriamente. 

~ Chiaricci

  
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