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Autore: Belarus    04/08/2013    1 recensioni
Erano mercenari il cui nome era ignoto all’INTERPOL, alcuni erano schedati nei gruppi speciali degli eserciti delle rispettive nazioni, altri avevano un passato da cittadini onesti e rispettabili, alcuni avevano lavorato nei modi più disparati, ma tutti avevano una qualche dote peculiare capace di isolarli dalla massa.
«Oh…» mormorò fioco e disturbato l’auricolare.
«Oh cosa Francis?» domandò preoccupato temendo già la risposta dell’amico.
«Mi sono dimenticato di dirvi che questi collegamenti sono a tempo… pardon!»
«Pardon un cazzo!»

[Storia partecipante al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP]
{FrUk-Spamano- accenni AmePan}[Attenzione: Linguaggio volgare!]
Baci Belarus.
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: Casino Royal – Slow down the heist.
Personaggi: Romano Vargas[Sud Italia]; Antonio Fernandez Carriedo[Spagna]; Arthur Kirkland[Inghilterra]; Francis Bonnefoy[Francia]; Alfred F. Jones[America]; Kiku Honda[Giappone].
Avvertimenti: AU; Linguaggio volgare; Shonen-ai; Lime.
Note: La storia si svilupperà in cinque capitoli, sicuramente diventerà una serie e si comporrà di altre missioni che varieranno più o meno in personaggi e ambientazioni. La fantomatica “Across” di cui parlo nella storia è un’organizzazione di mercenari internazionale, eventuali dettagli verranno dati in seguito e nelle note tecniche a piè di pagina. L’idea prende spunto e rivisita una doujinshi intitolata “KRHK” e da cui un’altra autrice di questo sito, “claws”, ha tratto anch’ella ispirazione {ovviamente non si tratta di un plagio, io e lei ne abbiamo anche parlato e non credo sia da considerarsi neanche un’ispirazione della suddetta storia, ma vi invito ugualmente a leggerla perché è davvero degna di nota!}.
Sperando che qualcuno si degni di leggerla e possa anche solo vagamente apprezzarla, vi auguro una buona lettura! Merci, mes amis! *-*
NoteII: La storia partecipa al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP.
Prompt scelto: “Vuoi sentire prima la brutta notizia o quella bruttissima?”




Casino Royal – Slow down the heist





Porto di Fontvieille, ore 10:26.




«Wooooow!»
Batté irritato il mocassino marrone sul parquet in ciliegio che rivestiva il ponte dello yacht stringendo le braccia attorno alla camicia color cachi per metà sbottonata.
«Il porto di Sant’Ercole è mille volte più bello di questa spacconeria da ricconi! Ma di quello non se ne fotte proprio nessuno!» ringhiò inviperito.
Non riusciva, neanche sforzandosi, a capire che avessero da agitarsi tanto Kiku e Alfred per un po’ di mare. L’Italia, la sua bellissima Italia, era nella quasi totalità circondata dal più bel mare che il mondo avesse mai visto, c’erano spiagge bianche, acque cristalline, scogli su cui prendere il sole per ore intere o bar ombrosi in cui sorseggiare una spremuta fresca o mangiare un gelato. Quel posto non aveva nulla che Romano non avesse già visto, fatta eccezione forse per le imbarcazioni a vela piene di signorine in costumi striminziti e gli yacht da milionari che fluttuavano placidi vicino a qualche scogliera o negli appositi attracchi con stupidi pinguini che servivano cocktail ai gamberetti a vecchi bacucchi dalla pelle rovinata dalle lampade. Ad ogni modo anche considerando questi elementi, non vi trovava nulla di talmente eccezionale da meritarsi tanto entusiasmo e simili versi di eccitazione. C’era però da considerare il pessimo gusto di cui era capace quel mancato giocatore di football che si scarrozzavano dietro da qualche anno e la condizione di estasi in cui ricadeva il giapponese appena arrivato per qualsiasi “bellezza” naturale o artistica che gli ciondolasse dinanzi al naso. Non avrebbe dovuto stupirsi poi tanto di quell’ardore insensato ed esagerato che mostravano, non c’erano abituati e sicuramente non erano mai stati a Roma, Firenze, Venezia o in qualsiasi altro borgo del Bel Paese.
«Davvero è più bello di questo?» chiese una voce curiosa lì accanto.
Romano si volse di colpo gettandogli un’occhiata accusatoria.
Quella domanda era quanto di più sciocco le sue orecchie avessero mai sentito e dire che da quando era entrato nell’organizzazione insieme a suo fratello, ne aveva sentite di stronzate apocalittiche!
«Certo che lo è bastardo! Mi stai dando del bugiardo per caso?!» abbaiò rissoso mostrandogli il pugno.
«Non lo farei mai Romano, lo sai!» rise cristallino portando le mani innanzi a se.
Il giovane continuò a fissarlo con ostinato risentimento, per poi soffiare irritato come un gatto indispettito.
«Perché non ci andiamo quando abbiamo finito con questo lavoro?» continuò con un sorriso sereno posandogli una mano sulla testa.
La zazzera castana già scompigliata dalla brezza del mare parve animarsi maggiormente, il ciuffo ribelle che svettava perennemente sul suo capo scivolò tra le dita callose dello spagnolo esattamente come fece poco dopo il giovane.
«Dove?» chiese guardingo mettendo un po’ di distanza tra se e l’altro.
«A porto… Sant’Ercole! Si chiama così, l’ho detto bene vero?!»
Romano strinse i pugni infastidito tirando fuori un broncio quasi infantile, quello stupido castigliano non voleva proprio saperne di lasciarlo in pace.
Da quando avevano fatto sesso in quella schifosa camera a Salvador de Bahia, si era messo in testa chissà cosa, non faceva che chiedergli di fare passeggiate insieme, passare quelle poche serate libere che il crucco gli concedeva insieme, organizzare week-end insieme, condividere la camera. Non avrebbe potuto negare di essere stato bene durante quell’ultima missione, il sesso era stato un’esperienza del tutto nuova considerando che mai si sarebbe aspettato di farsi mettere le mani addosso da un uomo, ma ciò non comportava per forza maggiore che loro due dovessero diventare una coppia. Era stato un momento dettato dal caldo, dalle bottiglie di tequila che quei raccoglitori di cotone continuavano a mettergli in mano e dai commenti poco casti che la figlia del contadino faceva su Antonio. Si erano divertiti entrambi, ma la cosa era terminata su quel letto, nella vasca del bagno e di nuovo su quel letto, ma era stata archiviata come passatempo che mai avrebbe dovuto verificarsi ancora o almeno era quello che Romano aveva intenzione di fare. Quello stupido sordo di uno spagnolo invece non si era messo l’anima in pace neanche dopo cinque mesi, continuava a perseverare ricordandogli con ogni carezza forzata o sorriso intenerito le situazioni più disparate che l’altro si era imposto di rimuovere. L’italiano gli aveva urlato addosso più di una volta la realtà dei fatti, si era persino armato della più grande dose di pazienza che avesse mai raccolto nella sua breve vita per mettere in chiaro quanto loro non fossero una coppia, con un linguaggio semplice e comprensibile persino da un bambino di cinque anni, ma l’altro non voleva proprio saperne di capire. Ostinato continuava a vezzeggiarlo e squadrarlo come se si fossero appena sposati o l’italiano fosse un cucciolo di chissà quale animale da accudire con amorevole dedizione, nonostante le ormai scontate e abituali rimostranze di Romano, Antonio non voleva cedere in alcun modo.
«Vado di sotto in cabina a prendere il mio bagaglio.» borbottò scocciato, allontanandosi sul ponte.
Antonio rimase immobile accanto al parapetto della barca, la spuma del golfo di Monaco bagnò fresca i pantaloni in cotone avana che indossava, il medesimo sorriso che aveva mostrato sentendo Romano decantare – a suo modo – le lodi della propria patria rimase dipinto sul suo volto abbronzato. Alle sue spalle Kiku aveva tirato fuori la sua preziosa macchina fotografica, mentre Alfred si sbracciava poco saggiamente salutando ogni essere umano che gli capitasse a tiro nel giro di chilometri.


Hôtel de Paris, ore 14:21.




La mano si poggiò con stanchezza sul campanello dorato posto sul bancone della hall, un tintinnio squillante si diffuse per l’immenso salone lussuoso tra il vociare degli ospiti civettuoli e il rombo delle auto sportive che ruggivano innanzi ai pochi gradini che separavano la struttura da Place du Casino. Attese appena qualche secondo e premette nuovamente sperando che qualcuno si precipitasse a dargli le chiavi della sua tanto agognata camera, mentre una Lamborghini dalla carrozzeria scura parcheggiava accanto alle aiuole ricolme di fiori che circondavano la sfera di acciaio posta al centro della piazza. Alcuni responsabili dell’albergo, in fondo al grande piano in porfido rossiccio che percorreva l’intera lunghezza della sala, gli sorrisero cordiali continuando a occuparsi dei clienti giunti poco prima.
«Romano! Perché fai così? Non ho detto nulla di male!» si lamentò Antonio inseguendo l’italiano che aveva appena varcato la soglia del salone.
«Quel nomignolo per te non è nulla di male?! Cosa cazzo hai nella testa noccioline?!» strillò inferocito.
La mano si strinse attorno al campanello con maggiore insistenza, lo scampanellio ormai assordante lo costrinse a chinare il capo e rimproverarsi mentalmente per la scarsa educazione che stava mostrando.
«Che c’è di strano se ti chiamo Romanito?» insistette fermandosi qualche metro alle sue spalle.
«Smettila! Ti ho detto di non chiamarmi a quel modo bastardo! E poi ci guardavano tutti come fossimo degli appestati! Tienitele per te le tue moine!» la voce di Romano parve quasi divenire stridula per lo sforzo, le gote si arrossarono per la vergogna.
Arthur mollò improvvisamente il tanto bramato campanello dandogli tristemente le spalle, le iridi verdi guizzarono indignate sulle figure dei due compagni di lavoro, provocando uno squittio malcelato nel giovane italiano colto alla sprovvista.
Quel comportamento era intollerabile considerando il motivo per cui si trovavano lì a Montecarlo, la loro non era certo una sciocca gita tra amici in cui fare le escursioni in barca, gironzolare per i fast-food o beccarsi come piccioni nella stagione degli amori. C’erano milioni di euro in ballo per la loro organizzazione, una missione affidata con ogni probabile e dovuta raccomandazione, delle coperture da mantenere di cui la polizia del Principato sarebbe dovuta rimanere all’oscuro e lui, come responsabile della missione e persona adulta, aveva tutta l’intenzione di non mandare in fumo nulla. Avevano già perso abbastanza tempo per i capricci culinari di Alfred indignato per la scarsa presenza di fast-food made in USA – sette in totale –, non potevano permettersi di perderne dell’altro discutendo su nomignoli affettuosi.
«Se avete finito con i vostri preliminari, vi pregherei di fare silenzio, perché qualora non ve ne foste accorti… vi stanno guardando tutti, adesso però!» sibilò scontroso tentando quasi invano di mantenere un tono basso.
«Sir… posso fare qualcosa per lei?» chiese improvvisamente qualcuno alle sue spalle.
L’inglese si volse di colpo ignorando il tentativo dello spagnolo di ribattere a quel rimprovero, sospirò riacquistando quell’aplomb esemplare che lo contraddistingueva, un sorriso garbato si disegnò sulle sue labbra, mentre il concierge della hall lo osservava criptico rigirandosi una stilografica tra le dita.
«Sì, dovrebbero esserci due camere prenotate a mio nome per questa settimana, se fosse così gentile da controllare gliene sarei davvero grato!» recitò impeccabile.
Il volto dell’uomo parve distendersi in un sorriso cordiale, annuì borbottando qualcosa d’incomprensibile per poi accomodarsi sul piccolo sgabello di pelle rossiccia che era stato posto alle spalle del bancone. Le mani corsero veloci allo schermo del computer, Arthur si sporse appena osservando con estrema attenzione le varie prenotazioni che continuavano a spostarsi al tocco dei polpastrelli allenati.
«Il nominativo Sir?» chiese rialzando il capo castano.
«Henry Baskerville.» scandì con l’ennesimo sorriso.
Antonio inforcò degli occhiali dalle lenti chiare avvicinandosi al banco, Romano accanto a lui sfoggiò un’espressione guascona che consuetamente non avrebbe mai adottato, l’uomo addetto alle prenotazioni gli rivolse appena uno sguardo, intento piuttosto a disbrigare la prenotazione. Rimase occupato per alcuni minuti, quando finalmente ebbe trovato le camere e sbloccato l’impegno, rialzò nuovamente lo sguardo, gli occhi parvero brillare di una luce persino più intensa non appena ebbero incontrato quelli dell’inglese ancora poggiato al marmo. Afferrò un paio di chiavi dorate dagli appositi scaffali numerati e una manciata di fogli prestampati su cui erano stati incisi il saluto d’accoglienza dell’Hotel, informazioni e un questionario.
«Sir Baskerville le do il benvenuto all’Hôtel de Paris! Le vostre camere contigue si trovano al quarto piano corridoio est come avevate richiesto, ho già provveduto a farvi trasportare i bagagli che avevate affidato al concierge, li troverete debitamente sistemati!» cinguettò lezioso.
Arthur annuì stringendo la mano che l’uomo gli porgeva e Antonio si premurò di agguantare le chiavi delle camere, allontanandosi in tutta fretta verso la scalinata candida in marmo lucidato che squarciava il salone d’accesso conducendo al primo piano. Romano si mosse sul lungo tappeto bordeaux con un sorriso inconsueto, un angolo delle sue labbra parve incrinarsi quando si rese conto di essere nuovamente solo in compagnia dello spagnolo. Continuò a salire le scale con passo quasi strascicato, il labbro inferiore serrato.
«Sir per una migliore permanenza la prego di compilare il questionario con le sue eventuali esigenze per questa settimana, ovviamente provvederò personalmente a riservarle un’accoglienza degna di nota in qualsiasi locale di nostra competenza!» si piegò in una piccola riverenza lasciando che la stretta si sciogliesse.
L’inglese ricambiò il saluto di commiato chinando appena il capo biondo, afferrò in fretta la ventiquattrore di pelle marrone abbandonata accanto al bancone e attraversò metà del salone, prima di scorgere la griglia dorata dell’ascensore panoramico per cui il complesso alberghiero era noto in tutto il Principato. Vi si diresse a passo spedito sgusciando tra chihuahua ingioiellati, pacchi regalo e ricche adolescenti inferocite contro chissà quale commesso di una boutique di lusso. Infiltrarsi non era mai un grosso problema, gli alberghi, le società di credito, gli azionisti bancari o la polizia non avevano mai prestato molta dovizia nel controllare i loro documenti chiaramente falsi, ma i veri ostacoli arrivavano dopo, con i contatti diretti in loco e la pianificazione dei colpi da compiere. Per quelli le tessere identificative servivano a ben poco e il rischio di essere immortalati da qualche telecamera o colpiti da un proiettile della sicurezza era notevolmente più elevato. Aveva ormai abbastanza esperienza con l’Across da non farsi cogliere da attacchi di panico, ma derubare il Casinò di Montecarlo era pur sempre un’impresa da compiere con le dovute cautele.
«Non credo che al bar americano servano patatine, è un bar no Michael-san?»
«Impara dall’eroe Kiku! Non puoi mai dirlo se non controlli! Ahahah!» sghignazzò tornando verso l’entrata.
«Michael-san mi chiamo Toshi!» il viso del giapponese parve infiammarsi per la preoccupazione.
«Hai ragione Toshi!» gli fece l’occhiolino trascinandoselo dietro.
Arthur li vide sfrecciare lungo la hall come nel peggiore dei suoi incubi, il piede si piantò sulla soglia dell’ascensore impedendo alle grate di chiudersi, agguantò la propria valigetta quasi imprecando, mentre il giovane addetto all’ascensore gli porgeva il trench crema scivolato dalle sue braccia. Ripercorse i propri passi quasi correndo, sperando di bloccare quello stupido statunitense di Leavenworth prima che prendesse residenza in uno dei fast-food monachesi.
«Alf-! Michael! Torna subito qui!» si morse la lingua, cercando di non inciampare su una fila interminabile di bagagli di una coppia cinese.
Kiku si volse a guardarlo con dispiacere in una supplica silenziosa, tentò di parlare quando il britannico fu abbastanza vicino da poter udire la sua voce tra il mormorio dei clienti e il sottofondo rilassante dell’hotel, ma l’americano fu più svelto.
«Ci vediamo dopo vecchietto, io e Toshi andiamo al mio bar in fondo alla strada! Ahahah!» sghignazzò piantando un braccio attorno alle spalle dell’asiatico che per poco non svenne.
«Vecchietto a chi?! E quello non è il tuo bar stupido!» si ritrovò a strillare ormai in preda all’isteria.
Alfred e Kiku sparirono oltre le porte trasparenti, inghiottiti dal vociare concitato di Place du Casino, colma di turisti in visita al Principato, il cui luogo di maggiore attrazione era senza dubbio il grande complesso ludico posto proprio di fianco al grande hotel che recava il nome della famiglia reale e che loro avrebbero dovuto prendere di mira. Alcune cabriolet sfrecciarono proprio innanzi alla bottega di Yves Saint Laurent rallentando alla vista del concierge e un folto gruppo di donne sapientemente svestite e pomposi manager provenienti da chissà quale parte del mondo riempirono i pochi gradini del disimpegno. Arthur si concesse un sospiro rassegnato abbandonando l’idea d’inseguire i propri colleghi, chiuse gli occhi per qualche istante, mentre la mano massaggiava le tempie pulsanti e scivolava tra le ciocche bionde scarmigliate che così poco si addicevano a un gentleman.
Avrebbe dovuto trovare un buon modo per coinvolgere Alfred quel tanto che bastava da calarlo nei panni dell’eroe invincibile che supporta i compagni impegnati in una missione apparentemente impossibile, sul punto focale della grande serata era abbastanza fiducioso, ma aveva sperato sino all’ultimo secondo di non doverlo rincorrere per il resto dei giorni in giro per Montecarlo. Confidava tacitamente nelle capacità di ognuno degli elementi che Ludwig aveva selezionato per quel colpo, ma riuscire a tirarle fuori di continuo era un compito arduo e quanto mai bisognoso di pazienza.
Riaprì gli occhi cercando di farsi forza, era questione di qualche decina di hamburger o qualche bicchierone di Coca e l’americano sarebbe ritornato in camera felice come un bambino al parco giochi, la presenza di Kiku inoltre garantiva il sicuro rientro in un lasso di tempo che andava dal quarto d’ora alle due ore nette. Arthur lo giudicò abbastanza accettabile e un sorriso quasi grato si dipinse sulle sue labbra non appena ebbe realizzato di potersi concedere il lusso di un bagno rilassante prima dell’esercitazione di quel pomeriggio. Sorriso che si affievolì meccanicamente sino a mutare in una smorfia di autentico furore quando le iridi verdi si posarono sulla figura sorridente che baciava la mano di una donna sulla cinquantina.
«À plus tard ma chérie!» mormorò dandole poco dopo le spalle.
L’uomo mosse qualche passo attraverso la hall bloccandosi non appena i suoi occhi si furono posati sull’espressione di pura intolleranza che l’inglese, con le braccia ormai serrate al petto, gli stava rivolgendo. S’irrigidì per un istante interminabile, lanciò un’occhiata fugace al corpo prosperoso che si allontanava verso il salone di ricevimento insieme con altre donne dal viso reso inespressivo dal botulino, riprese a camminare con più entusiasmo verso il giovane ancora fermo accanto ai divanetti di pelle lavorata e un sorriso appassionato gli increspò le labbra sottili quando gli fu finalmente al fianco.
«Bonjour!» salutò suadente sporgendosi appena.
L’inglese fu tentato dal rompergli la propria ventiquattrore sul viso, ma la dedizione al lavoro lo trattenne dal sicuro massacro che avrebbe imbrattato le pareti della sala semmai avesse deciso di dar libero sfogo alla propria frustrazione, compromettendo di conseguenza la copertura. Si morse il labbro quasi facendolo sanguinare, si volse senza fiatare e si diresse verso l’ascensore cristallino di ritorno da chissà quale degli otto piani della struttura.
Sapeva che l’avrebbe rivisto, il tedesco era stato perfettamente chiaro nell’indicare i membri partecipanti al colpo, ma ritrovarselo a pochi passi aveva mandato al diavolo ogni suo papabile buon proposito per la civile e indifferente convivenza forzata.
«… Bonjour Monsieur!» il biondo insistette con un piccolo colpo di tosse, continuando a seguirlo.
Arthur si bloccò di colpo esasperato, schiantandogli addosso ciò che restava del suo povero trench crema ormai spiegazzato, serrò la mandibola, mentre l’altro socchiudeva gli occhi blu temendo il peggio.
Quello era molto più di quanto potesse solamente tollerare dopo tanto tempo. Ludwig, a capo dell’Across da ormai dieci anni, era sempre riuscito a gestire, con magistrale sapienza, ogni imprevisto dovuto alla scarsa ed eterogenea compatibilità dei suoi sottoposti, ma con quel colpo a Monaco aveva – a detta dell’inglese – fatto cilecca nel peggiore dei modi. Erano ormai troppi mesi che quella situazione andava avanti a singhiozzi, non che ad Arthur importasse qualcosa di quella situazione, ma l’idea di essere stato preso per i fondelli da un decerebrato bavoso cui probabilmente non fregava nulla, gli faceva perdere la testa più del sopportarlo di continuo alla base. Per di più avrebbe – secondo l’opinione o supplica del bavarese – dovuto comportarsi in modo responsabile, coscienzioso e che non nuocesse alla complessità del colpo, soprassedendo a qualsivoglia beccata del francese, cosa che avrebbe fatto più che volentieri.
«È tutto quello che sai dire?! Dopo sette mesi l’unica cosa che blateri vedendomi è “bonjiur”?!» sbottò infervorato facendogli il verso.
«M-ma!» tentò nuovamente colto alla sprovvista, mentre Arthur si allontanava a passo di carica.
Era più che intenzionato a ignorarlo o riempirlo di calci in qualche remoto e oscuro angolo di quell’hotel, in modo che la missione non ne soffrisse in alcun modo e la sua copertura da perfetto inglese alla ricerca di fortuna potesse procedere senza alcun intoppo.
Le grate dell’ascensore si aprirono con un lieve cigolio nell’istante stesso in cui il britannico vi si fu posto innanzi, il giovane che accompagnava i clienti nei vari piani lo salutò con rinnovato entusiasmo tentando garbatamente di sottrargli giacca e valigetta. Abbandonò con una risatina isterica il tentativo non appena Arthur si fu schiacciato contro la parete dell’ascensore, continuando a fissare rissoso il biondo ammutolito rimasto al di fuori del grande ascensore.
«Monsieur non sale?» chiese piano il ragazzetto, vedendo lo sguardo allucinato dell’uomo.
«”Messié” prende le scale o le ruote della prima auto che passa per la strada a tutta velocità! E ora andiamo, non ho tutta la giornata da perdere io!»


Camera 143, ore 18:44.




Kiku non era mai stato molto pratico in quanto a rapporti interpersonali, nonostante la sua famiglia fosse una delle poche talmente intraprendenti da abbandonare il proprio villaggio sulle colline per trasferirsi in una grande metropoli come Osaka, restava pur sempre una vena di chiusura dettata dalla tradizione. Aveva avuto la fortuna di crescere in una nazione ormai aperta a qualsiasi contatto con il resto del mondo, nella sua vita c’erano stati i viaggi studio in America, alcuni di puro piacere trascorsi in Europa, ma la quotidianità dell’Across, composta da uomini e donne provenienti da qualsiasi parte del mondo, continuava a stupirlo in ogni sua più piccola sfaccettatura. Erano passati pochi mesi da quando Yao-san lo aveva convinto ad abbandonare il vecchio lavoro d’informatico nell’agenzia d’imposte, c’erano centinaia di cose che non gli erano ancora chiare, compresa la modalità con cui il suo nome fosse stato scelto tra milioni di giapponesi, ma il “cosa” realmente legasse tutti quegli individui era forse quello che più lo incuriosiva. Erano mercenari il cui nome era ignoto all’INTERPOL, alcuni erano schedati nei gruppi speciali degli eserciti delle rispettive nazioni, altri avevano un passato da cittadini onesti e rispettabili, alcuni avevano lavorato nei modi più disparati, ma tutti avevano una qualche dote peculiare capace di isolarli dalla massa. Se fossero poi una combriccola di amici o una famiglia bislacca era ancora del tutto oscuro ai suoi occhi.
«Sto mon mignon!» sorrise poggiando le cinque carte sulle lenzuola violacee del letto matrimoniale.
«Sto anch’io.» gli occhi dell’asiatico corsero alle mani dell’italiano.
Durante il volo da Praga a Nizza si era largamente informato tramite la rete telematica riguardo ai giochi più popolari nei casinò europei e lo Chemin de Fer era senza dubbio uno dei più praticati. Le regole erano abbastanza semplici da quanto ricordava, ma non aveva ancora ben chiaro perché in quel tavolo d’azzardo improvvisato vi fossero due giocatori a sfidare il banco piuttosto che uno soltanto.
Romano nel ruolo di banco estemporaneo si rigirò le tredici carte tra le dita con sguardo critico, un broncio infastidito gli incrinò le labbra quando ebbe posato le proprie cinque il cui risultato era un misero quattro, fu appena un istante e gli occhi nocciola tornarono a brillare di scherno posandosi in quelli dell’inglese.
«Inglesino vuoi sentire prima la brutta notizia o quella bruttissima?» chiese derisorio sciorinandogli le carte innanzi al viso.
Arthur per un secondo effimero parve gonfiare le guance come un bambino offeso, poi alzò le spalle magre riacquistando la propria innata flemma e osservò quasi con tenerezza paterna il giovane italiano.
«Fa come vuoi ragazzino, ma vediamo di sbrigarci a finire questa partita.» soffiò stancamente.
L’italiano strinse i pugni irritato, le tre carte che Arthur gli aveva consegnato pochi secondi prima volarono malamente sul copriletto vinaccia disperdendosi con la leggera brezza che s’insinuava dalla finestra aperta che dava sul cortile dell’hotel.
«Il ragazzino qui presente ti ha battuto per tua informazione!» ringhiò infervorandosi.
Il viso dell’italiano si colorò di un’intensa tonalità di rosso, mentre il biondo gli rivolgeva un’occhiata addolorata portandosi una mano al petto quasi con afflizione.
«Oh che bruttissima notizia… non ci dormirò la notte!» si lagnò ironico.
Romano si premurò di lasciar cadere le restanti cinque carte, un ghigno di soddisfazione gli dispiegò il viso, dando un po’ di sollievo agli occhi ormai lucidi per il nervosismo.
«Quella era la brutta notizia! Quella bruttissima è che ti ha battuto anche il tuo fidanzato maniaco!»
Kiku aveva sempre considerato Arthur Kirkland come una persona a modo con cui intrattenere piacevoli conversazioni, un veterano dell’organizzazione cui venivano affidati i compiti più ardui per la grande capacità di organizzazione e autocontrollo che imponeva a se stesso e agli altri, eppure da qualche ora non faceva che vedere sul suo volto espressioni che mai si sarebbe aspettato. Il modo in cui i suoi occhi si sgranarono quando il giovane Vargas gli ebbe spiattellato in faccia la verità con perverso compiacimento parve decisamente innaturale.
«Non è il mio fidanzato brutt-What the hell?!» strillò quasi afferrando le carte che giacevano accanto alle sue ginocchia.
«Su non fare quella faccia inglesino! Sono sicuro che Francis ti concederà la sua rivincita!» sghignazzò provocatorio facendo battere le mani sulle proprie gambe.
«Oui Angleterre, posso concedertela tutte le volte che vuoi!» annuì elettrizzato il francese sdraiato lì accanto.
«That’s enough! Tu stammi lontano essere bavoso e tu va a rompere le scatole a Carriedo… Romanito!»
«Oh ma volete piantarla?! L’eroe è all’ultimo livello, non mi concentro se continuate a fare chiasso!»
Francis dopo una veloce occhiata allo statunitense abbarbicato sulla poltrona in amorevole compagnia della sua consolle portatile, lasciò ricadere la fronte sul cuscino di piume d’oca con un lamento, mentre l’inglese balzava in piedi puntando il dito contro il giovane.
«Dovresti smetterla tu Alfred! Questo non è uno scherzo, ci sono in palio i fondi dell’organizzazione e non possiamo permetterci di perdere a uno stupido gioco francese!»
Alfred o Michael Kent – come aveva deciso di chiamarsi per quell’operazione – gli rivolse una sbirciata quasi infantile prendendo a succhiare in modo frenetico dall’enorme bicchierone di Coca ghiacciata che erano riusciti a recuperare in un BurgerKing lungo il belvedere vicino al porto.
La porta in cedro che congiungeva la camera in cui si trovavano con la 144 si aprì silenziosa provocando in tutti un lieve sussulto, Kiku lasciò scivolare lo sguardo sulla custodia che giaceva abbandonata sotto all’enorme letto su cui due dei suoi cinque colleghi erano ancora accomodati, sarebbe bastato davvero poco per brandire la sua katana. La zazzera castano scuro dello spagnolo bloccò tuttavia qualsiasi possibile reazione da parte del gruppo, l’uomo richiuse l’uscio alle proprie spalle concedendosi un sospiro, mentre afferrava una sedia dal tavolinetto accanto all’armadio e ci si lasciava cadere.
«Hai prenotato da Alain Ducasse mon ami?» chiese impaziente Francis mettendosi a sedere.
Arthur si poggiò nuovamente al letto dopo avergli mollato un colpo di cuscino in piena testa quando Antonio annuì sorridente provocando nell’amico un versetto di eccitazione incontenibile.
«Piuttosto che continuare a parlare di stupidaggini, potrei sapere com’è la situazione di sotto?»
«La serata di gala è tra due giorni da oggi, tutti i tavoli saranno occupati da impresari, milionari o chiunque possa permettersi quelle quote d’entrata a ogni manche! Credo ci sarà anche qualche professionista perché c’erano due tipi al bar che parlavano di sfide per un attestato…» borbottò il castigliano tirando fuori dalla tasca un foglio spiegazzato su cui aveva preso appunti.
«E che cazzo però!» l’imprecazione parve aleggiare greve nell’aria.
Romano mollò un calcio a una delle lampade di legno nero che erano state sistemate negli angoli della camera, Kiku la guardò traballare per qualche secondo, mentre persino il suono del gioco dell’americano taceva preoccupato.
Il fatto che vi fosse così tanta gente a una serata organizzata dal casinò non era certo un problema per loro e anzi favoriva la buona riuscita del piano, il vero ostacolo adesso era rappresentato da quei presunti professionisti di cui lo spagnolo era venuto a conoscenza in una delle sue passeggiate spionistiche. Avevano tutti i mezzi per truccare ogni singola partita qualora i turni non fossero stati vinti regolarmente, avrebbero dovuto impiantare dei sistemi di monitoraggio sul computer centrale della banca dati e quello della sicurezza, le telecamere sarebbero state oscurate con facilità, ma il contatto diretto con il croupier e gli altri giocatori permaneva. Senza quell’imprevisto avrebbero potuto attribuire alcune delle vittorie al caso, altre a un talento che spiccava tra quelli degli altri partecipanti, ma con singoli che praticavano certe operazioni più per lavoro che per svago, c’era poco da improvvisare.
Arthur si lasciò sfuggire un sospiro, mentre la mano correva a massaggiare per qualche secondo la tempia.
«Sai a che tavoli saranno?» chiese pensieroso cercando di fare il punto della situazione.
Antonio alzò le spalle dispiaciuto, smettendo improvvisamente di dondolare sulla sedia di legno.
«Quei due parlavano di poker, ma non so se saranno solo nella sala americana o anche nelle altre…»
«Se sono al Texas Hold’em non c’è storia, assisteranno al mio eroico trionfo! Ahahah!»
Kiku gli concedette un sorriso complice, mentre anche gli altri parevano rilassarsi a quella notizia.
Alfred era stato inserito nella missione per un motivo ben preciso e difficilmente accantonabile: era un genio indiscusso della variante texana del poker. Da quanto aveva raccontato al giapponese – tralasciate le fantasie in parte impossibili con cui aveva condito il tutto – era stato campione per tre anni consecutivi in Kansas, da quando aveva raggiunto la maggiore età sino a qualche tempo prima. Aveva smesso di partecipare ai tornei statunitensi a causa della noia e dei nuovi impegni con l’organizzazione che lo aveva costretto persino a cambiare continente. Era ancora imbattuto e il talento dovuto alle proprie capacità o all’abitudine non poteva di certo essere svanito da un giorno all’altro. Era una carta che al casinò avrebbe fruttato parecchie migliaia di euro ed era già ovvio che avrebbe dovuto giocare per qualche vincita a più zeri, nonostante la pianificazione non fosse ancora stata stabilita del tutto, Kiku era ormai certo che Alfred sarebbe finito in prima linea per l’intera serata e non dietro al computer a dargli una mano.
«In ogni caso vediamo di scoprire dove giocheranno queste persone prima di martedì e quante sono… vincite e quote sono rimaste invariate?»
Antonio annuì nuovamente posando un pacchetto di sigarette ancora intatto sulla madia cui appoggiava la schiena, sistemò con distrazione i polsini della camicia che ormai gli circondavano i bicipiti.
«Cinque mila a manche per i tavoli da poker, blackjack e chemin, mille per le roulette principali in tutte e tre le sale, cinquecento per le roulette semplici e gli spiccioli per le slot-machine. Credo rimarranno bloccate, ma controllerò anche domani per evitare imprevisti.»
Kiku li osservò con ammirazione come se quella cui stava assistendo fosse una prima cinematografica di un qualche film su James Bond e non una verifica cautelativa per la pianificazione di un furto a uno dei casinò più famosi del mondo.
Era la prima volta che partecipava a un colpo tanto rilevante, erano ormai tre mesi e qualche settimana che faceva parte dell’organizzazione, ma sino allora gli erano stati affidati compiti non troppo complessi, Feliciano – fratello minore di Romano e membro del gruppo – aveva chiamato le sue mansioni “disbrigo pratiche”. Adesso però aveva il dovere di dimostrarsi meritevole di quell’improvvisa promozione, avrebbe dato del proprio meglio pur di non ostacolare l’andamento della missione e le sue doti d’informatico sarebbero finalmente servite a qualcosa di più complesso del semplice contattare clienti per una società.
«Controlliamo anche le vincite giornaliere di tutti i casinò principali della città, non voglio che si accorgano del picco proprio la sera in cui noi andremo a giocare.»
«Possiamo azionare la macchina prima, no? Così non s’insospettiscono!» propose Romano, mentre Antonio tentava di accarezzargli il ciuffo scomposto.
Il britannico parve per qualche secondo indeciso, poi soffiò fuori un cenno di consenso.
La macchina che avevano progettato per il colpo era opera di Kiku e dello statunitense, Alfred avrebbe voluto creare un super computer capace di hackerare qualsiasi sistema di sicurezza, ma il suo progetto richiedeva troppo tempo, troppi soldi e troppo spazio. Alla fine avevano risolto il problema modificando uno dei portatili già in dotazione all’Across in modo che agisce efficacemente a qualsiasi distanza e su qualsiasi complesso informatico tramite una rete non tracciata come poteva esserlo quella dell’hotel.
«Va bene, questa sera verso le dodici blocchiamo il sistema di qualche slot al casinò sulla pista del circuito! Alfred mettine fuori uso solo una o due, in modo che le vincite non siano eccessive e…»
«E adesso basta, si è già fatto tardi e andiamo tutti a cena! Alain Ducasse ci aspetta!»
Francis lo bloccò ancor prima che potesse terminare, sistemando la camicia azzurra che aveva sbottonato per metà e ricevendo la totale approvazione dell’americano che spense istantaneamente la consolle correndo ad acciuffare le scarpe sportive che aveva malamente lanciato sotto il letto non appena arrivato. Arthur gli rivolse un’occhiataccia serrando le braccia al petto, l’italiano si concesse una risatina di scherno approfittando della distrazione dello spagnolo per fuggire nella camera accanto, probabilmente per prendere un cambio ancora fresco dalla valigia che aveva portato al Principato.
«Arthur-san possiamo continuare dopo, non crede?» chiese Kiku dopo un interminabile silenzio.
L’inglese lo squadrò sorpreso, forse dimentico dell’avere il giovane asiatico ancora nella medesima stanza, annuì senza badarci troppo, alzandosi dal letto per andare a rinfrescarsi nel lussuoso bagno della camera.
Kiku attese giusto il tempo di sentire la mano dell’americano afferrare la propria e trascinarlo nel corridoio dell’hotel, diede uno sguardo alle proprie spalle sperando che nessuno si fosse offeso per quell’uscita di scena tanto improvvisata e carente di commiati.
«Andiamo Toshi, prima che Francis faccia arrabbiare il vecchio e l’eroe resti senza hamburger!»
«Michael-san non credo che facciano quel genere di cibo al ristorante dell’hotel…»
«Ahahah lo faranno per l’eroe vedrai!»








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Note dell’autrice:
Sarò un po’ prolissa, quindi se vi scoccia leggerle saltatele pure, non mi arrabbierò, non mi arrabbio mai io! Davvero!
- “Across”: in inglese sta per “attraverso”, è la società internazionale di mercenari cui facevo riferimento nell’introduzione e al cui vertice sta Ludwig – chissà come mai… – , ha la sua sede nel sottosuolo di Praga e attualmente continua a reclutare membri in ogni settore della vita pubblica delle varie nazioni. Altre notizie verranno date in seguito.
- “Henry Baskerville”: è il nome adottato per questa missione da Arthur. La scelta deriva da uno dei nomi più comuni in Gran Bretagna, ovvero Henry, e dal titolo di una delle tante opere di Arthur Conan Doyle, ovvero “Sherlock Holmes e il mastino dei Baskerville”.
- “Toshi”: nome di copertura per Kiku.
- “Michael Kent”: nome adottato per la missione da Alfred. Deriva da due dei personaggi più in vista dell’America degli ultimi secoli, ovvero Michael Jordan e Clark Kent.
- “À plus tard ma chérie”: trad. A dopo mia cara !
- “INTERPOL”: Polizia Internazionale, ente governativo e sovranazionale che agisce contro criminali che violino diritti internazionali, crimini perseguibili in altre nazioni o partecipa alla cattura di fuggiaschi che tentino di riparare in nazioni ove il loro crimine non è stato commesso.
- “Mon mignon”: trad. Piccolo mio.
- “Chemin de Fer”: è uno dei giochi più praticati nei casinò di tutto il mondo e io ne sono una convinta sostenitrice. Si gioca con 8 partecipanti e 6 mazzi da 52 carte, denominati “taglia”. Vi è sempre un banco e un giocatore che sfida – a meno che non ci si debba esercitare e solo allora è consentita la presenza di un terzo –, ci si muove a turno e per duelli, la partita viene vinta se il giocatore o il banco fanno 8 o 9. Il banco distribuisce due carte a se e due al giocatore, qualora fossero presenti figure o decine {donna, cavallo, re, dieci} esse non vengono contate, ma sottraggono – se più di una – dal totale computato. Es. se si hanno un 9 e un 10, il totale è 9; se si hanno due 9 e un dieci, il totale è 8[9+9-10=8]. Nel caso della partita giocata da Romano, Arthur e Francis i punteggi sono:
Francis: 10-donna-6-8-4{18+10-20=8}
Arthur: 9-4-re{23-20=3}
Romano: 8-10-10-3-3{14+10-20=4}.
- “What the hell?!”: trad. Cosa diavolo?!
- “That’s enough!”: trad. Adesso basta!
- “Alain Ducasse”: chef francese del Louis XV, ristorante dell’Hôtel de Paris. Ha attualmente catene di ristoranti a Londra, Montecarlo e Parigi, tutti con tre stelle Michelin ciascuno.





  
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