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Autore: shadow_sea    08/08/2013    5 recensioni
Lo scrittore principale di Mass Effect desiderava che il finale di ME3 si concentrasse sull’energia oscura, che stava per distruggere l’universo.
"The Reapers as a whole were 'nations' of people who had fused together in the most horrific way possible to help find a way to stop the spread of the Dark Energy. The real reason for the Human Reaper was supposed to be the Reapers saving throw because they had run out of time. Humanity in Mass Effect is supposedly unique because of its genetic diversity and represented the universe's best chance at stopping Dark Energy's spread" (Drew Karpyshyn).
Da qui, dalla forza devastante dell’energia oscura, tema appena sfiorato in ME2 e poi rapidamente abbandonato, trae lo spunto questa mia storia.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Garrus Vakarian, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Shepard e Vakarian'
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LA MOGLIE DEL PRIMARCA


And I Thought My Jokes Were Bad



17 settembre
Si svegliò bruscamente al suono del suo stesso urlo che si propagava nel buio profondo e silenzioso che l’avvolgeva. Era completamente intrisa da un sudore freddo che appiccicava il tessuto della maglietta alla pelle madida e i capelli corti sulla nuca gelata.
Cercò di capire dove si trovasse e a cosa fosse dovuta quell’angoscia che la opprimeva e le riportava, chiare alla mente, le sensazioni provate quando il suo corpo era stato espulso dalla Normandy in seguito all’esplosione causata dall’attacco dei Collettori. Come allora, si era destata per una caduta nel vuoto e per la sensazione di non poter più immettere aria nei polmoni.
Aveva provato lo stesso terrore e la disperazione acuita dell’impotenza. Quel miscuglio di sentimenti la opprimeva anche in quel risveglio avvenuto nel sicuro letto dell’ospedale.

All’infermiera che si precipitò nella stanza di corsa chiedendole in tono preoccupato cosa fosse accaduto, rispose di aver avuto un incubo e la pregò di lasciare la luce accesa.
Non riusciva a ricordare quasi nulla, prima delle fasi finali di quel sogno, ma tentò di riannodare i fili delle visioni che l’avevano destata, con la paura che svanissero del tutto. “Occhi azzurri pieni di lacrime, un giardino... ma dove mi trovavo?” si interrogò inutilmente, infastidita dalla sgradevole sensazione del sudore che le si stava asciugando addosso.
Si alzò e andò verso la finestra. Aprì la pesante tenda che la schermava interamente e rimase a fissare il lieve chiarore rosato della prima alba artificiale di quel giorno tanto agognato in cui sarebbe tornata ad essere libera. Avrebbe dovuto attendere il pomeriggio, dopo che le fosse stata consegnata la cartella clinica contenente tutti i dati che la riguardavano.
- La tenga sempre con sé, soprattutto per i primi due o tre mesi - si era raccomandato il dottore turian, che non si sentiva molto tranquillo per quella dimissione secondo lui troppo affrettata.
Scosse la testa “E’ inutile, non riesco a ricordare” si arrese e andò in bagno per lavarsi sommariamente al lavandino, stando attenta a non bagnare la medicazione applicata sul torace, là dove il giorno prima le avevano sostituito l’ultimo impianto danneggiato.

Una volta che si fu asciugata, dedicando ai capelli un semplice strofinio con l’asciugamano, si diresse verso l’armadio dove teneva gli abiti, accarezzò con desiderio la sua uniforme, ma poi optò per una semplice tuta da ginnastica.
“Dovrò aspettare solo poche ore prima di poterla indossare nuovamente” si disse, provando un enorme senso di sollievo.
Mentre beveva il caffè portato da un’infermiera, ricordò che quella mattina sarebbe venuta a trovarla Jack e provò un senso di gioia profonda al pensiero di poter riabbracciare quella strana ragazza, che non vedeva da molte settimane, ancora prima dello scontro finale contro i Razziatori.

Uscì dalla stanza e avvertì il medico di turno che stava andando al mercato del Presidio: voleva approfittare della sua prima giornata di libera uscita per fare un giro dei negozi. Era impaziente di controllare se durante quel lungo periodo trascorso in ospedale fosse uscito qualche nuovo modello di arma o se esistessero potenziamenti innovativi, magari basati sull’inquietante tecnologia dei Razziatori.
Jack la raggiunse mentre stava studiando le caratteristiche di un mirino di nuova generazione, aspettò che posasse l’articolo e si accorgesse finalmente della sua presenza, poi le dette un’amichevole pacca sulla spalla.
- Niente pugno di benvenuto in piena faccia questa volta. E’ un bel progresso... Sono lusingata... - commentò, prima di abbracciarla.
- Guarda che mica è con me che sei fidanzata! - esclamò Jack imbarazzata, ma ricambiò la stretta con calore e con un aperto sorriso.
- Shepard, spero che al tuo turian piaccia stringere fra le braccia uno scheletrino diafano. Ma eri in ospedale o in campo di concentramento? - osservò poi, sciogliendosi dall’abbraccio e fissando il comandante con un’espressione carica di preoccupazione.
- Mi rifarò in poco tempo, con l’uso intensivo di una buona palestra e un po’ di cibo commestibile - rispose ridendo, prima di sviare il discorso, chiedendo notizie dei suoi allievi, i biotici dell’Accademia Grissom.

- Siamo sopravvissuti tutti allo scontro contro quei dannati Razziatori, ma non abbiamo avuto certo tempo di annoiarci durante quella maledetta battaglia. Credo che il nostro apporto sia stato ritenuto molto utile - rispose con un orgoglio che non si prese la briga di celare - O almeno questo è quello che ci hanno mandato a dire i tuoi amici burocrati.
- Non sei cambiata affatto, nonostante la nuova uniforme - ribatté prontamente, appena infastidita - I miei amici sembrano sempre essere fra i peggiori individui in circolazione nella galassia: prima l’Uomo Misterioso, ora i burocrati... Ci mancherebbe solo che mi accusassi di avere un debole anche per qualche Razziatore...
- In effetti, ci sarebbe il Leviatano e la sua piccola combriccola - ridacchiò Jack - ma forse definirvi amici sarebbe un po’ eccessivo.
- Non ho idea di dove si siano rintanati, ma preferirei non trovarmeli più fra i piedi - commentò lei, ricordando il lungo colloquio avuto con gli ultimi esemplari di quella razza antica e inquietante - E comunque, Jack, ricorda che anche tu rientri nella cerchia dei miei amici... - concluse poi, fissando la biotica con una certa malizia.
- Il che non confuta affatto la mia teoria sulla tua propensione a stringere amicizia con gente strana e di reputazione dubbia... - osservò la ragazza ridendo, prima di proporle di andare insieme all’Armax Arsenal Arena - Dai, andiamo a divertirci un po’. Sono sicura che ti sei arrugginita.

- Non ho nessuna notizia recente sul mio vecchio equipaggio. Tu hai sentito qualcuno? - chiese Shepard, durante una breve pausa in un combattimento simulato.
- No, l’unica persona che ho incontrato è stato Garrus, ma dubito ti servano aggiornamenti sul tuo turian - rispose Jack in tono divertito, mentre ricaricava la sua pistola.
- Sai che mi ha chiesto di diventare sua moglie? - chiese, dopo aver fatto esplodere una nova stentata in mezzo a un gruppo di nemici, non riuscendo a ucciderne neppure uno.
- Che figlio di puttana! Mica me l’ha detto! - esclamò Jack, fissandola con sorpresa - Lo sapevo che ti eri arrugginita - aggiunse poi, mentre ricaricava l’arma, scuotendo la testa con evidente disapprovazione - Quella me la chiami una nova? Se non ti paravo il culo io, eri bella che spacciata...
- Disattiva i tuoi impianti e poi vediamo cosa riesci a fare tu... - ringhiò di rimando con aperta ostilità, innervosita perché si era augurata un risultato migliore. Si rendeva conto di aver fornito una prestazione insoddisfacente e ora aveva paura che su Gotha i suoi poteri biotici sarebbero potuti risultare inadeguati.
- Sei senza impianti? Pensavo te li avessero rimessi in funzione... Allora non sei affatto male, sai? Mi dovresti spiegare come ci riesci... - fu il commento stupito di Jack, che ebbe il potere di alleviare almeno in parte i suoi timori.

Più tardi, davanti al bancone del Silver Coast, mentre sorseggiavano un bicchiere di un intruglio generosamente alcolico che Jack aveva ordinato per entrambe, la ragazza aggiunse - A dire il vero Garrus non mi ha detto molto, sembrava molto indaffarato ed è praticamente scappato non appena ho menzionato la parola Primarca.
- Già - rise di rimando - con me fa lo stesso. Credo mi stia preparando una sorta di sorpresa. Solo che non sono certa mi piacerà. Blaterava di una casa, l’ultima volta che ci siamo sentiti...
- Oh oh! Una bella casetta su Palaven, Shepard? Sarai la moglie del primo cittadino di quel pianeta! Wow, grandioso... Una bella promozione, complimenti... - la sfotté, continuando imperterrita e gesticolando vistosamente - Vediamo... Uso la mia palla di cristallo per prevedere il tuo roseo futuro di sposina fresca: avrai un bel giardino pieno di piante e di fiori profumati e una dimora elegante e signorile, con una grandissima sala da pranzo per ricevere i tuoi amichetti diplomatici... Sono quasi certa che nel pacchetto regalo sarà compreso anche uno stuolo di servitori pronti ai tuoi ordini, comandante, qualche delizioso animaletto domestico, un paio di marmocchi adottati e probabilmente... Ehi! Ma che cazzo!...
- Ma cosa ti prende! - esclamò, stupita nel vedere il comandante che impallidiva vistosamente e si appoggiava al bancone per non cadere.
- Chiamaci uno stramaledetto taxi, razza di imbecille - urlò al barista - Im-me-dia-ta-men-te - sillabò con rabbia vedendolo rimanere immobile con la bocca aperta - Non vedi che la mia amica sta male?

- Mi spieghi cosa cazzo ti prende? - fu la frase che le penetrò prepotentemente nei timpani, mentre Jack la accompagnava fuori dal bar e la aiutava a entrare nell’astroauto.
- Nulla, sto bene - rispose, ricomponendosi, fermamente decisa a non dare alcuna spiegazione - Se dici una sola parola sull’accaduto a un qualsiasi medico dell’ospedale, giuro che ti vengo a prendere e ti torco il collo - fu la minaccia che le rivolse in tono fermo e intimidatorio.
- Non ti farò da madre... - rispose Jack, stringendosi nelle spalle - Però non essere idiota. Se stai male non puoi farti dimettere.
- Non sto male. E’ solo che i tuoi discorsi demenziali mi hanno fatto tornare in mente una cosa - confessò stancamente.


Fear of the Dark



Erano state le frasi di Jack a ricordarle le immagini del sogno di quella mattina.
Appena arrivata in stanza, si distese sul letto con fare obbediente e tranquillizzò ancora una volta l’amica, rassicurandola che si sentiva già molto meglio. Poi, appena rimasta sola, si alzò dal letto e usò il factotum per chiamare Garrus.
Restò a fissare a lungo il segnale lampeggiante che indicava l’impossibilità di contattare il destinatario, fino a quando chiuse la comunicazione con rabbia.
- Maledizione! Quando ho bisogno di parlarti non ci sei mai! - lo accusò ad alta voce, sapendo di essere ingiusta e irritandosi ancora di più proprio per questo.
Si sedette al tavolino e prese il portatile.
Lo aprì con un gesto irato e andò sulla pagina dei nuovi messaggi, rimanendo a fissare con odio quella pagina bianca, pensando a come organizzare in parole il groviglio di sensazioni che le ingarbugliavano la mente.
Scrisse l’indirizzo di Garrus e poi scese nello spazio destinato al testo.

Amore mio,

“Amore mio un corno” commentò con un sorriso teso, prima di selezionare quelle due parole e cancellarle.

Caro Garrus,

Selezionò anche quelle due parole e le eliminò.

Perché non mi rispondi? Dove diavolo sei finito?
Maledizione! Devo parlarti subito, prima che mi trascini dove non voglio andare.
Non posso diventare tua moglie.


Rilesse quelle frasi scarne, rendendosi conto che non avrebbe mai potuto spedirle. Erano parole chiaramente dettate dall’agitazione ansiosa che provava in quel momento.
Scorse di nuovo le tre righe, provando a immaginare l’espressione attonita di Garrus nel ricevere quel messaggio inatteso e sconclusionato, poi appoggiò la schiena contro la spalliera della sedia. Fece qualche respiro tranquillo e provò a pensare a come avrebbe potuto comunicargli che non aveva alcuna intenzione di sposarlo.
Provava la necessità impellente di annullare al più presto la stramaledetta promessa fatta appena pochi giorni prima al ristorante panoramico: non voleva che lui si spingesse troppo in là con chissà quale folle progetto, ma non trovava le parole per esprimere in maniera civile quella decisione necessaria.
“Forse dovrei aspettare di incontrarti di persona” si rese conto finalmente, ritrovando un minimo di equilibrio mentale “Non è una decisione che si possa comunicare con una mail, neppure se riuscissi a scriverla in versi. Potrei provare con una poesia in stile hanar” provò a ridacchiare, immaginando di scrivere un rifiuto leggero come i petali di un fiore. No, non c’era nulla di appena vagamente divertente, ammise sconsolata.
Stava spostando il mouse per chiudere la pagina, quando il tocco delicato di una mano che si posava sulla sua spalla la fece trasalire.
Una salarian appoggiò un datapad a fianco del piccolo monitor - Ecco la sua cartella clinica. Le faccio i miei migliori auguri per una convalescenza serena - le augurò con un sorriso, mentre i suoi occhi venivano calamitati dal breve sfarfallio dello schermo del portatile. Era tornato bianco, in attesa di contenere il testo di un nuovo messaggio. Quello precedente era stato inviato al destinatario dal dito di una mano che si era contratta involontariamente per un sobbalzo improvviso.
Spalancò gli occhi per l’orrore di quel gesto accidentale, poi chiuse il portatile emettendo un piccolo gemito.

Aspettò a occhi chiusi che l’infermiera uscisse dalla stanza, perché era sicura che se l’avesse guardata non avrebbe resistito all’impulso di colpirla.
“Ho compiuto un passo necessario” provò inutilmente a rassicurarsi “Il modo è stato pessimo, ma dovevo comunque farlo”. Per un paio di secondi si sentì quasi sollevata: ora, comunque, non sarebbe più potuta tornare indietro.
Rimase a fissare il vuoto, pensando che poteva continuare a valutare la portata di quel disastro oppure concentrarsi sui dettagli dell’incubo che l’aveva destata quella mattina. Optò per la seconda scelta e si alzò per andare verso la finestra aperta a respirare l’aria tiepida di quel pomeriggio, apparentemente simile a tanti altri che l’avevano preceduto, provando a concentrarsi su quelle immagini.
Considerò con stupore quanto fosse normale, in sogno, avere la consapevolezza certa del luogo in cui ci si trovi, anche quando, in realtà, è assolutamente sconosciuto.

Era nel grande salone dei ricevimenti della sua villa su Palaven, nel mezzo di una festa in cui tutti sfoggiavano completi ricercati, scarpe raffinate e gioielli preziosi. Abbassando gli occhi, si era resa conto di avere indossato l’uniforme della Normandy, anziché l’abito che Garrus le aveva comprato appositamente per l’occasione.
Era corsa al piano di sopra, per indossare il vestito elegante, ma non era riuscita a trovarlo. Al suo posto, sul letto, aveva trovato un piccolo turian che continuava a chiamarla mamma.
Era tornata sui suoi passi, osservando dall’alto della scalinata il tavolo lungo, adibito a rinfresco, su cui erano appoggiati svariati piatti di portata, colmi di una sostanza viscida. Ogni pochi secondi si creavano bolle che scoppiavano improvvisamente con rumorosi ‘plop’, emanando un puzzo di uova marce, come se si trattasse di pozze di fango bollente in una solfatara.
I pochi ospiti che si avvicinavano al tavolo se ne allontanavano con aria disgustata, lanciandole occhiate perplesse, prima di mettersi a bisbigliare fra loro, scambiandosi sorrisi di scherno e di compatimento.
- E’ un’umana - aveva sentito affermare poco prima da un tale a poca distanza da lei, con un tono di voce in cui era racchiuso disprezzo e arroganza.
Subito dopo, un turian in abito da sera le circondò la vita portandola sulla pista da ballo, ma lei continuava ad inciampare, non riuscendo a seguire quei passi tanto ingarbugliati. Veniva salvata da Garrus, che la trascinava via a passo di tango, conducendola in giardino e rassicurandola che sarebbe tornato presto, dopo essersi occupato degli ospiti.
Non fece in tempo a riprendere fiato, cercando di nascondersi fra le piante, che arrivava quel bambino incontrato nella stanza da letto. Protestava con rabbia e batteva i piedi, ostinandosi a pensare che fosse sua madre, mentre lei fissava con odio quegli occhietti celesti che si riempivano di lacrime pensando “I turian non piangono...”.
Compariva nuovamente Garrus che con un braccio tirava su il bambino, mentre con l’altro provava a cingerle la vita, ma lei correva via, scappando a perdifiato verso il cancello d’ingresso della villa, ansiosa di tornare a bordo della sua nave.
Mentre lo varcava, i suoi piedi sprofondavano in pozzo circolare, con pareti irte di spunzoni metallici, affilati come lame, che le laceravano l’uniforme.


Era iniziata lì quella caduta senza fine che aveva accolto con un urlo di sorpresa e di spavento, quando i suoi polmoni che chiedevano prepotentemente aria si erano ritrovati ad aspirare solo vuoto: gli ultimi ansiti del suo fiato si erano frantumati nel disperato desiderio di continuare a vivere. A quel punto si era svegliata, madida di sudore, al suono dell’urlo che aveva fatto accorrere l’infermiera.
Non c’era bisogno di uno psicologo per interpretare l’incubo. Un Primarca non poteva permettersi una moglie che non era una turian, non sapeva assolutamente come comportarsi nell’alta società e non aveva la minima cognizione di come si gestisse una casa.
Durante il breve tragitto in taxi con Jack si era resa conto che non le interessava imparare a diventare una moglie esemplare, una di quelle che qualunque maschio sarebbe stato fiero di mostrare ai propri amici e conoscenti: dopo pochi mesi di quella vita d’inferno avrebbe finito per odiare se stessa e forse perfino Garrus.
Non sapeva immaginarsi nell’atto di stendere panni, cucinare, cambiare un pannolino o portare un bambino a scuola. Non poteva, né voleva, essere una brava moglie. La sua unica e vera casa sarebbe stata sempre la Normandy o al limite un’altra nave spaziale.
Adesso non riusciva neppure a capire cosa diavolo le fosse passato per la mente nel ristorante panoramico, appena pochi giorni prima.
Diventare la moglie di qualcuno... Era una follia assoluta. Lei non era nata per diventare la moglie di nessuno, figurarsi la moglie di un Primarca.

Moglie continuò a ripetersi: quel vocabolo evocava immagini inquietanti e compiti ingrati che non poteva, né voleva, addossarsi.
“Sono nata per fare quello che ho sempre fatto” si ripeté, assolutamente certa di quell’affermazione “Questa è la verità. Mi spiace Garrus, non posso e non voglio sposarti” continuò a ripetersi con sempre maggiore sicurezza e consapevolezza.
“Volevo trovare un modo per fartelo capire senza ferirti e ho combinato un disastro” riconobbe con rincrescimento “Qualunque cosa io possa scriverti, adesso, non potrebbe attenuare la mia colpa”.
“Forse è addirittura meglio così. Non potrai mai perdonarmi e mi dimenticherai più facilmente” provò a ipotizzare, nel tentativo insano di trovare almeno un aspetto positivo in quella situazione che non sapeva come gestire. Si rese conto che stava cominciando a delirare e che quelle riflessioni che si ostinava a ritenere logiche erano solo insensate.
“Non posso lasciarti a rimuginare su quel messaggio folle” ammise con disperazione, provando a richiamarlo con il factotum. Maledisse ad alta voce quell’inutile attrezzo e anche Garrus, poi riaprì sconsolatamente il computer.

Può apparire curioso e ridicolo, ma di certo non è divertente: era tutto più facile in guerra, sotto il fuoco nemico. Ora, in periodo di pace, le nostre vite ci portano lontano l’uno dall’altro.
Non volevo farti questo discorso per iscritto, ma il messaggio precedente è partito per errore. Mi spiace.
Non so in quali faccende tu sia tanto impegnato e quale casa dei sogni ti stia affannando a trovare, ma sospendi tutto.
Non credo che mi perdonerai facilmente, ma devo andare. Vado dove non potrai seguirmi, lo so. Mi addolora, ma la mia vita mi porta altrove.
Odio gli addii e qualunque forma di commiato: le frasi sono logorate dall’uso e inadeguate a comunicare quello che provo in questo momento.
So solo che devo andare: non ho scelta, anche se questo dolore mi farà più male di quanto io possa immaginare adesso.


Non c’era bisogno di firmare, non esisteva una frase congrua per chiudere e non sapeva trovare una formula di rito adatta per iniziare.
“E’ un messaggio senza capo né coda” constatò senza divertimento, sentendosi disperata. Non c’era nulla di rassicurante e confortante in quel messaggio. Non ci sarebbe stato nulla del genere neppure nella vita che la attendeva, ma era quella l’unica strada percorribile.
Rilesse attentamente, insoddisfatta, sapendo tuttavia che non sarebbe riuscita a scrivere nulla di più decente.
Inviò il messaggio e si avviò verso il bagno per fare una doccia calda prima di lasciare quel dannato ospedale. Coprì alla meglio la medicazione sul torace, disinteressandosi delle possibili conseguenze: il suo inconscio la spingeva a lavar via un dolore ancora acerbo, sperando di riuscire a liberarsene prima che esplodesse in tutta la sua cruda intensità.
Guardò il piccolo specchio sopra il lavandino, sapendo che non le sarebbe piaciuta l’espressione che si sarebbe trovata di fronte. Nonostante il sollievo per aver preso una decisione inevitabile, provava una pena sorda e penetrante.

Quello era necessariamente un addio. Ne aveva preso piena coscienza mentre scriveva quel secondo messaggio. Garrus sarebbe andato su Palaven, per svolgere i suoi compiti di Primarca, mentre lei sarebbe tornata in servizio nella Marina dell’Alleanza, forse al comando di una qualche nave spaziale, con un qualche nuovo equipaggio.
L’idea che non avrebbe più condiviso con il turian le tante avventure che il futuro le avrebbe riservato la spaventava al di là della sua immaginazione. Garrus era la sola persona che lei potesse considerare come punto di riferimento nella sua vita irrequieta e instabile. Garrus la conosceva e la comprendeva. Garrus l’avrebbe difesa da chiunque, perfino da se stessa, come aveva fatto giorni prima, facendole ritrovare a forza la voglia di vivere.

Rimase sotto il getto a lungo, sapendo che non sarebbe bastata tutta l’acqua della galassia a lavare via il dolore che le si sarebbe riversato addosso a breve, quando fosse stata costretta a prendere piena coscienza di ciò che aveva fatto e del modo. Il modo era stato un incidente, ma la sostanza non poteva essere discussa: lei aveva una sua strada e lui ne aveva un’altra, ben diversa.
Sentì che le lacrime si mischiavano all’acqua che scendeva e provò un sentimento di impotenza. Cercò di concentrarsi solo sulla piacevole sensazione del liquido tiepido che le scorreva sul corpo. Una volta chiuso il rubinetto indossò l’accappatoio e si mise davanti al piccolo specchio del bagno, riavviandosi i capelli con le dita.
- Non pensare a Garrus. Affronterai tutto questo quando sarà inevitabile. Lo sai che puoi continuare ad andare avanti, un passo dopo l’altro. E’ quello che hai sempre fatto - rassicurò l’immagine riflessa.
“L’ultima volta non ce l’avrei fatta senza Garrus” fu la confessione che le esplose nella mente. Si rannicchiò contro il muro, senza neppure accorgersi di non riuscire a fermare il tremito che la scuoteva, fino a quando la voce del dottore turian la chiamò dall’altra parte dell’uscio chiuso.
- Comandante, va tutto bene? E’ pronta per uscire dall’ospedale o preferisce fermarsi qualche altro giorno?
- Mi dia qualche minuto per vestirmi - rispose, con una voce che sembrò suonare ferma e tranquilla, la sua voce di sempre.
Un quarto d’ora dopo varcò la soglia dell’ospedale tenendo fra le mani una piccola borsa in cui aveva radunato i suoi pochi effetti personali.
  
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