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Autore: Glirnardir    09/08/2013    0 recensioni
Fíli e Kíli si fanno un amico inaspettato durante la loro permanenza in casa di Elrond. Nel frattempo, anche Erestor si ritrova in una situazione inaspettata.
Lavoro in corso.
Questa storia non è mia. Io l'ho semplicemente tradotta per farvi conoscere la meravigliosa autrice Soledad. Per chi fosse interessato alla versione originale, la trovate qui:
http://www.fanfiction.net/s/9213899/1/Unexpected
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Fili, Kili
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Parte 5: Scoperte
 
     Così si arrivò alla Vigilia di Mezza Estate, e Thorin e la sua compagnia dovevano rimettersi in cammino proprio la mattina di mezza estate, al sorger del sole. Ma prima che partissero, Elrond tenne consiglio con loro un’ultima volta nel proprio studio. Glorfindel, Erestor e Lindir ebbero il permesso di unirsi a loro, e fra i presenti vi erano anche Elladan ed Elrohir, bramosi di scoprire quale fosse il piano decisivo.
     Dopo che ebbero discusso nei minimi dettagli tutti i sentieri possibili che valicassero le Montagne Nebbiose e traversassero il Bosco Atro - discussione nella quale i figli di Elrond si rivelarono di grande aiuto, poiché da più di quattrocento anni andavano errando per le Terre Selvagge - Elrond ebbe infine l’occasione di dare un’occhiata ravvicinata alle spade rinvenute nella tana dei troll. Le esaminò lungamente, e più le guardava, più i suoi occhi si colmavano di meraviglia.
     “Questa non è fattura di troll,” disse infine. “Queste sono spade antiche, antichissime; spade appartenenti agli Alti Elfi dell’Ovest, alla mia famiglia. Furono forgiate a Gondolin, per le Guerre del Beleriand.”
     All’udire ciò, Glorfindel s’irrigidì involontariamente, poiché nel suo cuore si destavano ricordi penosi.
     “Allora devono provenire dal tesoro di un drago o dal bottino degli Orchi,” disse con tono piatto, “infatti draghi, Orchi e altri orrendi mostri distrussero quella bella città, tante Ere fa. Le spade hanno un nome?”
     Elrond studiò da vicino le aggraziate rune che ricoprivano la lama; la sua fronte liscia si corrugò a causa della concentrazione, poiché la scrittura era antica, difficile a decifrarsi anche per un maestro di tradizioni del suo calibro.
     “Altroché se ce l’hanno.” Gettò un rapido sguardo a Glorfindel, con espressione rannuvolata dall’inquietudine. “A questa le rune danno il nome di Orcrist, che vuol dire Fendiorchi nell’antico linguaggio di Gondolin; era una lama famosa.”
     “Ricordo,” replicò lentamente Glorfindel, mentre l’immagine di un grande signore degli Elfi prendeva forma davanti al suo occhio interiore; un Elfo alto, dai capelli scuri, tutto vestito d’argento, con una punta d’acciaio recante in cima un diamante sopra il suo elmo scintillante, e con uno scudo che balenava quasi fosse coperto di gocce di pioggia, che in effetti erano mille e più borchie di cristallo; e gli parve di udire in lontananza la dolce musica di una fontana. “E ricordo anche colui che la brandiva un tempo.”
     I Nani lo guardarono strano, eppure egli non aggiunse altro, ed essi non osarono chiedere, notando nei suoi occhi una profonda sofferenza. Lindir, tuttavia, si appuntò mentalmente di chiederglielo più tardi, con la speranza che Glorfindel gli raccontasse tutta la storia, come sempre.
     Elrond lanciò al suo vecchio amico e capo condottiero uno sguardo di comprensione, quindi rivolse la propria attenzione all’altra spada - e impallidì leggermente.
     “Questa,” disse, porgendola a Mithrandir, “era Glamdring, la Battinemici, che un tempo era cinta dal Re di Gondolin. Conservala e impugnala con onore!”
     “Se qualcuno ha diritto di tenere la spada di Turgon in propria custodia, quello sei tu, mio Signore,” rispose Mithrandir, l’unico fra i presenti, eccettuati gli Elfi, a sapere che Elrond discendeva da quel medesimo Re.
     Ma il Padrone di Imladris scosse il capo.
     “Amico mio, io ho rinnegato l’uso delle armi dopo l’Ultima Alleanza tra Elfi e Uomini, come ben sai. Né ho mai avuto l’intenzione di rivendicare il mio diritto di erede del Re. Conservatele; potrebbero rivelarsi utili.”
     Thorin, volgendosi Orcrist fra le mani, scoccò all’indirizzo di Glorfindel un’occhiata incerta. Capiva che la spada aveva una grande importanza per il biondo Signore degli Elfi, dal cui portamento traspariva la natura di un guerriero avvezzo e incallito.
     “Chissà da dove se le erano procurate i Troll,” mormorò.
     “Non saprei,” rispose Elrond in tono grave. “Chissà quante volte hanno cambiato proprietario durante le ultime due Ere! È anche possibile, però, che giacessero dimenticate in qualche rifugio sulle montagne dell’antichità, e i vostri Troll vi si siano imbattuti per puro caso.”
     “Ho sentito dire che ci sono ancora tesori d’altri tempi, che sono stati dimenticati e che debbono ancora essere ritrovati nei covi deserti degli Orchi nelle Montagne Nebbiose, dopo la Guerra tra i Nani e gli Orchi,” aggiunse Erestor sottovoce. “Questo almeno è quanto dicono i Raminghi, che pattugliano le Montagne abbastanza spesso da saperlo. Tuttavia sono anche abbastanza saggi da non toccare simili tesori; non si sa mai che razza di maledizione vi sia stata gettata sopra per tenerli al sicuro da altri saccheggiatori. È risaputo che gli Orchi si servonodi una forma di magia malvagia, per cui il mio consiglio sarebbe di maneggiare con cautela qualsiasi cosa provenga da un bottino di Troll.”
     “Tuttavia non saranno necessarie simili precauzioni con queste spade,” disse Glorfindel. “I fabbri della Casa del Martello d’Ira hanno lanciato i loro potenti incantesimi all’interno delle lame stesse; nessuna creatura maligna può toccarle o servirsene.”
     Elrond annuì con decisione.
     “Tale era il potere degli artigiani di Gondolin,” disse. “Nessuno, tranne forse i Fabbri Elfici dell’Eregion, si è mai avvicinato alla loro arte.”
     Thorin lo ascoltò rispettosamente. Grazie a Fíli e Kíli, tutti i Nani sapevano ormai chi fosse Erestor, e benché rispettassero la sua modestia, egli godeva ai loro occhi di tanta stima quanta nessun altro Elfo ne aveva più avuta sin dai giorni di Celebrimbor.
     “Terrò questa spada in grande onore,” disse Thorin dopo qualche attimo di riflessione, quindi rivolse un nuovo sguardo a Glorfindel, il quale annuì il proprio muto consenso. “Possa presto tornare a fendere Orchi!”
     “Un desiderio che probabilmente sarà soddisfatto abbastanza presto, sulle montagne,” commentò Elrond laconico, e i suoi figli annuirono con due identiche espressioni fosche. “Ma adesso mostratemi quella vostra mappa. Lindir, vieni qui a dare un’occhiata!”
     Lindir obbedì prontamente, poiché le vecchie lettere e mappe erano un suo grande interesse. Si mise alle spalle dei suoi amici dalla barba bionda, scrutando la mappa da sopra le loro teste. La pergamena era alquanto malconcia, e mostrava la zona del Rhovanion a est del Bosco Atro, vicino alla Montagna Solitaria, che gli Uomini consideravano parte di quelle che chiamavano Terre Selvagge. Nella parte inferiore della mappa vi erano quattro file di rune di lunghezza equivalente - le cosiddette Angerthas Moria, osservò Lindir - e sopra la Montagna era segnato in rosso perfino il drago.
     Non che il Verme sia particolarmente difficile da trovare anche in loro assenza, pensò con un sorriso il giovane menestrello.
     Ma il suo umore s’incupì notevolmente allorché egli individuò il punto ove un tempo soleva trovarsi la città di Dale. Quando era un giovanissimo Elfino aveva visitato una volta quell’amena cittadina, nascosto sotto il pesante mantello di Aiwendil, essendo spaventato dagli Uomini. Eppure ricordava ancora assai bene lo splendido suono delle campane di bronzo e d’argento che pendevano in lunghe file da un’alta e stretta intelaiatura di acciaio al centro della piazza del mercato, e i due uomini che le manipolavano con lunghe corde, producendo la musica più allegra che avesse udito nel corso della breve vita che aveva conosciuto sino ad allora. Ricordava i sonori motteggi e le risate roboanti nel mercato cittadino, e i canti delle donne che lavavano la biancheria sulla riva del lago, maneggiando un  pesante strumento di legno con incredibile disinvoltura e battendo i vestiti sporchi sulle pietre piatte a un ritmo regolare, che si accordava perfettamente al ritmo dei loro canti e della musica delle campane. Dale era un bel posto per essere una cittadina degli Uomini, e la sua gente non meritava il destino crudele che le era capitato.
     Il giovane menestrello si fece largo tra Fíli e Kíli per dare un’occhiata più da vicino, alla luce incredibilmente luminosa della larga falce di luna d’argento. Ebbe l’impressione di scorgere un vago contorno di fianco alle rune scritte sul lato sinistro della pergamena.
     “Che cos’è questo?” chiese, indicando i segni a stento visibili. Elrond sollevò la mappa, affinché la luce della luna potesse splendere attraverso di essa.
     “Cirth Ithil!” mormorò stupito, e tutti gli altri, tranne Erestor e Gandalf, lo fissarono con sguardo assente.
     “Cirth… che cosa?” chiese accigliato uno dei Nani, con una folta criniera rossastra, simile a quella d’un leone, e una barba rossa intrecciata in modo complesso, che gli altri chiamavano Óin.
     “Ci sono delle lettere lunari, qui, accanto alle rune visibili, che dicono ‘la porta è alta un metro e mezzo e ci si può passare in tre per volta’,” spiegò Elrond.
     Lo Hobbit rizzò le sue orecchie a punta - quasi letteralmente.
     “Cosa sono le lettere lunari?” chiese pieno d’eccitazione.
     Lindir sorrise; quel piccolo essere aveva indubbiamente la stoffa dello studioso.
     Ma evidentemente ce l'aveva anche il Nano Óin, perché rispose prontamente allo Hobbit prima che potesse farlo Sire Elrond.
     “Le lettere lunari sono un tipo particolare di rune cirth, come agli Elfi piace chiamarle, ma non le si può vedere,” spiegò, “non quando le si guarda direttamente. Si può vederle soltanto quando la luna brilla dietro di esse.”
     “Ma per quelle del tipo più ingegnoso occorre anche che la luna si trovi nella stessa fase e nella stessa stagione di quando le lettere furono scritte,” illustrò un altro Nano, un tipo imponente, con barba e capelli nero-bluastri; Lindir ricordava che il suo nome era Ori.
     Evidentemente anche i Naugrim avevano i loro studiosi. E questo chi se lo sarebbe aspettato?
     “Furono i Nani di Moria a inventarle,” aggiunse Erestor, ricordando quel giorno nel laboratorio di suo padre, quando era grande appena da sollevare un martello,  in cui Mastro Narvi gli aveva insegnato come disegnare quelle particolarissime lettere, “e le tracciarono con penne d’argento, come potrebbero certamente dirti Mastro Ori e Mastro Óin. Devono essere state scritte in una Vigilia di Mezza Estate, quand’era luna crescente, molto tempo fa.”
     “Che cosa dicono?” chiesero contemporaneamente Mithrandir e Thorin, palesemente insoddisfatti di non aver individuato le lettere prima di quel momento.
     Lindir scosse la testa, non riuscendo a comprendere il motivo della loro collera. Come diamine avrebbero potuto trovarle? Non ce n’era stata veramente la possibilità prima d’allora, e non ce ne sarebbe stata più un’altra per molto, molto tempo. I Nani erano certo gente molto strana - e gli Istari sapevano essere più strani ancora. Ma la sua opinione non era richiesta, per cui trovò più saggio tenere la bocca chiusa.
     “Sta’ vicino alla pietra grigia quando picchia il tordo,” lesse Elrond, inarcando un elegante sopracciglio, “e l’ultima luce del sole che tramonta nel giorno di Durin splenderà sul buco della serratura.”
     “Durin, Durin…” mormorò Thorin, e nei suoi occhi profondi si riflessero i ricordi di un passato glorioso, da tempo caduto nell’oblio. “Era il più antico dei Sette Padri - il primo a destarsi, l’ultimo a morire. Il diritto sovrano dei Lungobarbi, la più antica razza dei Nani, discende da Durin il Senzamorte in una linea ininterrotta di padri e figli sino a questo giorno. Fu il mio primo antenato, e io ne sono l’erede.”
     Gli Elfi rimasero educatamente in silenzio. Elrond aveva incontrato in svariate occasioni diversi Re di Moria, all'epoca in cui era araldo di Gil-galad, e persino Erestor poteva dire che Durin IV aveva visitato il laboratorio di suo padre. Per non parlare di Thráin, padre dello stesso Thorin, al fianco del quale aveva combattuto nella Battaglia di Azanulbizar. Ma se Thorin voleva crogiolarsi un poco nella gloria dei suoi antenati, chi era lui per impedire al Nano di farlo?
     “Allora, che cos’è il Giorno di Durin?” chiese Lindir, non essendo erudito nella tradizione nanica, ma sempre volenteroso ad apprendere cose nuove.
     E mentre Thorin si dilungava nello spiegare in base a che cosa si calcolasse quel particolare giorno e il motivo per il quale era impossibile stabilire la sua prossima ricorrenza, Erestor ricordò ancora una volta Mastro Narvi - un Nano molto anziano, sì, anzi venerando, con la schiena curva a causa dell’età avanzata e dei lunghi decenni di lavoro sotto terra, ma la cui mente sagace aveva continuato a funzionare impeccabilmente e i cui occhi scuri avevano continuato a bruciare come il fuoco di sotto alle candide sopracciglia.
     Ricordava un viso rotondo, morbido e rugoso come una mela essiccata, e una lunga barba bianca, meticolosamente intrecciata e infilata nell’ampia cintura del vecchio Mastro, e una voce profonda e roca, eppure tanto gentile. Non c’erano molti elfini nell’Eregion, ma Mastro Narvi sembrava voler bene a tutti loro, non avendo figli suoi, e non considerava al di sotto della propria dignità correggere la presa esercitata sul martello dalle loro piccole dita inesperte. Se Erestor chiudeva gli occhi, sentiva ancora quella mano grande, calda, rugosa e piena di calli sulla sua manina di un tempo, e le sue piccole dita che imparavano la giusta posizione. Udiva ancora il dolce, profondo borbottio di quella voce anziana.
     Così, piccolo Elfo - altrimenti ti fai male. Un giorno diventerai un grande Gioielliere, proprio come tuo padre… Tutto ciò che ti occorre è imparare e lavorare…
     Quando ricordava quei momenti di pace, Erestor ringraziava sempre il cielo del fatto che Mastro Narvi non fosse vissuto per vedere la distruzione dell’Eregion. Certe volte desiderava egli stesso di non essere vissuto per vederla.
     Una mano gentile lo toccò sulla spalla, leggera come una piuma, come l’ala di una farfalla, scacciando via i suoi pensieri cupi.
     “Lascia che i ricordi riposino nel passato, caro cuore,” mormorò Lindir. “Non è certo dolendoti che potrai riavere le cose perdute - lascia stare. Pensa a quel che hai ottenuto in tutti questi anni.”
     Erestor sorrise, e girando il capo, posò un bacio sull'esile mano ancora posata sulla sua spalla.
     “Se non avessi ottenuto altro che il tuo amore, ne sarebbe comunque valsa la pena,” replicò alzandosi. “Scendiamo al Bruinen, perché i canti e le danze stanno per incominciare, e io desidero trascorrere questa notte di gioia in tua compagnia.”
     Lindir era più che volenteroso a farlo, e così si incamminarono immediatamente. Tuttavia quella notte non raggiunsero mai la riva del fiume. Infatti, mentre scendevano, oltrepassarono l’ala degli ospiti della Grande Casa, dove i Nani avevano le loro stanze, e dalla quale proveniva un canto, uno il cui simile Lindir aveva ascoltato soltanto una volta, e che Erestor non aveva più udito dopo la Battaglia di Nanduhirion.
     I Nani cantavano un canto di profonda nostalgia, questa volta nella Lingua Corrente. I loro toni bassi e rochi erano assai diversi dalle argentee voci degli Elfi, ma - così come quando aveva ascoltato Fíli e Kíli - Lindir non poté impedirsi di essere commosso dal loro canto.
 
Lontan laggiù Nebbiosi Monti scorgiamo,
Su questa vetta ancor ricordiamo
L’antichità che rivivrà,
Il nostro regno, remoto baglior…(1)
 
     Così cantava la prima voce, profonda e struggente, mentre gli altri Nani mormoravano il coro di sottofondo. Tanto Lindir che Erestor avvertirono lacrime inaspettate formarsi nei loro occhi, ed emisero sospiri tremanti. In quel momento si mosse qualcosa nelle vicinanze, ed essi abbassarono lo sguardo sul volto gentile di Bilbo Baggins.
     “Commovente, eh?” mormorò lo Hobbit. “Fu l’udire questa canzone che mi convinse a lasciarmi alle spalle la sicurezza e le comodità di casa mia per fuggirmene con loro in salita e in discesa, dimenticando addirittura i miei fazzoletti da taschino. E questa, lasciate che ve lo dica, è una cosa assai poco hobbitesca.”
     Erestor sorrise. “Ti prendo sulla parola, Mastro Bilbo. Che i Valar ti proteggano, affinché tu non abbia a pentirti della tua scelta.”
     “Lo spero proprio,” replicò lo Hobbit. “Un’avventura della quale doversi pentire in seguito non è proprio una grande avventura.”

* * *

N.d.A.
(1) Questa canzone, cantata da Fíli e Kíli per il loro amico elfico, è il primo verso di quella che si sente nei titoli di coda di "Un viaggio inaspettato".
  
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