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Autore: nightswimming    09/08/2013    8 recensioni
La vergogna è l'ombra dell'amore.
(historical!AU) (omegaverse: alpha!John, omega!Sherlock, alpha!Mycroft)
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Il suo ingegno, come aveva ben previsto Mycroft, non salvò Sherlock dal disastro.
Sua madre svenne, pianse, gridò al tradimento e al disonore. Lo cacciò di casa giurandogli che mai più l’avrebbe guardato negli occhi tanta era la sofferenza che il suo crimine le aveva inflitto.
Sherlock non tentò neanche di convincerla del fatto che era innocente. Tutti sembravano decisi a credere nella cruda evidenza dei fatti (come in altre circostanze, e lo realizzò con rabbia, avrebbe sicuramente fatto lui stesso) e non a quello che lui aveva da dire. Si rassegnò a soffocare il disperato senso di impotenza da cui si sentiva invaso e a tornare insensibile, freddo e ignaro della gioia autentica come un tempo, perché solo pensando di non averla mai vissuta poteva sopportare di averla persa per sempre.
La testa china, ascoltò la sua condanna in silenzio, i pugni chiusi lungo i fianchi unico segno del suo malessere.
Mycroft intercesse per lui e convinse la loro madre a segregarlo nella loro casa di campagna, sperduta nel nulla; solo campi e campi di sterpaglie gelate a perdita d’occhio. Nessuna anima viva si sarebbe mai spinta a fargli visita eccetto i loro servitori, per rifornire la dispensa. Avrebbero inventato una sua improvvisa vocazione per l’isolamento più assoluto e così le apparenze si sarebbero salvate. Gli unici a essere a conoscenza dell’increscioso fatto erano Sherlock stesso, Mycroft, la loro madre e il medico di famiglia, e così sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni.
 
*
 
In carrozza, diretto verso il luogo del suo esilio forzato, Sherlock insinuò una mano sotto i fitti ricci che gli coprivano la nuca.
Sotto i suoi polpastrelli, innegabile marchio di infamia, il segno di un morso che non ricordava di aver mai subito; e che ora lo destinava a un futuro di vergogna e solitudine.
Ciò che più lo faceva soffrire era immaginare la delusione del capitano Watson. Il pensiero di aver perso il suo favore, di aver spento per sempre la luce ammirata che si accendeva nei suoi occhi ogni volta che il suo sguardo si posava su di lui, lo tormentava quasi più della sua stessa disgrazia.
Ripensò a quella frase che lui gli aveva detto, a quel commovente: “Mi basta sapere che pensate bene di me,” e solo allora capì il vero significato di quelle parole, il bisogno, la supplica che vi era nascosta dietro.
 
*
 
La natura testarda di Sherlock fece in modo che quel limbo di sgomento lo intrappolasse per poco meno di due giorni.
Sistematosi meglio che poté nella sua nuova prigione, si rimboccò le maniche e, descrivendo a grandi passi cerchi su cerchi nel giardino della tenuta, prese ad analizzare il problema da ogni lato possibile.
Dopo lunghe ore di riflessione, seppur a malincuore, giunse a un’unica possibile spiegazione di tutti i fatti.
Vi erano innegabili prove fisiologiche di un’unione consumatasi fra lui e un alfa. Era assolutamente sicuro di non ricordare alcunché dell’accaduto, ma questa sua certezza non era del tutto incompatibile con la triste verità. Aveva letto resoconti di eventi molto traumatici in grado di provocare amnesie temporanee o meno.
Proseguendo con questa linea di pensiero, l’unico momento di vulnerabilità in cui qualcuno avrebbe potuto facilmente approfittare di lui coincideva con l’assalto al castello: al tempo era in calore e ferito alla testa. Le memorie di quei terribili momenti purtroppo rimanevano così vaghe da non permettergli di indagare più a fondo.
Era davvero possibile che qualcuno fosse stato in grado di usargli una tale violenza senza che lui ricordasse nulla? Sì, era possibile. Lo stato di confusione tipico del calore e la percossa al capo lo avevano reso una vittima perfetta. Doveva poi aver rimosso tutto, incapace di fare i conti con la vergogna che si era trovato a provare una volta tornato in sé. John l’aveva trovato svenuto e l’aveva portato in salvo quando probabilmente il suo aggressore era già fuggito.
Altrimenti, si disse, avrebbe sicuramente detto qualcosa al riguardo.
Sherlock si fermò davanti al cancello della tenuta al far della sera. I piedi gli dolevano e una grande stanchezza fisica e mentale si era impossessata di lui.
Si concesse di pensare un poco al capitano per trarre sollievo dalle belle memorie che gli associava. Ricordò il tocco caldo delle sue mani e la luce gentile dei suoi occhi, tenendo lo sguardo fisso sulle nuvole fattesi dorate e imponendosi di non farsi vincere da qualcosa di così stucchevole come la malinconia.
Poi voltò le spalle al tramonto e tornò a camminare.
 
*
 
Quella stessa notte, solo nel proprio letto, prese la sua decisione.
Non vi era possibilità di scendere più in basso di così. In qualche modo, tuttavia, quelle deprimenti circostanze si stavano rivelando stranamente liberatorie: niente gli impediva di andare fino in fondo a quel mistero. Mai si era sentito così completamente padrone del proprio destino - per quanto sventurato.
Sì, non sarebbe perito senza perlomeno capire la ragione della sua sconfitta. Avrebbe fatto la sua mossa la mattina seguente; e forse, con la fortuna dalla sua parte, avrebbe infine scoperto la verità.
 
*
 
Ignaro dei disagi di Sherlock, il capitano, da parte sua, si era fatto a poco a poco consumare dall’ansia.
Tre giorni erano passati senza nessuna sua notizia. Non aveva nemmeno ricevuto risposta al biglietto con cui gli comunicava la benedizione di suo fratello al loro matrimonio.
Nel suo alloggio in una locanda poco lontana dal maniero degli Holmes, John passò il suo tempo a passeggiare su e giù per la stanza invaso da un crescente terrore, incapace di calmarsi.
La sua mente non poté fare a meno di pensare al peggio. Era di certo successo quello che aveva temuto sin dall’inizio.
Se solo la loro unione si fosse potuta celebrare subito
 
*
 
La mattina del quarto giorno i suoi nervi cedettero e lui si recò al castello. Come si era immaginato nei suoi peggiori incubi, gli impedirono di vedere Sherlock.
In sua vece, un’espressione addolorata in volto, scese a parlargli suo fratello.
“Capitano Watson, mi rincresce essere portatore di cattive notizie,” cominciò con sincero rammarico l’uomo, “ma purtroppo mio fratello si è gravemente ammalato. Non posso permettervi di vederlo.”
A quella notizia John Watson spalancò gli occhi e si accasciò su una sedia, scosso da tremiti irrefrenabili.
Mycroft sospirò e gli pose una mano sulla spalla.
“Credetemi, condivido il vostro dolore” mormorò tristemente. “E’ successo all’improvviso. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che-”
“Vi prego, smettete di mentirmi” disse angosciato il capitano rialzando la testa, le lacrime agli occhi. “So cosa è accaduto a vostro fratello.”
Mycroft ritirò la mano dalla sua spalla.
“Voi sapevate di questa fatto vergognoso?” disse allibito.
John Watson annuì senza il coraggio di guardarlo negli occhi. Mycroft rimase brevemente senza parole, agghiacciato, poi indagò:
“Siete a conoscenza dell’identità dell’aggressore, dunque?”
Un altro debole segno affermativo.
Mycroft sentì una sorda collera montare dentro di sé.
“Ma perché non avete parlato sino ad ora?”
Il capitano si fece mortalmente pallido e tornò a seppellire il viso nelle mani.
“Mio Dio, che cosa ho fatto” balbettò pieno di vergogna. “Che cosa ho fatto.”
   
 
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