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Autore: EIP    17/02/2008    1 recensioni
Una donna a comando di una astronave costretta ad un atterraggio forzato, l'esodo dei suoi passeggeri sul pianeta viola Mar Sara e altri inquietanti sviluppi...
Sessione EIP di Kaos e Dragon85, iniziata il 15/02/2008.
Genere: Avventura, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mikhaila Vartusan

MIKHAILA VARTUSAN, L'ARPIA DELLO SPAZIO

(Sessione EIP - Extreme Improvisation Project - di Kaos e Dragon85, iniziata il 15/02/2008)

Capitolo Uno


Porte di Tahnnauser. Un incrociatore classe Q28 sfrecciò rapido, sebbene l'ala destra stesse cadendo a pezzi. Se qualcuno avesse potuto avvicinarcisi volando e origliare la cabina di pilotaggio avrebbe sentito una roca voce femminile urlare fortissimo di manovre sbagliate, aiutanti incompetenti e sfiga cosmica.
"Chi cazzo vi ha detto che questa era la pausa pranzo??" Urlò la giovane donna a comando dell'aereo "Pensavate forse che i bip del radar fossero il segnale per iniziare a nutrirvi?". Le bestemmie e parolacce non si sprecavano affatto, tanto che il resto dell'equipaggio si chiese se quella in realtà non fosse nient'altro che uno scaricatore di porto in incognito.
Ad ogni modo ormai quel che era fatto era fatto, e l'aereo stava entrando in avvitamento, pronto a sfracellarsi al suolo.
Il comandante Vartusan si chiese perché cazzo l'avevano messa a pilotare un aereo spaziale turistico, pieno di vite a carico e con uno stipendio da fame. Poi, come se la sua memoria razionale si fosse presa una piccola vacanza, si ricordò del macello combinato a bordo della Magellano e si rassegnò a passare il resto della propria carriera a fare la traghettatrice di obesi ricconi senza la minima esperienza dello spazio. Carriera che peraltro, in quel momento, poteva finire insieme alla sua stessa vita. Se solo quel maledetto incompetente senza senso di Tomasson non si fosse preso la briga di fare una deviazione su un asteroide.
Quell'asteroide infatti si rivelò ben presto un pericolo difficilmente sormontabile, in quanto le lunghe e affilate rocce sporgenti presenti sulla sua superficie avevano tranciato di netto un'ala, disperdendo pezzi di tecnologia nel vuoto cosmico. Il comandante sperò che quelle lame non avessero anche danneggiato il sistema di pressurizzazione, perché altrimenti si sarebbero trovati in un guaio ben più grosso.
Ben più grosso di QUESTO?
Decisamente no. Bene o male sapeva perfettamente che erano tutti condannati ad una morte atroce: o bruciati vivi a contatto con l'atmosfera del gigantesco pianeta sottostante oppure con le cervella disperse nello spazio.
Poi il comandante Vartusan si prese delle figurate palle in mano e si disse che mai avrebbe permesso a una sua nave di non atterrare più o meno intera. Aveva portato in salvo un incrociatore classe C96 in fiamme, qualcosa grosso come quindici Petronas Tower, senza perdere neanche un grammo del carico quando ancora faceva la pilota commerciale. Aveva abbattuto tre dei suddetti colossi con una nave grossa la metà di quella che stava pilotando in quel preciso momento verso un tremolante atterraggio di emergenza. Aveva sempre fatto del suo meglio, e il suo meglio era il meglio del meglio del meglio. Quella volta non sarebbe stata diversa. Prese Tomasson per la collottola, gli ringhiò dietro una serie di ordini chiarissimi anche per lo spazzino dell'Accademia e lo scaraventò al suo posto, sperando che non facesse altre puttanate in corso d'opera.
Tomasson cominciò a sudare freddo. Da una parte quel botolo rognoso del suo Comandante, più bestia che donna, dall'altra la altissima probabilità di andare verso morte certa. Affrontare la Vartusan o la Nera Signora?
L'uomo formulò in meno di tre secondi netti la risposta alla sua domanda. Senza dubbio la Morte.
Se non avesse saputo di avere nelle sue mani anche la vita degli altri membri dell'equipaggio avrebbe senz'altro preferito affrontare questo destino. Il suicidio era sicuramente la via migliore per chi non voleva affrontare la Vartusan, una creatura con una grandissima necessità di trovarsi un uomo da scopare al più presto. Forse era proprio l'assenza di una qualsiasi vita sessuale da parte sua a renderla una belva umana del tutto priva di tatto e savoir faire.
Mikhaila Vartusan notò con la coda dell'occhio dell'astio negli occhi di Joe Tomasson. Se non fosse stata impegnata a salvare la vita di cinquemila persone gli sarebbe saltata sulla faccia e l'avrebbe gonfiato di botte in un tal modo che neanche sua madre avrebbe potuto fare il riconoscimento all'obitorio.
Lo conosceva sin troppo bene per i suoi gusti, quel tipo. Era un ragazzino borioso che si credeva già arrivato e solo per essere Primo Ufficiale su una nave turistica pensava che il mondo dovesse inchinarsi ai suoi piedi e rotolare di fronte a lui in segno di prostrazione.
Stronzetto.
Che la Vartusan fosse una stronza di prima categoria era lei stessa a dirlo, e mai ne aveva fatto mistero con conoscenti ed eventuali sottoposti. Ma era comunque il suo comandante. Inoltre: stavano precipitando e quello si metteva a pensare ai cazzi suoi, al fatto che probabilmente ciulava poco e amenità simili? Quanto erano caduti in basso.
E poi, cristiddio, dovevano salvare quella fottuta balena dello spazio.
Si rimise al suo posto sparando l'ennesima bestemmia e cercò di riprendere il controllo della cloche.
Il senso del dovere instillato in Mikhaila Vartusan rasentava l'ossessione pura: non ammetteva nemmeno a se stessa il minimo errore, tutto quello che c'era da fare doveva essere fatto, anche se questo poteva comportare la perdità totale di energia. Energia che poteva esser benissimo adoperata per altri scopi, ben più gratificanti di un'eventuale e futura promozione.
Esattamente, da quanto tempo la sua vita sessuale era ad un punto morto? Ne aveva perso addirittura memoria. L'ultima volta era stato quando era all'accademia spaziale: da allora era passato tantissimo tempo. L'aveva tralasciata per dedicarsi completamente al lavoro, lavoro e solo lavoro.
Improvvisamente, per un breve momento, si sentì una stakanovista della minchia.
E si disse " 'Stigrandissimi cazzi. Le crisi di coscienza le avrò dopo, adesso dobbiamo far atterrare 'sto affare. Altrimenti non ci sarà un cazzo di dopo".
Sbraitò comandi chirurgici a Tomasson, a Nakamura, a Kastle, a Finkel. Anche il cuoco, l'elettricista e le hostess ebbero la loro parte da fare.
Bisognava atterrare. Atterrare. Di sbieco, obliquamente, su un ala sola. Ma bisognava atterrare.
La superficie del pianeta violetto sotto di loro si faceva sempre più vicina. I secondi utili per rendere l'impatto meno traumatico possibile scorrevano veloci e si era fatto troppo poco, fino a quel momento.
Fu lì che Mikhaila Vartusan fu preso da quello che soleva chiamare il Raptus: cancellò ogni pensiero cosciente dal suo cervello, diede ai suoi attendenti l'illusione di essersi fatta spuntare almeno altre tre paia di braccia e cominciò a mulinare tasti, leve e comandi con una tale velocità che l'intero pannello di comando sarebbe potuto benissimo andare a fuoco se non fosse stato costruito con materiale ignifugo.
I suoi sforzi furono a malapena sufficienti per schiantarsi con un minimo di grazia.
Il grosso mostro spaziale si rovesciò su un fianco e si trascinò, con la carrozzeria semifusa, sul fangoso terreno viola per parecchi chilometri dal punto d'impatto. L'ala finì di spezzarsi, seguita dall'altra che non resse la pressione eccessiva e il mancato equilibrio. All'interno della sala di comando era il caos più totale: Mikhaila venne sballottata lontano dalla sua postazione, finendo su Tomasson, che nel frattempo si reggeva con tutte le sue forze ai braccioli del suo sedile, ingarbugliato tra il corpo della Vartusan e le cinture di sicurezza che in quel momento si stringevano al suo collo.
Mikhaila non poteva proprio dire che Joe Tomasson le stesse simpatico. Anzi, lo odiava cordialmente. Ma un conto è odiare cordialmente qualcuno, un conto è seppur involontariamente cercare di ammazzarlo.
Appena l'incrociatore si stabilizzò un minimo lei cerco di sbrogliare la matassa delle cinture di sicurezza dal corpo del suo Primo Ufficiale. Il quale, nonostante la precarietà del momento e la scomodità della posizione, non potè fare a meno di notare che il suo comandante era un gran bel pezzo di figliola. Poi Joe Tomasson, Primo Ufficiale sull'incrociatore turistico Meridianus, non potè fare a meno di darsi del maledetto deficiente per aver solo potuto pensare a una stupidata quale la Vartusan come donna.
Perché era ben ovvio che Vartusan non poteva essere una donna. La definizione "iena incazzata divorata da zecche e pulci" si addiceva decisamente meglio al suo carattere. Ad ogni modo sentì la stretta delle cinghie allentarsi, mentre ormai la staticità regnava sovrana. Il grande mostro metallico si era finalmente fermato, ma, dal totale buio che li circondava, capì ben presto che il motore a fusione atomica era partito del tutto. E l'assenza di luci d'emergenza testimoniava l'assenza di sufficiente energia nelle batterie, andata sicuramente sprecata tutta nella fase di atterraggio.
L'equipaggio arrancò al buio, cercando di farsi strada vetri rotti e cavi elettrici tranciati, ormai privi di alcuna utilità.
Mikhaila, tuttavia, si mostrò ancora una volta il tremendo squalo dalla giustificata fama predatoria: una luce, sebbene un po' fioca, le illuminò improvvisamente la faccia, dando a chi avesse la sfortuna di guardarla l'impressione di aver di fronte a sè un qualche mostro di vecchissimi film horror del secolo precedente.
"Suvvia branco di vacche, è solo una torcia al plasma. Io ce l'ho come da regolamento, le vostre dove sono finite?" berciò sgraziosamente il Comandante Vartusan.
"Procuratevi una fonte di luce, controllate di essere integri e tirate insieme la baracca".
Quando però gettò la torcia tecnologica verso Kastle, pronta a ordinargli di andare a controllare i passeggeri, quello che vide la inorridì. E Mikhaila Vartusan non è quel tipo di persona che inorridisce facilmente.
Di lui non era rimasto nient'altro che un ammasso di ossa e nervi scoperti - ancora pulsanti - quasi completamente carbonizzati. La bocca era spalancata in un grido muto, gli occhi colanti dalle orbite come gelatina semiliquida e i denti perlacei scoperti in un ghigno mortale. Ormai quel che restava di Kastle era tutto tranne che umano.
Il resto dell'equipaggio si allontanò rapidamente dal corpo martoriato, visibilmente disgustato da tale, macabro spettacolo. La Vertusan era impallidita, la sua faccia così bianca da far invidia a un cadavere. Cominciò ad arrancare tra i suoi neuroni cercando di fornire una spiegazione logica e valida a quanto era accaduto, ma il vuoto totale ottenebrava la sua mente.
Poi, con un'ondata di cinismo che per un solo istante le diede una tremenda voglia di vomitare, si scosse e tolse lo sguardo dal macabrissimo spettacolo mormorando solo una misera, piccola preghiera per il povero Kastle.
Urlò forte al solito Tomasson di alzare il culo, di togliersi la cintura di sicurezza da attorno il collo che era ridicolo e di andare a fare la conta dei passeggeri e di vedere se c'erano altri feriti o, peggio...morti.
Ecco, fu il dire quella parola che cacciò Mikhaila in un brutto incubo. E davanti agli occhi le riapparve la Magellano. L'unica, immensa macchia della sua altrimenti perfetta carriera.
"No, non devo pensarci adesso, non ora" pensò la Vartusan, mentre quel ricordo doloroso ancora le vorticava tra le meningi. Non doveva distrarsi, non doveva ripetere lo stesso errore di alcuni anni prima. Era stata una sua mancanza, qualcosa che all'epoca non poté definire con cognizione di causa. Ma aveva imparato da quell'errore, e la situazione che ora le si profilava davanti non era nient'altro che l'esame definitivo.
Sarebbe riuscita a mettere in salvo tutti quanti, lo sapeva. Prima però doveva scoprire dove erano finiti, e se era possibile inviare un segnale da lì a una stazione spaziale vicina. Durante la corsa pazza e disperata nello spazio, tra strumenti impazziti, non aveva visto le coordinate della sua posizione, in quella porzione di spazio. Sperava di non essere uscita dai limiti dell'universo conosciuto, perché altrimenti sapeva benissimo che erano nei guai. In guai grossi.
E dopo la morte di Kastle potevano diventare anche... colossali.
Ecco, sì. Innanzitutto dovevano capire dove fossero.
Mentre il suo equipaggio starnazzava senza ritegno le classiche frasi fataliste alla "moriremo tutti, moriremo tutti" lei focalizzò, come era solita fare nelle situazioni delicate, e fece una cosa stupefacente nella sua semplicità: cercò di capire dove fossero atterrati.
Guardò fuori dal più vicino oblò e tirò un fortissimo sospiro di sollievo, talmente consistente che alcuni dei presenti lo scambiarono per qualcos'altro che esplodeva in quella stanza: erano su Mar Sara.
Erano quasi salvi.
Mar Sara era una colonia che l'umanità aveva fondato parecchi decenni prima. C'erano sicuramente cibo, acqua e mezzi di trasporto.
"Meno male" pensò fra sé e sé. Poi, visto che il problema maggiore si era risolto, si permise di aggiungere mesta "non finirà come quella volta".
Ordinò all'equipaggio di prendere tutto il necessario per prepararsi ad uscire con i passeggeri, e accertarsi che tutti stessero bene. Dovevano accertarsi anche di quante provviste erano rimaste loro ancora integre. Con una breve perlustrazione da parte di Jakob venne fuori che solo uno dei tre cargo addetti al trasporto delle provviste era rimasto integro. Avevano dunque provviste sufficienti per i prossimi due giorni.
Il luogo dove erano atterrati era senz'altro in una zona disabitata e deserta di Mar Sara. Il sole azzurro e pulsante risplendeva nel cielo facendo cangiare il suo colore da un rosato pallido a un giallo canarino. Il suolo era morbido e fangoso, tanto che buona parte del relitto vi era immerso dentro, dal caratteristico colore violaceo, ricco di acqua e per questo asfittico e sterile.
Sì, si trovavano in una zona decisamente disabitata.
"Meglio in una zona disabitata di Mar Sara che non su qualche cazzo di pianeta del Quadrante Esterno, dopotutto. Consoliamoci, potevamo essere già morti da un pezzo" cercò, nel suo peculiare modo, di sollevare gli animi di equipaggio e passeggeri, un poco sconsolati quando anche loro furono messi a parte delle novità.
Alcune voci si alzarono mandandola più o meno velatamente a quel paese. Altre invece trovarono ragionevoli le sue parole.
Ma prima di partire in esplorazione Mikhaila Vartusan sentiva bruciarle in gola il desiderio di fare una cosa. Una cosa in realtà non urgente. Non importante ai fini del benessere delle persone a suo carico. Non fondamentale.
Ma doveva farla lo stesso.
Doveva fare il culo a Joe Tomasson.
Non perché avesse torto sul serio, ma solo perché le andava. Solo per ribadire prepotentemente il suo assoluto potere. E Tomasson era il bersaglio perfetto.
Lo raggiunse in poche falcate, sicure, precise, dirette.
Ecco, pensava, fai così. Fai la stronza al cubo. Ci vuole disciplina e rispetto, per queste quattro teste di minchia.
Portò la sua faccia a pochi centimetri da quella di Tomasson, che nel frattempo aveva indietreggiato di mezzo passo. L'espressione truce da iena con un peperoncino ficcato in culo era tutt'altro che rassicurante. Sapeva perfettamente cosa sarebbe accaduto di lì a poco.
"Joe Tomasson! Sei il più grande idiota dell'universo!" urlò la Vartusan, sputando indebitamente sulla faccia del povero ufficiale. "E' colpa tua e solo tua se ora ci troviamo in questa situazione! Se solo fossi stato attento alle rotte segnate sulla mappa interstellare avremmo evitato di passare davanti a quell'asteroide! Oppure non ti sei reso conto che il grado di pericolosità di un corpo celeste di quel tipo è ben oltre i limiti consentiti per il passaggio a breve distanza? Sei un coglione colossale! Ti farò degradare, mi hai capito?"
In quel preciso momento, nell'anno di grazia 2185, successe qualcosa di inconcepibile: qualcuno rispose a tono a Mikhaila Vartusan.
Joe Tomasson non si fece minuscolo fino a scomparire. Anzi, si passò una mano sulla bocca con la faccia mezza girata all'indietro, quasi a simulare un attacco di vergogna che pochi istanti dopo mostrò di non provare affatto.
Gli ci volle circa un millesimo di secondo per voltarsi come un falco verso la faccia del suo stimatissimo Comandante e dirgli, con tono decisamente sostenuto: "Mi stia a sentire, Comandante. Io so fare il mio lavoro. Non ho la sua esperienza decennale, è vero, ma so leggere una cazzo di mappa interstellare. L'asteroide è sbucato fuori all'improvviso e non ho fatto in tempo ad evitarlo. Quindi l'unica a cui può dar colpa di questo macello è la mano del caso".
L'evento clamoroso poteva anche finire lì. Ma Tomasson, galvanizzato dallo sguardo un pochino preso in contropiede di Mikhaila, premette sull'accelleratore. Combinando, in realtà, un casino ben peggiore del tremendo atterraggio su Mar Sara.
"E poi, mi scusi, con che diritto mi viene a parlare di stronzate durante le manovre se lei è stata la prima a sfracellare il cacciatorpediniere Magellano sulla superficie di Lagushas uccidendo tutte le persone che si trovavano a bordo? Non è stato un caso anche lì? Eppure a me non risulta che lei sia stata degradata o che".
Mikhaila Vartusan ebbe, per la prima volta da circa venticinque anni a quella parte, l'impulso di scoppiare a piangere.
Ma lei non doveva farsi prendere dalle lacrime. Doveva essere forte, ricacciare le immagini del relitto del Magellano, i cadaveri tra le lamiere, il sangue che scorreva mescolandosi alla superficie ferrosa di Lagushas, e il calore, l'incendio, il fuoco, il terrore e urlo prolungato che risuonava nei cieli di quel pianeta freddo, l'urlo di una donna che vide la propria vita infrangersi come una cometa su un gigante gassoso.
Quindi fece la cosa più ovvia. Ricacciò indietro le lacrime e proseguì.
"Tomasson, da questo momento in poi sei agli arresti. Ti è vietato prendere possesso di tutte le manovre per il salvataggio sul pianeta, e dovrai rispondere di insubordinazione quando torneremo sul nostro pianeta madre."
Joe Tomasson, sentendo quelle parole che riteneva più dure di un macigno scagliatogli sulla testa, fece la più grossa cazzata della sua vita: completamente iniettato di odio verso l'essere che gli stava davanti, e che aveva appena pronunciato la condanna a morte della sua carriera di pilota spaziale, fu preso dalla rabbia più distruttiva di cui era capace e le diede una fortissima testata in faccia.
Quando il Comandante Vartusan rotolò a terra col naso a pezzi lui approffitò del momento e le rifilò un poderoso calcio sulla schiena: "Maledetta stronza! Come ti permetti di farmi questo? Sono un professionista onesto e scrupoloso, quello che è successo qui è solo colpa della sfortuna!".
Ci volle poco, fortunatamente, perché i suoi compagni di equipaggio gli saltassero addosso e lo bloccassero prima di fargli commettere ulteriori scelleratezze.
Mikhaila Vertusan, ancora intontita, si tastò il naso per assicurarsi che non fosse rotto, lordandosi le mani del suo stesso sangue. Fortunatamente la botta non fu sufficientemente forte da comprometterle l'osso, ma si fece comunque un male cane. Sollevò lo sguardo inviperito verso Tomasson, scoprendo che sul suo volto aveva la stessa espressione furiosa e truce di poco prima. Sulla fronte dell'ufficiale vi era una chiazza di sangue dalla quale sorgevano rivoletti che andavano a bagnargli il resto della faccia. Solo allora la Vartusan si rese conto che Tomasson aveva veramente *osato* colpirla. Il desiderio di prendere un qualsiasi oggetto e spaccarglielo sulla faccia montò furiosamente in lei, ma decise di controllarsi quanto più possibile. Doveva mantenere la propria lucidità mentale e non farsi prendere da colpi di testa del genere. La vita del suo equipaggio e dei passeggeri dipendeva quasi interamente da lei.
"Finkel! Jakob! Prendete questo scarto umano e ammanettatelo. Appena giungeremo alla colonia mi assicurerò che lo sbattano nella cella più sporca e maleodorante che hanno" sibilò, la sua voce più simile alla lama di una spada che a delle onde sonore.
Dopodichè, assicuratasi che quel maledetto coglione non potesse più arrecare danno, marciò a passo di guerra verso la zona passeggeri, disse sbrigativamente a tutti i presenti di prendere tutto ciò di fondamentale potevano raccattare e di alzare le chiappe che si usciva di lì. Le facce dei passeggeri, seppur parzialmente oscurate dall'assenza di corrente elettrica, erano assai spaventate alla vista di quella faccia, che una volta era forse stata femminile, bagnata di rosso e contorta in un'ottima rappresentazione delle mitologiche Furie greche.
"Bene, la situazione è questa" pronunciò secca la donna, dopo aver spiegato la situazione. Erano ormai fuori dal relitto da qualche ora, e Mikhaila Vartusan reputava opportuno informare tutti i passeggeri che avrebbero dovuto attraversare il Ragghamuth (altresì detto il Deserto Viola) di Mar Sara per giungere al primo posto abitato. Secondo le mappe doveva trovarsi a centocinquanta miglia da lì, se le coordinate erano esatte.
Finkel e Jacob trascinavano con loro un Tomasson visibilmente incazzato e fremente di rabbia, mentre altri due individui dell'equipaggio, Hansel e Nakamura, portavano fuori dal relitto il corpo carbonizzato di Kastle.
La strana, eterogenea e lunga fiumana di persone che zompettavano insicure per il Deserto Viola sarebbe stata un bellissimo soggetto per dei possibili turisti alieni muniti di macchina fotografica.
Il serpentone di gente, abbastanza da perdersi a vista d'occhio, era capitanato da un satanasso in gonnella i cui lunghi capelli biondi sbucavano dal bordo inferiore del respiratore sferico standard, mezzo necessario per le escursioni fuoriporta su pianeti ostili. Dietro di lei, che pur non sbraitando al suo solito ne aveva la caratteristica mimica, marciavano da bravi soldatini ordinati, o forse più intimoriti che altro, tutti i restanti membri dell'equipaggio. Ancora più indietro arrancavano con molta poca agilità i passeggeri, più di cinquemila persone del tutto spaesate, spaventate e insicure sul da farsi.
L'unica a sapere come muoversi, dove muoversi e perché muoversi era, come sempre è stato nella sua vita, il Comandante Mikhaila Vartusan.
Quella volta su Mar Sara fu l'ennesima conferma del suo soprannome: l'Arpia dello Spazio.

  
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