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Autore: Yumeji    10/08/2013    0 recensioni
"L'organizzazione per lo studio e la soppressione delle entità spiritiche apre le sue porte a un qualunque giovane abbastanza coraggioso e spavaldo da essere disposto a rischiare la vita (e la propria anima) per un lavoro part-time nella nostra società."
La famiglia Kuroko è maledetta, da secoli è indelebile sulla loro pelle il segno del demonio e non può essere cancellato. Neppure Tetsuya fa eccezione, ciò che nasconde appena sottopelle è destinato a logorarlo, ad annientarlo, di lui non rimarrà nulla, neppure un frammento d'anima.
Non è il tipo d'arrendersi, ma sa di non poter sottrarsi all'inevitabile.
"Inevitabile" non è però qualcosa che due teste calde come Aomine e Kagami riescano a comprendere cosi facilmente.
Non sono disposti ad accettare la fine di Tetsu (entrambi spinti dal medesimo sentimento), e saranno pronti a tutto pur di impedirlo! Persino a cadere nel tranello del diavolo...
Tra spiriti, battaglie, esseri mitologici e pazzoidi vari scopriremo se la forza dell'animo umano può davvero battere un fato scritto da secoli.
[Avvertenza: Questa FF è stata ispirata dal manga Ga-rei (non è però un crossover)]
p.s: per ovvi motivi non ho tradotto il titolo in italiano. Godetevela!
Genere: Avventura, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Daiki Aomine, Taiga Kagami, Tetsuya Kuroko, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Triangolo
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- Cap 2 -

A quell’ora della sera il viale pedonale era ormai deserto, più nessuno si faceva vedere in circolazione, il sole era tramontato da un pezzo e le dicerie sugli spettri che occupavano quelle strade al giungere delle tenebre facevano ancora molta presa sulla popolazione di quel quartiere, nonostante l’Era tecnologica in cui vivevano.
Troppi uomini avevano macchiato di rosso quello stesso asfalto e il suo olezzo, a distanza di anni, era ancora ben percepibile per chi vi camminava sopra.
In tempo di guerra quel luogo era stato utilizzato come rifugio per coloro che avevano perso tutto, per chi era rimasto senza casa e senza famiglia. Lì, quel poco cibo reperibile veniva diviso equamente trai superstiti, i quali si ammassavano l’uno sull’altro, arrivando spesso a dormire semplicemente a terra, senza neppure una tenda sotto cui ripararsi.
Presto la zona si era trasformata in una piccola baraccopoli, situata nel bel centro della vecchia città, all’epoca dilaniata dai continui bombardamenti,irriconoscibile. Ma l’accumularsi di sempre più persone disperate e il prolungarsi della guerra causarono solo altra sofferenza.
Indicibili eventi si erano susseguiti, la disperazione, la fame e la paura avevano fatto mettere mano alle armi a quei poveri rifugiati. Piccoli furti di cibo presto si erano trasformati in terribili carneficine, poco importava se a compierli fossero donne, anziani o bambini, ormai al limite della fame. Chiunque commettesse una qualunque infrazione o fosse accusato di sprecare inutilmente i viveri, doveva pagare con la vita, il solo rovesciare un bicchiere d’acqua poteva decretare la propria fine. In poco tempo fu il caos totale, e l’unica legge da rispettare divenne quella del più forte, i deboli erano destinati a morire e i loro cadaveri depredati. Sembrava non vi fosse nulla a fermare quell’infinita spirale di depravazioni, almeno fino al giorno della tragedia.
Bastò un unica, misera fiammella, e tutti i sopravvissuti perirono nelle fiamme di quello che già sembrava l’inferno, accompagnati dai resti delle loro misere baracche.
Si dice che, avvolte, se si presta molta attenzione, si possono ancora udire le atroci e dilanianti urla delle povere anime morte nell’incendio.

Ora però nessuno sembrava più serbare alcun ricordo di quegli eventi, per le generazioni che si erano susseguite era stato facile dimenticare un’agonia che non aveva provato sulla pelle. Nel corso degli anni, dove prima sorgeva la baraccopoli, si era edificato, costruito, rimodernato, sino a dare vita ad un amabile centro di svago e di ritrovo, con almeno una trentina di attività tra negozi, bar e piccoli ristoranti.
Eppure, nonostante tutto fosse stato ormai sepolto da un pezzo, era forte la sensazione di disagio opprimente di cui si diveniva preda la prima volta che si camminava per il viale Yomi. Presentimenti i quali venivano però presto accantonati dalla parte razionale del cervello, la quale non comprendeva da cosa fossero causati e li rifiutava a priori, seppellendoli nella parte inconscia dell’animo.
Ciò era però possibile solo di giorno, dove l’uomo si sentiva potente, padrone delle natura e del mondo intero, dove governavano la scienza e il sapere assoluto.
La notte, invece, era tutt’altra storia.
Al calar della sera era la parte irrazionale, animale dell’uomo a prendere il sopravvento.
Una paura istintiva, quella che nelle ore diurne era stata solo una leggera sollecitazione, portava chiunque si fosse trovato nei paraggi ad accelerare il passo, a fuggire via da quel luogo con lo stesso panico della gazzella che stava per essere divorata dal leone.
Solo chi fosse stato conscio degli atti compiuti decenni prima, della storia dietro a quelle moderne vetrate e palazzi, delle lacrime e delle ossa nascoste sotto al cemento, poteva affrontare e superare il terrore. Non reprimendolo, ma comprendendolo.
E solo qualcuno con un minimo di percezione spiritica avrebbe potuto vedere quali esseri, in realtà, popolavano la vita notturna del viale Yomi.

- Odio venire qua…- sbuffò Aomine rompendo finalmente il silenzio che li aveva accompagnati per tutto il tragitto, i suoi occhi oltremare vagavano titubanti verso l’alto, in cerca di un piccolo spiraglio di cielo notturno non ancora avvelenato dalle luci della città, ma non c’era.
Taiga gli camminava affianco, lo sguardo fisso a terra, un po’ ricurvo su se stesso, simile ad un bambolotto a cui si stessero scaricando le batterie.
- Allora perché ci sei venuto?- lo freddò il rosso con un tono che non nascondeva una feroce irritazione, per qualche motivo il comportamento dell’altro lo stava irritando più del solito. E forse la causa stava proprio nel fatto che fossero entrambi lì.
Durante il breve tragitto in autobus (15 minuti circa), aveva avuto il tempo di pensare e lo urtava il modo in cui lo aveva cosi facilmente seguito, come un bravo cagnolino che risponde subito alla chiamata del padrone. Ammetteva di non star passando il suo periodo migliore, anzi, la tentazione di tornarsene in America e chiudere per sempre quel capitolo della sua vita era forte, molto, ma questa non poteva giustificarlo per essersi lasciato manovrare cosi facilmente da quel dannato arrogante pieno di sé dai capelli assurdamente blu!
Più che con Daiki, Kagami era arrabbiato con se stesso e non solo da quel giorno. Ormai da due settimane faticava a guardarsi allo specchio, tanto era l’odio e il senso di colpa che lo attanagliavano. Una ferita profonda gli squarciava l’animo, all’altezza del cuore, e ancora non smetteva di sanguinare. Ogni secondo la sua pelle si tingeva sempre più di scarlatto, ma quello purtroppo non era mai stato il suo sangue.
Taiga non riusciva più a sopportare la vista del proprio volto e cercava solo un modo per estirpare quella profonda agonia di cui gli si era riempito il petto.
Se anche Aomine lo avesse odiato e incolpato, forse sarebbe stato meglio.
Ma Daiki era troppo gentile o troppo crudele per farlo.
- Insomma…- insistette Kagami trovando abbastanza forza da cercarne lo sguardo, sollevandolo da terra, -… non avevi detto che avresti abbandonato tutto? Che non essendo più legato a niente e a nessuno, questi affari non ti riguardavano? – c’era una nota di ammonizione nella sua voce, cosa che non piacque affatto ad Aomine.
- Io so il motivo per cui sono tornato qui! – replicò furente, ricambiando a sua volta la sfida che leggeva nelle iridi infuocate dell’altro, -… Non si può però dire lo stesso di te! Se non ci fossi stato io, adesso probabilmente saresti ancora lì imbambolato a chiederti: “Cosa faccio, cosa non faccio?” – lo scimmiottò malamente, additandolo sino quasi a toccarlo con l’indice in mezzo alla fronte, costringendolo ad incrociare gli occhi per seguirlo, in un espressione piuttosto ridicola e comica. – Questo non è l’atteggiamento da teste calde prive di cervello come siamo io e te. Le esitazioni non sono contemplate, noi le rifiutiamo a priori perché non sono nella nostra natura... – e quello che per Kagami era iniziato come un litigio, uno dei loro soliti scambi di battute, si tramuto in una ramanzina a senso unico da parte di Daiki. Il quale mal sopportava l’improvvisa passività e masochismo (definiva a quel modo il suo desiderio di essere punito) del rosso, e non gli perdonava di aver mollato tutto dopo che era stato lui il primo a lottare.
Certo, non potevano cancellare ciò che era accaduto, niente gli avrebbe riportato quel che avevano perso, ma gli rimaneva ancora un modo per rimediare. Aomine si aggrappava a questo per non cadere nuovamente in una scia d’autodistruzione fatta di totale menefreghismo, in cui nulla riusciva più a toccarlo. Aveva ancora un compito da svolgere, poi avrebbe potuto deprimersi per quanto avesse voluto, ma solo dopo quello.
E da come lo vedeva ridotto, sembrava che anche Kagami avesse bisogno di un obbiettivo a cui aggrapparsi, qualcosa per cui tener la mente attenta e il corpo vigile. Non lo avrebbe mai ammesso, ma era stata la preoccupazione a portarlo alle soglie della sua scuola quel giorno, voleva impedirgli di compiere qualche sciocchezza (del tipo: ritorno a Los Angeles da paparino), e per farlo aveva bisogno che trovasse un nuovo scopo al più presto. Sul momento non gli era sembrato  poi cosi male voler condividere il suo, infondo, erano entrambi colpevoli allo stesso modo del medesimo crimine, doveva dare anche a Kagami l’opportunità di riscattarsi.
– Non ci assomigliamo poi molto, ma in questo siamo simili. Il sangue ci va subito dritto al cervello, ci infiammiamo per un non nulla (e finiamo sempre per litigare). Questi però sono anche i motivi per cui niente ci può frenare – sta volta lo sguardo di Aomine sembra poterlo penetrare da parte a parte come un proiettile, lo gelò tanto era aguzzo, e le sue parole si tramutarono in accusa. – Tu però ti sei fermato Kagami -
Con quelle ultime parole, Daiki lo abbandonò lì, varcando da solo l’ingresso del quartier generale - che intanto avevano raggiunto e di fronte al quale si erano arrestati-, lasciandolo confuso e titubante sul marciapiedi.
Taiga al momento non se ne rendeva conto, ma l’altro gli stava dando la possibilità di scegliere. Non gli chiedeva di ricominciare subito a correre (consapevole che per un recupero simile ci sarebbe voluto il suo tempo), gli dava però l’opportunità di muovere nuovamente da solo i propri passi.
Trascorse un lungo istante in cui il rosso si limitò a fissare la porta in vetri illuminata dalle luci all’interno, che cosi tante volte aveva attraversato, ricevendo in cambio un proprio riflesso pallido e deformato.
Respirò profondamente prima di darsi uno schiaffo in testa da solo e chiamarsi mentalmente stupido, “ma cosa sto combinando?” pensò.
Poi maledì Aomine per avergli fatto la predica, neanche fosse stata sua madre, e un poco però lo ringraziò, quando riuscì finalmente a superare la soglia.
Non sapeva ancora il motivo per cui fosse andato sin lì, ma presto lo avrebbe scoperto.
Per quanto lento e breve si potesse rivelare il suo cammino, era pur sempre meglio che rimanere immobili.



“Solo un uomo stupido non teme la morte, ma ancor più stupido è colui che abbandona alla loro morte gli altri. Meschino è chi accetta la fine senza lottare, ma peggiori sono le persone che quella fine se la vanno a cercare.
Non vi è gloria nel perire per i propri compagni, per quanto sia un gesto da rispettare, la vera forza si mostra solo nel sopravvivere insieme ad essi.
D'altronde, se questi si trovassero nuovamente nei guai chi correrebbe in loro soccorso?
Ogni uomo è legato agli altri, e le nostre decisioni influiscono (anche se forse in minimo parte), su tutto ciò che ci circonda. Ecco perché la vita di ciascuno di noi è cosi importante…
Questo non va mai dimenticato, Tetsuya”quando gli disse quelle parole, la vecchiaia e i suoi acciacchi avevano colpito ormai da tempo il corpo di Etsuya Kuroko (il nonno di Tetsu), il quale aveva dovuto rinunciare al suo titolo di capofamiglia in favore del figlio quando, qualche anno/decennio prima, una malattia gli aveva portato via l’uso delle gambe.
Era quasi ironico come quel male che lo aveva debilitato a tal punto fosse stato anche l’unica cosa che gli avesse permesso di vivere cosi allungo.
Difficilmente coloro a cui era stata impressa l’eredità di famiglia sulla pelle - il loro marchio, quell’immenso onore e quella terribile maledizione che si portavano appresso da secoli - , raggiungesse le soglie della vecchiaia. Quindi, il fatto che il nonno avesse raggiunto gli 86 anni di età era per Tetsu e per tutti gli altri membri dell’organizzazione un vero evento.
Ed era stato proprio alla sua festa di compleanno che il vecchio venerando aveva preso in disparte il nipote, il quale all’epoca aveva appena nove anni, e per lui erano ancora lontani gli anni della consapevolezza e della disperazione (il dramma sarebbe avvenuto solo tre anni più tardi).
Etsuya aveva deciso fosse quello il momento più adatto per parlare a quattrocchi con Tetsuya. Aveva sempre pensato si assomigliassero molto loro due, per aspetto e comportamento il moccioso era fin troppo simile a lui nei suoi spensierati anni d’infanzia, e persino nella costituzione esile e inadatta al combattimento spirituale poteva riscontrare la propria giovinezza. Ormai il vecchio si sentiva stanco e mortalmente debole, credeva che non avrebbe mai visto i suoi 87^ anno di vita (e invece sarebbe arrivato ai 90), e come ultima cosa voleva affidare a Tetsu, cosi simile a lui, il proprio testamento. Qualcosa a cui il giovane avrebbe potuto aggrapparsi nei momenti difficili e bui che si sarebbe trovato ad affrontare.
Perché sapeva sarebbero arrivati, prima o poi.
Il destino della loro famiglia gli era sembrato un buon punto d’inizio.

In realtà, Tetsu non ricordava poi molto di quel discorso chilometrico, era pur sempre un bambino e non era stato in grado di afferrare tutte le parole formulate dal vecchio, alcune veramente troppo complicate per il suo orecchio infantile.  
Difatti, la differenza principale che incorreva tra nonno e nipote era, per il primo, il rivelarsi piuttosto logorroico e spesso perdersi in monologhi infiniti, mentre per il secondo era rasentare il mutismo, limitandosi a frasi strette e sintetiche.
Però anche in questo vi era comunque qualcosa ad accomunarli, seppure in modo diverso le loro parole avevano sempre un peso enorme sulle persone a cui erano rivolte.
Era stato però in quei brevi secondi, quando Tetsuya aveva rilasciato per l’ultima volta l’Inugami, che le parole (o per meglio dire i concetti salienti), del nonno gli erano tornati alla mente.
Come aveva desiderato Etsuya anni prima, il nipote aveva segregato da qualche parte dell’animo il suo testamento, solo per poterlo tirar fuori quando ne aveva avuto realmente bisogno. E l’istante in cui Tetsu avrebbe incontrato la morte, pareva non esserci momento più adatto di quello.
“Ciò che cerco di dirti, nipote mio, è che per quanto la nostra famiglia sia legata alla morte, per quanto la nostra vita sia breve: la scelta su come viverla non ci è stata tolta.
Siamo costretti ad accettare la nostra prematura fine, niente però ci impedisce di scansarci quando la morte ci si presenta di fronte.
Forse sarà difficile da comprendere per te, essendo ancora un bambino, ma non si è obbligati a morire. Prima o poi ciò avverrà, certo, però devi dare tutto te stesso, ogni grammo della tua forza, per sopravvivere il più allungo e nel modo più felice possibile…”
In tutti quegli anni (non molti in realtà), Kuroko aveva sempre creduto che, giunto il momento, sarebbe stato pronto. Infondo era sempre stato quello il destino della sua famiglia:
“Proteggi gli uomini, esorcizza gli spiriti e muori in silenzio”… giusto?
Qualcosa non andava.
Paura. Angoscia. Terrore. Gli percuotevano lo spirito, lasciandolo incapace di reagire in alcun modo, ma non avvertiva altro. La sua pelle si stava frantumando, quasi fosse divenuta pietra, sotto ai suoi occhi, lui però non sentiva nulla. Un pianto isterico lo colse, cancellando per una volta l’apatia sul suo volto. Era davvero finita?
Sapeva che l’unico motivo per cui non sentiva dolore era perché la sua anima stava già andando in pezzi, separata da un corpo destinato a spezzarsi in pochi attimi.
Non sarebbe più rimasto nulla della sua esistenza.
La sua mente cominciò a perdere consistenza mentre le memorie di chi era stato svanivano.
Frammento dopo frammento avvertiva il suo essere cancellarsi, divorato da qualcosa impossibile da controllare. Troppo potente da contrastare.
Pezzo, dopo pezzo, dopo pezzo, dopo pezzo, dopo pezzo…
Ogni ricordo già ingoiato dall’oblio.
… e pezzo, dopo pezzo, dopo pezzo, dopo pezzo.
Ogni consapevolezza di sé, sia del respiro che del battito del proprio cuore, svanita.
Ormai era morto.
Pezzo, dopo pezzo, eppure qualcosa rimaneva.
Ma nonostante questo, proprio non riusciva ad accettare di perdere anche quelli.
Li stringeva forte tra le sue dita incorporee, i suoi due tesori.
Ora che si era ridotto a semplice anima evanescente - la carne trasparente, tutto il suo corpo divenuto più simile ad un accumulo di condensa che a qualcosa di vivo - ,  due fili sottili ma resistenti gli uscivano dal petto, all’altezza del punto in cui stava cuore, e si allungavano a dismisura fino perdersi in quell’oscurità che lo circondava.
Una volta liberato l’Inugami l’ambiente attorno a lui aveva cessato d’esistere.
Kuroko non ricordava più a chi fossero legati gli altri capi di quei lacci, ma credeva vi fosse un motivo se esistevano, che simboleggiassero un legame?
Ciò che vedeva erano forse i sentimenti con cui si era legato a due distinte persone, entrambe egualmente importanti nella sua vita, estremamente preziose per lui?
Forse le aveva amate?..  Chissà, l’aveva dimenticato.
Però, nonostante non ne preservasse alcuna memoria, non voleva separarsene.
Non voleva tagliare quel ultimo ponte con cui rimaneva collegavano a loro, chiunque fossero.
Non voleva abbandonarli.
Chi avrebbe aiutato quei due idioti quando sarebbero finiti di nuovo nei guai? -pensò d’istinto, non sapendo però dare una qualche spiegazione alle proprie stesse parole.
Avrebbe fatto di tutto per proteggerli ancora, e morire di certo non gliel’avrebbe permesso, ragionò con quel poco di IO che gli rimaneva.
Non poteva morire!
Si era lasciato indietro quei due sconosciuti cosi importanti!
Dovevano ancora fare un infinità di cose insieme.
Lui doveva fare ancora un infinità di cose.
- Desideri vivere? -
Forse per la prima volta da ché aveva ricevuto la maledizione della propria famiglia, Kuroko desiderò di poter vivere di più di quanto il marchio gli avesse concesso.
Non fuggire da esso, ma lottare. È però difficile ribellarsi quando si è già firmata la resa.
Lo spirito di Tetsu afferrò forte a se quei suoi ultimi legami, perché non si spezzassero mentre il resto di lui finiva con l’essere frantumato, disintegrato in tante piccole schegge sottili di non esistenza.
Nell’oscurità di quell’oblio rimasero infine solo i due fili.
Uno risplendeva di un color rosso intenso come il fuoco e l’altro brillava di un blu profondo come il mare.

“Sappi alla fine che solo qualcuno che tiene stretta a se la propria vita, può sperare di salvare quella di qualcun’altro.”
- Grazie, ojiisan -





  
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