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Autore: La X di Miria    11/08/2013    1 recensioni
Avvertenza: non c'entra nulla con Hunger Games, sebbene il titolo sia simile.
La protagonista è Marta, una ragazza che lavora per una casa di moda, con il complesso della taglia 40 e dei fotografi. Impegnata nell'ennesima sfilata, sarà vittima di un gioco inumano e spietato.
Ma la verità era un'altra. La verità era che io avevo un terrore innato per i fotografi. Una fifa blu, perché la paura è blu, come i flash di quelle dannatissime macchine, che scoccavano all'unisono, tutte dirette verso un singolo obiettivo: tu.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ci fermammo.

Avevo dormito per non so quanto ed ero ancora lì, intorpidita e dolorante.

Le ante del furgone si aprirono con uno schiocco secco, e la luce fioca dell'alba rischiarò l'interno. Contro la parete opposta, distinsi una sagoma salire e prendersi un corpo sulle spalle. Lanciai una rapida occhiata attorno: c'erano al massimo venti persone, alcune stese sopra altre.

Un mugolio attirò la mia attenzione: la persona che l'uomo aveva preso si stava svegliando. Lui la girò e la colpì sulla nuca, questa grugnì e si accasciò. Credetti l'avesse uccisa. La portò fuori e lo stesso fece con altre quattro persone. Il furgone ripartì.

 

Quando toccò a me trattenni il respiro per secoli. Non osavo socchiudere gli occhi nemmeno di un millimetro. Venni presa e buttata sull'erba.

«Questi vanno nel terzo settore.»

Altre mani mi afferrarono (erano diverse perché non portavano i guanti) e venni caricata sulle spalle di qualcuno. Mi teneva davanti, perché con un braccio mi sosteneva le gambe, con l'altro mi circondava la schiena. Il furgone ripartì e io cominciai il viaggio all'interno del bosco. Sì, perché mi trovavo in un bosco: lo capivo dall'odore acre della resina di pino, dal fatto che il tizio procedeva a zig zag, urtando rami e cespugli, e perché le foglie scricchiolavano sotto i suoi piedi. Non era uno di quelli armati, indossava indumenti più leggeri.

«Ancora questa e poi non se ne riparla più fino in estate» disse.

«Sì» rispose uno di fianco. «Certo che come regalo di compleanno, mi pare un po' eccessivo. Voglio dire... non è una cosa adatta a un ragazzo. Oh be', nemmeno ad un adulto... .»

«Nemmeno ad un essere umano, se è per questo» intervenne un terzo. Queste parole mi fecero drizzare i peli della schiena.

«Ah! Quando sei ricco e non sai come spendere i tuoi soldi,» proseguì il tizio che mi portava «, cerchi sempre di spenderli in maniera originale.»

Gli altri assentirono a questa perla di saggezza, seguirono attimi di silenzio, interrotti dal loro avanzare tra la vegetazione.

«Certo che questa,» le mani dell'uomo mi sistemarono «, pesa un bel po'.»

«Mai come questo qui!» rantolò una voce che non avevo udito prima. «È così grosso... che sembra... un cinghiale!» Gli altri risero. Erano cinque.

«La mia invece è una piuma. La tengo con un braccio!»

«Tieni il mio... con un braccio!» esclamò quello che portava il cinghiale. Stava per schiattare sul posto.

«Eccoci qua.»

Fui scaricata accanto a un cespuglio. «Sogni d'oro, mi raccomando. Non ne farete più, purtroppo.»

Ci fu un breve sghignazzo e il respiro pesante di quello che aveva portato il cinghiale non accennava ad attenuarsi. Sorrideva e ansimava: «Ehi... dammi... dammi il pennarello.»

«Che ci vuoi fare?»

Pochi istanti e i tizi tornarono a sghignazzare, questa volta più forte.

«Ah! Andiamo, prima che si sveglino... » disse uno, ricomponendosi un poco.

Si allontanarono e io rimasi in ascolto, finché le voci e i passi non si confusero con il cinguettio degli uccellini e lo stormire dei pini.

 

 

Eravamo in una radura. Sulla mia testa volteggiavano tre corvi e si posavano di tanto in tanto su qualche ramo. Insieme a me c'erano due ragazze, una bionda, coi capelli corti e magra come un palo, una coi capelli lunghi e mori che le coprivano la faccia, un po' più in carne. C'erano anche due uomini, uno robusto e abbronzato, sui trent'anni, e un altro con la testa quasi calva e grosso come una porta-container. Sulla maglia bianca e sudaticcia aveva disegnati tre cerchi rossi, uno dentro l'altro.

Mi misi seduta e mi graffiai nel cespuglio di agrifoglio. Poggiai la testa su un tronco e ci sfregai contro le corde dei polsi. Dopo dieci minuti il movimento divenne automatico e quasi non ci pensai. Per questo, quando le corde allentarono la loro presa sui miei polsi sofferenti, rimasi stupita. Poi toccò alle gambe: le mani mi formicolavano e i nodi erano piccoli e pestiferi, ma con l'aiuto di un sasso appuntito li sciolsi tutti.

Appena fui in piedi, vidi quello abbronzato contrarre il volto e muovere il busto.

«'Sta fermo, ti aiuto io.»

«Ho... un coltello... nella tasca.»

Frugai nella tasca destra dei suoi pantaloni ed estrassi un coltellino svizzero. Mi chiesi come mai i tizi armati glielo avessero lasciato in tasca, ma non m'arrovellai troppo, niente aveva molto senso ormai.

«Mhmh... dove siamo?»

«In un bosco. Ci hanno rapiti.»

L'uomo rimase in silenzio e fece scorrere freneticamente gli occhi: stava ricordando. Alla fine emise un profondo sospiro.

«Ero uscito a bermi qualcosa... non ricordo altro... solo... un colpo alle spalle. Se ce lo avessi avuto davanti... a quest'ora sarebbe in ospedale col naso fracassato.»

Gli guardai le mani: erano il doppio delle mie. A giudicare dal fisico pareva un pugile o che so io. Uno che andava in palestra sul serio, che non lasciava scadere la tessera, come la sottoscritta.

Si guardava attorno frenetico e quando gli liberai le mani si ritrasse, si sedette e con un “Lascia, faccio io” si mise ad armeggiare con le caviglie.

Avevo un ragazzo simile tempo fa. Non nel senso che era abbronzato o palestrato, ma nel senso che si comportava alla stessa maniera: quando era in difficoltà, non voleva mai essere aiutato, come se farsi aiutare da una donna fosse vergognoso. Quest'orgoglio machista non m'andava proprio a genio.

«Io sono Marta.»

Lui annuì: «Giacomo.»

Non ci dicemmo altro, anche perché gli altri erano ancora legati.

Lui si fiondò subito sulle ragazze, mentre a me rimase da sbrogliare il ciccione.

La prima a riprendere i sensi fu la ragazza bionda. Giacomo l'aveva presa tra le braccia, ma lei schizzò via.

Si chiamava Erica e stava tornando a casa dal lavoro quando era stata aggredita vicino alla sua macchina. Aveva un naso importante, occhi celesti e viso affilato. Parlava senza guardarci troppo in viso, quasi l'annoiassimo: mi metteva un po' in soggezione.

L'altra ragazza si riebbe qualche ora dopo: aveva un modo di fare molto dolce e nonostante avesse un po' di pancetta, la trovai molto bella, anzi, forse era proprio la pancetta a renderla graziosa. Mi meravigliai di me stessa: ormai mi ero convinta che le belle donne avessero tutte come minimo la quaranta. Quarantadue, per essere buoni. Questo mi mise di buon umore e mi sentii meno brutta del solito.

Disse di chiamarsi Serena: con un sorriso così accogliente, quel nome le stava proprio a pennello.

Mi allontanai da Erica per sedermi accanto a lei. Erano proprio l'opposto: la prima magra e spigolosa, con un modo di fare altezzoso che mi ricordava troppo Jacqueline & co., l'altra morbida e simpatica, con la quale sarei diventata presto amica.

Mi disse che stava aprendo il portone del condominio in cui abitava, quando qualcuno l'aveva tramortita. Era ancora cosciente mentre la caricavano sul furgone.

Giacomo intanto stava perlustrando la zona: i cellulari non prendevano e non c'era il benché minimo segno di civiltà, non un'indicazione, né un insegna.

Io non dissi nulla dei tizi che ci avevano portato qui, né tanto meno che ero stata sveglia. A cosa sarebbe servito? Con tutto quello zigzagare nel bosco non avrei saputo tornare indietro. In più avevo tenuto gli occhi serrati e la mente attanagliata dalla paura: ero stata troppo impegnata a capire dove stessimo andando.

Il ciccione dormiva ancora, assieme ad Erica, che si era poggiata su un tronco ed era crollata in pochi minuti. Appena Serena vide i tre cerchi sulla maglietta, dalle sue labbra affiorò una risata gorgogliante : «Lo immagino già che saltella: “Fate centro nel mio pancione! Oh, oh! Non è così semplice!”» Ridemmo entrambe.

Verso le otto e un quarto del mattino, si svegliò anche lui. Rotolò da un lato, si mise seduto e ammiccò più volte dietro agli occhialini di ottone. Aveva quarantadue anni, ma ne dimostrava cinquantatré. Si chiamava Giovanni e assisteva alle partite di rugby del nipote ogni domenica mattina. L'ultima era stata un'amichevole e perciò l'avevano giocata di mercoledì sera. Era andato a far scorta di ciambelle per la partita ed era stato portato via (come, nessuno glielo chiese).

«Bene! Adesso che abbiamo fatto tutti conoscenza suggerirei di muoverci. Voglio uscire al più presto da questo posto e spaccare il naso a chi mi ha portato qui.» Giacomo si avvicinò a grandi passi verso Erica: «Sveglia, principessa. Ci aspetta una bella camminata. Lunga o breve, dipende da quanto vi muovete.» Le porse una mano.

Trovai che non stessero male insieme: entrambi mi stavano antipatici a pelle, entrambi avevano quell'atteggiamento arrogante ed altezzoso, la stessa faccia da “non-vali-un-cazzo”. Avrei voluto scarabocchiarli e prenderli a freccette.

  
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