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Autore: Matt_Stewartson77    13/08/2013    0 recensioni
come ogni ventenne, Susan Dawson, figlia di una delle più famose famiglie di esploratori, non aspetta altro che un occasione per mettere alla prova le proprie capacità. prende così parte alle spedizione della nave Starlight, alla ricerca di una reliquia spersa nell'Oceano Atlantico. ma qualcosa va storto...
Susan, insieme ai suoi amici, si ritrova naufraga su un'isola non circoscritta sulle cartine, e lì dovrà affrontare le sue paure e combattere contro uomini che vogliano ucciderla. perché la vogliono morta? quale segreto cela l'isola? presto, Susan, imparerà cosa significa davvero la parola "fiducia"
Genere: Avventura, Azione, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Discussioni

      Noi tre decidemmo che era meglio se la sera stessa ne avessimo parlato a papà. Sarebbe stato più prudente. Forse.
      La sera era sempre più calmo del giorno. Durante la giornata era molto impegnato col nonno e gli affari di famiglia, non si poteva parlare con lui in quelle circostanze, sarebbe stato irascibile. Dopo avere deciso accuratamente la situazione migliore con mamma e Rosie –cena con il suo piatto preferito, bistecca al sangue, bah- salii in camera e mi gettai sulla sedia di fronte al computer. Navigai su internet senza interesse. Non avevo niente di interessante da fare, o non ne avevo proprio voglia. Chiusi la pagina di ricerca, e misi qualche canzone, così, per rilassarmi.
      Mi gettai sul divano ad ascoltare le note di una cantante che non ricordavo il nome, che mi aveva suggerito mio cugino. Il ritmo era un misto tra il pop e rap.
      They can say whatever
      Imma do whatever
      No pain is forever
      Yes, you know this
      Era piacevole da ascoltare. Era… tosta. Senza volerlo, iniziai a muovere la gamba a ritmo di musica.
      That I, I, I
      I am so Hard (so Hard)
      Yeah, yeah, yeah. I am so Hard
      Anche il testo mi piaceva. Aveva un significato forte. Ti sospingeva a fare quello che non ti azzarderesti a fare. Ti sospinge. Alzai il volume della musica, e inizia a ballare per la stanza, cantando i testi della canzone.
      «That I, I, I. I’m so Hard!» ballavo e urlavo quelle parole, come se mi sospingessero, come avevo pensato prima, a fare qualcosa. Quella cosa! La porta si aprì di colpo. Mi fermai all’istante e vidi chi era.
      «Vuoi abbassare quell’arnese, nipote cara?» mi nonno era entrato, un po’ irritato dal volume della mia musica. Gesticolava con le mani verso il computer che emetteva la canzone. Immediatamente corsi alla scrivania e spensi le casse.
      Mi voltai verso mio nono che stava ancora fissando il monitor del computer e dissi imbarazzata «Scusa!».
      Lui, appena sentì la mia voce, spostò lo sguardo su di me «Stai attenta Nipotina!» disse con sguardo contrariato «Questi così…» indicò di nuovo il monitor, ancora acceso «ti mangiano il cervello!» disse con tono catastrofico.
      Soffocai una risata «Certo, nonno. Starò attenta» aspettai che uscisse. Appena chiuse la porta, riaccesi le casse, ma a volume più basso. Mi avvicinai alla grande finestra a guardare fuori, sul retro di casa. Vidi i domestici pulire la piscina ovale. La stavano preparando per l’estate imminente. Io non ci sarei stata. Altri invece stavano tagliando l’erba del prato. Altri ancora stavano sistemando i cespugli, in modo che crescessero con la forma desiderata. Li osservavo malinconica.
      Che stupida! Provavo tristezza anche soltanto nel guardare il mio giardino? Ma la cosa che più mi chiedevo, se ero triste nel pensare di andarmene, perché ero così convinta e… obbligata da me stessa a farlo?
      Fantastico! Pensai Adesso non sono nemmeno sicura di me stessa? Fantastico, davvero!
      La canzone continuava a riempire la stanza con il suo ritmo che tanto mi piaceva. Tornai a sedermi sul divano, e afferrai un giornale posto sul comodino di fianco a me, e iniziai a sfogliarlo.
      Lessi un articolo che si occupava di politica senza interesse dovevo trovare il modo per passare il tempo. Mi guardai in giro, in cerca di qualcosa da fare. Sbuffai nervosa. Il tempo sembrava non passasse mai. Guardai l’orologio. Erano le 6 di pomeriggio. La cena era alle 8. Girai per la stanza. La musica che andava ancora. Osservai di nuovo fuori. Sbuffai ancora. Spensi il computer e uscii dalla mia stanza. Percorsi il corri doglio, arrivai in salotto, ed entrai nella parte della casa che, forse, visitavo più di tutte. La cucina.
      «Buon pomeriggio» salutai tutti. Mi risposero con un saluto garbato. Anche se ormai io li consideravo amici, doveva avere sempre… rispetto verso di me. Che cosa stupida, pensare che le persone possono essere al di sotto delle altre.
      Notai una testa familiare in lontananza, mi incamminai verso di lei e mi sedetti sul tavolo dove stava lavorando «Ciao Gorge!» lo salutai vivacemente.
      «Salve Susan. Come sta?»
      «Me la cavo!» risposi guardando il via vai di gente per la cucina. Gorge stava pelando delle patate «Ti aiuto?» chiesi scendendo dal tavolo.
      Lui mi guardò stizzito «Non so’ se posso permettere…»
      Non lo feci finire di parlare, che avevo preso un pela-patate, e iniziato a sbucciarne una «Ma smettila!» li rimproverai. Lui mi osservò per qualche secondo. Gli feci un sorriso, sorrise anche lui, e si unì a me. Mi chiesi se sapesse già di stasera «Sai già cosa fare per stasera?»
      «Rosie è venuta poco fa ad avvertirmi che per il Signor Dawson una bistecca al sangue» arricciai il naso alla parola sangue. Mi aveva sempre dato fastidio, anche solo lo sguardo «Perché?» chiese Gorge di colpo senza distogliere lo sguardo da quello che stava facendo.
      «Perché cosa?»
      «Perché un piatto a parte per il Signor Dawson? Se posso»
      «Oh!» ero convinta che lui lo sapesse già, ma mi sbagliavo «Beh vedi, io tra qualche settimana parto…»
      «Parte?!» mi interruppe «E dove va?»
      «Parto con la nave di zia Jasmine. Te lo ricordi?» acconsentì con il capo «Alla ricerca di un manufatto perso nel Oceano Atlantico con la sua nave, la Starlight» fini di sbucciare una patata, e ne presi un’altra.
      «Come mai questa decisione? Sempre se posso»
      Feci un sorriso per la sua timidezza «Non lo so’ nemmeno io» confessai. Era la stessa domanda che, io stessa, mi ero posta poco prima.
      «Quanto tempo starete via?»
      «Non so’ nemmeno questo» dissi triste «Forse qualche mese»
      George restò in silenzio. Sbucciava più velocemente di me, forse l’esperienza. Sì, doveva essere per forza così. Vedevo le sue mani rugose, muoversi senza difficoltà con quell’arnese in mano. Da quanto tempo, precisamente, era nella nostra famiglia, non lo sapevo. Sapevo soltanto che era tanta tempo.
      «Ci mancherete qui» sussurrò. Scattai quando sentii quelle parole, ero così presa dal movimento delle sue mani, che mi ero dimenticata che stavamo parlando della mia partenza.
      «Anche voi mi mancherete» risposi malinconica «Tutti»
      Ma perché ogni volta che parlavamo del mio… viaggio, dovevamo andare a finire su argomenti tristi?
      Restai a parlare, mentre sbucciavo ancora le patate, - ma quando finiscono? – con Clark Forester. Il più giovane della servitù. Avevo deciso di ammetterlo io anche se non ci serviva. Portava i capelli sempre spettinati – motivo per cui lo insultavo “capelli alla Edward Cullen” – castano chiaro, quasi cioccolato, come i suoi occhi. Faceva palestra quindi aveva un fisico ben formato. Aveva compiuto da poco ventidue anni, in famiglia era ben accetto. Se chiedevi, lui rispondeva, se non chiedevi, lui restava al suo posto. Facevo tutti i lavori che gli chiedevano di fare senza mai obbiettare o sbuffare. Aiutava dappertutto. Avevo un legame con lui, stretto quasi quanto quello che avevo con Rosie. Mi piaceva parlare con lui, la pensavamo allo stesso modo, ed era simpatico. Molto.
      «Meglio se vai a prepararti» disse mentre stavamo parlando di una pubblicità appena trasmessa in TV.
      «Perché?»
      «Sono quasi le otto. Non vorrà mica fare tardi, e far arrabbiare suo padre? Specialmente sta sera poi?»
      «Giusto» dissi triste «Va bene. Io vado. Ciao Clark, ciao George» li salutai
      «Arrivederci Susan» rispose George con voce roca «Ciao Susan» mi salutò Clark.
      Clark era l’unica persona che aveva imparato a dirmi ciao. Gl’altri, erano arrivati solo al nome, non riuscivano a fare di più. Ovviamente, lui lo faceva quado eravamo soli, senza la presenza dei miei, e soprattutto di nonno.
      Salii in camera, e sfrecciai dritta verso il bagno. Bagno o doccia? Mi chiesi sulla soglia della porta. Optai per il bagno. Misi a riempire la vasca, e nel frattempo, andai a preparare gli abiti per sta sera. Presi un vestito lungo fino alle ginocchia, verde –il mio colore preferito- e lo appesi all’attacca panni in bagno. Quando la vasca fu riempita, mi ci immersi. L’acqua calda era una vera goduria. Poggiai la testa su un lato della vasca, e lasciai liberi i miei pensieri.
      Il primo fu quello di come dire a papà del mio viaggio stasera. Prima lo avrei ammaliato un po’ con la carne, poi glielo dirò. O forse era meglio dirglielo cautamente? Sì, forse sarebbe stata la cosa migliore. Comunque, non potevo farmi nessun pensiero sulla sua reazione. Era un libro chiuso per chiunque. Non aveva nemmeno il titolo. Aveva imparato a non tradire emozioni con nessuno, mamma diceva che ci aveva messo un po’ per capire se lui l’amasse per davvero, diceva che lo faceva per non sembrare debole. Lo trovavo stupido, essere neutri anche con la propria famiglia. Forse avrebbe detto “tu non andrai a quel viaggio né ora né mai!” sarebbe stato ovvio. Considerando invece il suo amore per il suo lavoro, poteva dire “finalmente! Non vedevo l’ora che ti decidessi!”. Poi corrugai la fronte quando un pensiero involontario mi passò per la testa.
      Come faceva Clark a sapere del mio viaggio?
      Considerando che nessuno lo sapeva, e lo avevo costatato poco fa, perché lui già ne era al corrente? Che mamma glielo avesse detto? Era impossibile per due motivi.
Uno. Non gli andava a genio il mio rapporto con lui, e quindi non gli andava a genio lui.
      Due. Lo avevo saputo il pomeriggio stesso, e quindi, a meno che non avesse fatto la corsa dopo che io fossi salita in camera, non poteva averlo sentito da nessuno. E, se conosce bene Rosie –e la conosco da una vita- mi avrebbe chiesto di poterlo dire.
      Parli del diavolo…
      «Susan!» Rosie era entrata in bagno di corsa.
      «Che c’è?»
      «Sono le otto!» indicò l’orologio appeso alla parete «Devi prepararti adesso! Su’, esci di lì e asciugati!» ordinò uscendo dal bagno «Io ti aspetto qui» e chiuse la porta. Uscii dalla vasca malinconica, e mi asciugai. Mi ritornò alla mente Clark. Guardai la porta che Rosie aveva appena chiuso.
      «Rosie?»
      «Che c’è?» urlò per farsi sentire. Gettai l’asciugamano nella biancheria sporca, e mi vestii.
      «Hai detto tu a Clark del mio viaggio?» dissi aprendo la porta e uscendo.
      Lei mi guardò incuriosita «Clark? No. Io non gli ho detto niente»
      «Davvero?»
      «Certo! Voi non mi avete chiesto di dirglielo, e io non gli ho detto niente» come pensavo. Me lo avrebbe chiesto «Perché?»
      «Lo sapeva»
      «E chi glielo avrebbe potuto dire?»  Corrugò la fronte.
      «Ne parliamo dopo Rosie» la interruppi guardando l’orologio «Adesso è tardi! Dobbiamo andare»
      «Certo» disse lei, e mi aprì la porta. Uscimmo di corsa, e percorremmo altrettanto in fretta il corri doglio. Se avessi fatto tardi mio nonno mi avrebbe ucciso. Non avevamo il tempo per passare dalla cucina, così passammo dalla porta principale. Quando aprimmo la porta, mio nonno disse «Ben arrivata» e uno sguardo torvo da parte di mia madre. Mio padre non se ne curò.
      Mi sedetti al mio posto, e iniziai a mangiare il piatto che già era in tavola. Notai che mio padre stava già gustando il suo piatto preferito, forse era per quello che non si era curato del mio ritardo.
      La cena proseguì tranquilla. Mio nonno attaccò un discorso con mamma e Rosie. Non voleva ammettere che quando ci parlava era simpatica, ma lo si vedeva lontano un miglio. Mio padre era di buon umore Menomale pensai. Finito di cenare, ci spostammo in salotto per il dessert. Per tutto il tempo osservai ogni minimo movimento di mio padre. Poteva essere di grande aiuto. Infatti capii che era la serata giusta per parlargli delle mie intenzioni. Presi un cannolo dal vassoio che aveva portato Clark. Lui mi fece un occhiolino per rassicurarmi, ricambiai con un sorriso.
      Mamma lanciò uno sguardo indescrivibile a Clark «Signorino Forester, può andare. Grazie»
      «Certo Signora Dawson» rispose, e se ne andò. Soffocai una risata.
      Mia madre disse qualcosa al nonno per farlo andare via insieme a lei. Prima che scomparisse in una delle porte mi fece cenno che era il momento per dirglielo.
      Appena scomparve, spostai il mio sguardo immediatamente su papà che stava leggendo una rivista. Non riuscivo a far smettere le mie gambe di tremare. Ansia. Quello che provavo, di nuovo, in quel momento. Inizia a pensare che forse era quel salotto che mi faceva quell’effetto.
      Lui non distoglieva lo sguardo dal giornale, e io non lo staccavo da lui.
      Chissà se ha capito che lo sto guardando?
      Vidi ancora i dolci e liquori poggiati sul tavolo. Più tardi sarebbe passato qualcuno a prenderli. Papà non aveva toccato nemmeno una goccia di liquore. Altro segno che era di buon umore.
      Io no!
      Presi un bicchiere di grappa, e lo buttai giù con un solo sorso. Feci un respiro profondo, e contorsi le labbra dal sapore. Cavolo se era forte! Posai il bicchiere sul tavolo promettendomi che non lo avrei mai più bevuto in vita mia.
      Quando alzai lo sguardo, mio padre mi stava fissando sbalordito «Credevo volessi diventare astemia» mi confessò.
      Abbassai lo sguardo, arrossendo «Non stasera» dissi sottovoce «Sono abbastanza nervosa»
      «Nervosa?» ripeté il mio stato d’animo «Per cosa?»
      Che fare? Cambiare discorso in modo da rimandare? No! Dovevo fare come un cerotto. Un colpo secco. Ma la tentazione di rimandare era forte, e come se lo era! Ma se lo facevo stasera, lo avrei fatto nelle prossime ancora e ancora.
      No! O stasera o mai!
      «Papà» dissi in un sussurro.
      «Sì, Tesoro»
      «Devo dirti una cosa» era inutile, la mia voce non riusciva ad essere più alta di un sussurro.
      «Tutto quello che vuoi»
      Mi strappai il cerotto «Tra circa un mese parto con la nave di zia Jasmine. Durerà qualche mese forse, non lo so di sicuro. Siamo diretti all’Oceano Atlantico. È già tutto apposto»
      Finalmente staccò lo sguardo da quella maledetta rivista, per fissare me. Aveva uno sguardo misto tra la sorpresa e qualcosa che non riuscivo a capire se era felice o arrabbiato. Posò la rivista sul tavolino e si alzò. Si mise di fianco al camino. Picchiettava nervosamente il piede sul pavimento. Iniziavo a credere che quella cosa che non riuscivo a capire, era qualcosa di negativo.
      Mi fissò «Andiamo nel mio studio Susan!» e si avviò.
      Merda!
      Quando mio padre ti chiedeva di raggiungerlo nel suo studio, la cosa era molto seria.
      Ci portava soltanto i soci d’affari e roba simile, e quando ci entrava, era meglio non sbirciare. Lui lo riteneva quasi un luogo sacro. Ci teneva tutta, ma proprio tutta la sua roba, e non permetteva a nessuno di entrarci se non con il suo permesso. Una volta entrati lì era impossibile prevedere quello che ti succederà. Se positivo o negativo. Quando entrava lì con della gente, dicevo sempre Adesso entrano nell’oblio!
      Entrammo nella porta al fianco destro del camino. Percorremmo il lungo corri doglio, ed entrammo nel suo studio. Esso aveva due piani ed era molto ampio. In fondo, di fronte alla porta, si trovava una vetrata enorme con davanti a sé la grande scrivania. Al lato destro della stanza, c’era una biblioteca, mentre a quello sinistro, una scala che conduceva al piano soprastante, una stanza con le pareti coperte di libri.
      «Chiudi la porta, Tesoro» non aveva un tono rabbioso, ma neanche entusiasta, era… neutro.
      Mi voltai a girare la porta alle mie spalle. Mi voltai di nuovo verso di lui. Si stava avviando verso la sua sedia. Girò attorno la scrivania, e si sedette.
      «Siediti Susan» disse indicando una delle due sedia in pelle rosse posta di fronte a lui. Io, che ero ancora ferma di fronte alla porta, ubbidii e mi andai a sedere senza dire parola.
      La stanza era completamente silenziosa. Nessuno di noi due aveva detto niente, e di certo non sarei stata io a fare la prima mossa. Continuavo a tenere lo sguardo basso, non avevo il coraggio di guardarlo, stavo torturando le mie mani.
      «Allora» disse di colpo facendo quasi prendere un colpo «Cos’è questa storia del viaggio?»
      No trovai ugualmente il coraggio, e mi limitai a guardare un po’ al di sopra della scrivania «Beh volevo fare un viaggio, la ricerca di una reliquia» dissi quasi sottovoce «E ho pensato che agli inizia era meglio farlo con un esperto così…»
      «Ti ha costretta tua madre» sintetizzò lui, impedendomi di finire la frase.
      «Cosa? No! Lei non c’entra niente. È un idea mia, e soltanto mia» da dove gli era venuto in mente mamma, adesso?
      «Ti ha costretta a prendere la nave di tua zia, vero?»
      «No!» finalmente lo guardai «Ti ho detto che è un’idea mia. Anzi, lei voleva impedirmelo» perché era così testardo? Credeva che non avessi il coraggio di prendere l’idea di un viaggio da sola? Mi credeva così codarda?
      Lui mi fissò per un po’, poi cacciò un’altra deduzione del tutto sbagliata «Allora è stata tua zia!» roteai gl’occhi, scocciata «Sappiamo tutti com’è fissata per la famiglia e il suo lavoro. Non vede l’ora di vederti all’opera»
      «Basta papà!» urlai irritata «È un’idea mia! Chiaro? Mia e basta!» mi alzai, mettendomi dietro la sedia che prima occupavo.
      Sembrava sorpreso dalla mia reazione. Forse era colpito dal fatto che non aveva ragione, o forse dalla mia reazione. Non avevo mai urlato a lui, nemmeno in sua presenza. Mi credeva ancora bambina? Beh, se era così, si sbagliava di grosso. Ormai ero cresciuta, avevo imparato a prendermi le mie responsabilità già da tempo ormai. Me la cavavo da sola dove potevo. Non ero più “la docile e tenera figlia di Richard Dawson” no, ero molto diversa da quella bambina. Rimanevo sua figlia, ma docile e tenera no!
      Era ancora lì, fermo a fissarmi senza dire niente.
      «Perché credi che io non sia capace di prendere decisioni ardue, papà?» chiesi, con tono triste pensando che lui mi credeva ancora la sua piccola Susy.
      Continuava a non dire niente, a guardarmi. Poi cambiò discorso «Perché lo vuoi fare Susan?» era molto serio, e notai che stava cercando in me ogni piccola traccia di ripensamento.
      «Perché lo voglio!»
      «Vuoi cosa? Andare ad ucciderti appena dopo i vent’anni Susy, eh?»
      «Oh, andiamo papà! Uccidermi? Ti ho detto che vado in viaggio su una nave, capito? Una nave!» perché nessuno riusciva a capire che su una stramaledettissima nave non c’era nessun pericolo?
      «Sei ancora piccola Susan!»
      «Piccola? PICCOLA?! Ho vent’anni papà, venti! Ti sembro piccola?» stava cercando ogni piccola scusa per impedirmi di partire, ma io non mollavo, non questa volta. Gliela avevo data sempre vinta, ma adesso no!
       «Appena fatti!» mi corresse.
       «Sette mesi fa!» gli ricordai.
       «Susan, seriamente, perché lo vuoi fare così ardentemente?» corrugò la fronte. Stava cercando di capire le mie intenzioni.
      Decisi di crollare «Perché voglio essere considerata come Susan Dawson, papà. Non come la figlia di Richard Dawson!» dissi in un sussurro.
      «Cosa? Ma che giustificazione è questa?»
      «Una più che coerente papà!» gli risposi «Ti sembra stupido, papà? Voler uscire dall’ombra del proprio padre, per mostrarsi al mondo? È così stupido? A me non sembra» le lacrime iniziavano a pizzicarmi, ma ora più che mai dovevo resistere, non potevo permettermi di piangere, di mostrarmi debole.
      Papà restò senza parole. Era lì immobile sulla sedia, non stava guardando me, ma dritto davanti a sé. Resta a guardarlo, ad aspettare che rispondesse, che trovasse una risposta, che trovasse il coraggio di risponde alla domanda con cui mi tormentavo da anni, e che ormai stavo andando così vicino alla risposta. A smettere di tormentarmi.
      «Tu non ci andrai Susan, basta!» disse solo.
      «Cosa?» ero sbalordita «Perché?»
      «Perché io ho deciso così. Punto»
      «No, niente punto papà! Sono grande, decido io per me»
      «Finché vivrai sotto il mio tetto, comando io» mi guardò torvo.
      Che risposta stupida «Non costringermi ad andarmene, sai che sono capace di farlo» lo provocai «L’ho già fatto una volta, non ho paura di rifarlo» quando avevo 10 anni, ero scappata di casa perché non volevano farmi andare ad una festa. Era una stupida giustificazione, quindi si poteva dire che avevo le carte in regola.
      Non smettevo di guardarlo, volevo vedere ogni sua più piccola reazione, specialmente ora che avevo trovato il coraggio di tenergli testa «Non lo faresti»
      «Vogliamo scommettere?» provavo una sensazione di potere immensa in quel momento, non avrebbe lasciato che me ne andassi di casa.
      «Perché credi che non sia capace di farlo, papà?» il mio tono era quasi supplichevole. Lui distolse lo sguardo, ritornò a guardare davanti a sé, senza avere intenzione di dire una misera parola.
      «Mi credi così debole da non riuscire a restare qualche mese su una nave?» nulla. Sembrava una statua se non fosse per il suo petto che si alzava e abbassava per espirare.
      «Rispondi papà!» urlai.
      Sobbalzò dallo spavento, e riuscii a farmi guardare. Lo fissavo dritta negl’occhi in modo che non potesse sfuggirmi. Lo guardavo speranzosa, volevo che rispondesse. Anche se la risposta sarebbe stata negativa, volevo che me lo avesse detto, che mi avesse fatto capire se credeva in me o meno.
      «Non è questo» disse piano.
      «E allora cos’è?»
      Si alzò piano dalla sedia e si avviò verso le scale che portavano al piano di sopra dello studio «Dove vai adesso?» non rispose. Salì le scale piano e arrivò al balcone che si affacciava sullo studio, mi guardò per qualche secondo, mi fece cenno di salire. Restai ferma dov’ero. Non volevo salire, avevo paura. Lui scomparve nella stanza dietro il balcone. Decisi che era meglio seguirlo, forse voleva farmi vedere qualcosa, mi avvicinai alle scale, e le salii piano senza staccare gl’occhi dalla porta aperta che portava alla stanza di sopra. Percorsi anch’io il balcone ed entrai nella stanza.
      I libri coprivano l’intera stanza con al centro un tavolo. Papà era fermo vicino ad essa, dandomi le spalle «Papà?» non rispose nemmeno questa volta. Mi avvicinai cauta al centro della stanza, fermandomi vicino a lui «Papà?» tentai di richiamarlo posandogli una mano sulla spalla. Non reagì nemmeno stavolta, iniziavo a preoccuparmi.
      «Susan» disse piano «Ti ricordi di nonna Lily?»
      «Certo papà» risposi cauta. Era la moglie di nonno Victor, era –naturalmente- un’esploratrice. La nostra famiglia di esploratori era partita da suo padre, poi lei, poi mio padre ed adesso sarebbe dovuto toccare a me. Era morta quando io avevo all’incirca quattro anni, non l’avevo mai conosciuta davvero, solo nelle foto, ma mi avevano speso parlato di lei. Dicono che io sia bella e divertente quanto lo era lei, pronta a dire battute nei momenti meno opportuni «Ma cosa c’entra nonna, papà?»
      «Tua nonna» si blocco. Parlava come se volesse scoppiare a piangere da un momento all’altro «Tua nonna, aveva fatto talmente tanti di quei viaggi ancora prima che nascessi che ormai non ricordo nemmeno» disse con un sorriso malinconico prendendo una foto di lei sul tavolo «Quando sei nata e aveva scoperto che eri una bambina» fece una risata, altrettanto triste al ricorda «Aveva urlato per tutto l’ospedale “È una femmina! La mia nipotina è una femmina!” era così felice di avere te, quando ti vedeva aveva sempre il sorriso sul volto» mi guardava malinconico. Mi venne un nodo alla gola.
      «Lei ti diceva sempre che eri la sua piccola reliquia, quando era qui non ti mollava un secondo. Arrivati i tuoi tre anni aveva deciso di smettere di intraprendere viaggi, voleva dedicarsi solo alla famiglia, ma dopo circa sei mesi, decise di fare un viaggio su una nave, lo decise tranquillo, nella tua stessa meta»
      Anche lei era partita per l’Oceano Atlantico?
      «Durante il viaggio, però, la nave affondò» gli si spezzò la voce «Non trovarono mai il suo corpo e la nave, nemmeno le coordinate e il posto esatto furono scoperte» posò la cornice sul tavolo, e la voltò verso di lui.
      «Quello fu il suo ultimo viaggio»
      Guardai anch’io la foto, lei che sorrideva, strinta a nonno Victor, i capelli neri come i mei in contrasto con i biondi de nonno, e una lacrima iniziò a scendere. Anche a me mancava, molto. Le lacrime scesero sempre di più, come quando vedevo una sua foto con me da piccola. Avrei tanto voluto conoscerla, saremmo state grandi amiche, questo era certo, avremmo dato entrambi dei grattacapi al nonno e papà.
      Molte ragazze e ragazzi non capiscono a volte i loro nonni, spesso pensano che siano inutili persone vecchie, ma capisci il loro amore per te, e il tuo verso di loro, solo quando non li hai più con te. 
      Io avevo questa crudele opportunità.
      «Adesso hai capito perché non voglio che tu vada lì?» papà mi guardava piangere e osservare nonna Lily, o almeno la foto.
      «Papà è successo molto tempo fa e il mondo è cambiato. Abbiamo navi più attrezzate, più resistenti. È impossibile che succeda la stessa cosa a me» cercai di fargli cambiare idea. Le mie speranze si stavano spegnendo a poco a poco. Non potevo competere con lui riguardo a nonna. Mi asciugai le lacrime in fretta, mi ricordai solo adesso che erano simbolo di debolezza.
      Papà mi osservò mentre le levavo dal mio volto «Ne sei sicura?» disse poggiando una sua mano sulla mia spalla «Sei sicura di volerlo fare?»
      «Certo sì!» era la centesima volta che lo dicevo.
      Gli scappò un sorriso «Sei testarda quanto lei!» capii che si stava riferendo a nonna. Sorrisi anch’io.
      «Va bene» si arrese «Puoi andare a quel viaggio»
      «Davvero?» dissi entusiasta «Posso?»
      «Sì» rispose con un sorriso guardando la mia espressione.
      Gli lancia le braccia al collo e lo abbraccia stretto «Grazie papà! Grazie» dissi tra le sue braccia. Finalmente era tutto apposto per davvero. Era tutto ok. Potevo finalmente partire senza pensieri, tranquilla. Avevo solo uno scopo adesso, soltanto uno: dimostrare quanto valevo!
      «Promettimi che starai attenta» dal tono di voce sembrava che mi stesse supplicando.
      «Certo, papà!» gli promisi sciogliendo l’abbraccio «Andrà tutto bene, tranquillo»
      Ecco un altro attacco di malinconia!
      Ma perché mi doveva succedere? Era da sdolcinate, e io non dovevo esserlo. Non potevo permettermelo. Distolsi lo sguardo per non guardarlo ulteriormente, per non vedere quella sua tristezza negl’occhi che sentivo volevano piangere, ma lui non voleva, oppure non ci riusciva. In tutti questi anni nel suo lavoro era diventato duro come la pietra con i sentimenti, aveva messo in atto quel meccanismo talmente tante volte, che alla fine, era diventato perennemente di pietra. Ma io ero sicura che era il dolce in fondo. Mamma diceva che quando lo ha conosciuto era molto, ma molto dolce con lei –anche adesso- poi con il lavoro si è “indurito” in po’.
      «Io, adesso vado. Ok?» chiesi timidamente. Non ero mai stata molto confidenziale con lui, avevo il solito rapporto “tu i tuoi spazi, e io i miei” ed andava bene così.
      «Certo, ok» rispose anche lui un po’ imbarazzato «Io ho del lavoro da fare. Ci sentiamo dopo, va bene?»
      «Certo» uscii dalla stanza e scesi le scale. Probabilmente non aveva davvero da fare, ma voleva restare un po’ solo con se stesso perché avevamo spolverato il volume “nonna Lily” e io lo capivo. Aprii la porta, e me la chiusi alle spalle. Guardai fuori da una delle vetrate del corri doglio. Era notte fonda, forse erano le dieci, o quasi. Non avevo sonno, ma dormire in quel momento, era come un desiderio.
      Mi sentivo la testa pesante per via della discussione con papà, della felicità per il mio scopo raggiunto, per la malinconia, e ci si era aggiunta anche nonna. Tutto in una sera.
      Anche se non vedevo l’ora di assaggiare il mio morbido letto, camminavo piano senza far nessun rumore, il silenzio regnava intorno a me. E pian piano, arrivai alla porta. La aprii, e rimasi sconcertata.

  
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