Fanfic su artisti musicali > Pink Floyd
Segui la storia  |       
Autore: Cornfield    16/08/2013    2 recensioni
Siamo delle lune, delle lune apparentemente bianche, docili e candide come l'infanzia. Ma tutti hanno il proprio lato oscuro che non vogliono far notare a nessuno. Eppure questo misterioso lato oscuro è in realtà il nostro unico lato esistente.
Genere: Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
The Great Gig in the sky.
 
“Si, ho paura di morire. Tutti gli esseri umani hanno paura di morire. Chi non ce l’avrebbe?”
 
“In realtà no, non sono spaventato. Mi spavento semplicemente del fatto di non poter più ricongiungermi con i miei cari. Ho paura della morte dei miei amici, parenti…”
 
“Sinceramente non ci penso. E non ci dovremmo pensare. Pensare fa male.”
 
Sei solo.
La luce proveniente dalla tv è l’unica che illumina il tuo corpo e la tua anima. Ognuno di noi ha in realtà un’altra luce dentro se stesso, o almeno dovrebbe averla, perché tu non ce l’hai. Come una candela, ha resistito a tutto: vento impetuoso, bambini dispettosi, soffi improvvisi… ma poi pian piano la luce ha cominciato a muoversi a muoversi e a muoversi fino a spegnersi in un lamento silenzioso. E’ la candela della speranza. Non hai più di speranza. E la cera della candela comincia a diradarsi nelle tue ossa.
La speranza è stata sormontata da un unico, grande, gigantesco interrogativo. L’interrogativo che tutti vogliono evitare, a cui non vogliono pensare, a cui si illudono di avere una risposta in realtà barcollante. A cui tutti prima o poi si inchineranno.
Cosa c’è oltre la morte?
Cosa c’è? Cos’è la morte? Morte soltanto materiale, o anche spirituale?
O è l’inizio di una nuova vita? O è semplicemente la fine di una vita? Forse bisogna semplicemente capacitarsi. Forse è semplicemente la fine. Ma si sa che c’è sempre un’altra fine. E tu, anche con la speranza smorzata, non riesci a capacitarti della fine di tutto. Di una vita combattuta, pianta, gioita… ridotta in pochi minuti in cenere. Puff. Tutto sparito. E’ finito tutto. Non esisterai mai più.
Non vuoi affidarti a Dio, Dio per te non esiste.
Non puoi affidarti alla speranza poiché non hai più.
Non puoi affidarti alla fantasia, perché è impossibile immaginare la morte.
E a chi puoi affidarti? A niente. E niente sarà probabilmente l’unica cosa presente dopo il decesso di ognuno.
E’ frustrante. E’ come camminare senza gambe verso una meta ignota, con la benda sugli occhi, le orecchie troppo sporche di cerume per sentire anche solo un sussurro urlato, il naso tappato. L’ignoto. L’oscurità. La paura.
Cominciano a tremarti le mani. La gola si secca. Cambi canale distrattamente, come se cercassi qualcosa che ti distragga da questo pensiero impellente. Ma non trovi nessun programma soddisfacente. O forse semplicemente non riesci a non pensare alla morte.
Ma non devi pensarci.
Non puoi continuare a pensare inutilmente all’aldilà, sprecando le poche lancette di orologio che ti rimangono.
Ma è inevitabile.
Continui a cambiare canale, ripassando anche a quelli già visti, premendo con forza sui tasti.
Dopo tutto non c’è niente.
Ti alzi dalla poltrona che oramai aveva fatto la forma del tuo sedere.
Niente di niente.
Ti versi un bicchiere d’acqua, ma inevitabilmente ti scivola dalle mani tremanti e sudate.
Sarà tutto finito.
Provi ad asciugare la macchia che si è riversata per terra, ma ci rinunci subito.
E non potrai mai più sorridere.
Basta.
Gioire.
Finiscila.
Camminare.
Ho detto basta.
Salutare.
No!
Guardare corpi estranei.
Devi smetterla!
Mangiare, bere, cucire, cucinare, scrivere, leggere, portare, sudare, lavare, innaffiare, spostare.
La tua gola si contrae in modo disumano.
Stai gridando.
Gridi.
Gridi ancora.
Gridi perché va bene così. Non ce la fai più. Non ce l’hai mai fatta e mai ce la farai.
Gridi per far uscire fuori la tua anima, per evitare di fartela  strappare dalla morte.
Gridi per far sapere a tutti che sei vivo e che vorresti esserlo per sempre.
Ed il grido si spegne lentamente, come per la candela.
Ti accasci per terra. Perché lo sai, lo sai che niente in realtà è per sempre.
 
Money.
 
Soldi.
Il benessere il quale sfocia in altri benesseri. 
La felicità vera e propria. Com’è che si chiama quella cosa lì… un abbraccio? Non ricordi più cosa sia un abbraccio e non ti curi di volerlo riscoprire. Chi ha bisogno di un abbraccio? Sono semplicemente due corpi che in una morsa di ferro si intrappolano da soli. Gli umani sono stupidi, pensi. Tessono la loro propria trappola. E ridi. Intanto vai a comprarti una bella macchina di lusso, perché quella è la vera felicità. 
Girare in città con gli occhi delle persone verso di te, bramosi di voler fare un giro su quella costosa e fiammante auto… è una soddisfazione senza confronti. Tanto non gli farai mai salire con te, ti piace sfottere la gente.
Hai fame.
Entri nel ristorante più lussuoso della città, giusto per farti una certa immagine. Ordini di tutto, dal caviale all’aragosta fresca di mattina. Tanto hai soldi da spendere. Così diventerai più felice, giusto?
Decidi di dare una mancia al cameriere non per improvvisi atti di carità ovvio, ma soltanto perché il tuo portafoglio è troppo grosso come la tua testa (sei un pallone gonfiato dicono tutti, ma a te non importa) e devi pur sbarazzarti di qualche banconota inutile.
Ma non sei completamente soddisfatto. Dopotutto quella macchina che hai comprato poche ore fa, l’hai già vista in giro e sembra leggermente ammaccata. Hai un’idea geniale. Perché non comprarti un Jet? Uno di quei Jet che solcano il cielo e che fanno inevitabilmente alzare il naso alle persone curiose. Sei geniale. Eccoti il tuo Jet, proveniente dalla migliore fabbrica di questo secolo, costruito con qualche pregiato materiale americano. Eppure sembri ancora che ti manchi qualcosa.
Ecco la risposta. Quasi tutti i grandi imprenditori come te hanno una squadra di calcio, tu ancora non ne sei possessore. E allora corri subito al primo stadio. Non conosci neanche che squadra sia, come si giochi, dove ti trovi, ma va bene lo stesso, ami spendere soldi, ami essere felice.
Torni nella tua casa lussuosissima, sfinito. Buttare via contanti è un bel lavoraccio. Ma perché non sei ancora completamente in pace con te stesso? Senti che c’è ancora qualcosa che ti manca.
Ma certo. Devi guadagnare più soldi, in qualche modo, ma devi farlo.
Così riuscirai a riempire la capienza del tuo portafoglio…
ma non della tua anima.
 
Us and Them.
 
“Oggi sono violento. Domani sarò violento. Anche con te, chi può saperlo.”
 
“Non mi ricordo granché, ma credo proprio di essere stato violento, di avergli dato un bel calcio in quei cosi che lui chiama gioielli di famiglia. Una brutta serata però, devo ammetterlo.”
 
“In verità non ho mai preso a botte qualcuno, ma dovrei farlo, all’istante.”
 
Le tue mani si contraggono in un  pugno senza che l’azione prima possa essere valutata dal tuo cervello. Sei furioso. Non riesci a pensare, non vuoi pensare e non puoi pensare.
Ti ha succhiato via tutta la pazienza che (non) possiedi,  l’essere ragionevole, l’essere paziente.
Spacchi la bottiglia di vetro che ora brami pericolosamente e con tanta fierezza. Vorresti infilargli i pezzi di vetro su per la gola, in modo che ogni singolo pezzetto possa perforargli la pelle. Vorresti vedere il suo sangue rosso e limpido prosciugarsi fino allo sfinimento, la sua testa infilzata in un’asta della bandiera britannica e il suo corpo dimenarsi sull’orlo della morte.
Lo colpisci ripetutamente con la gamba sinistra, con l’alcool che ti scorre nelle vene e con  occhi vuoti e assassini. 
Il proprietario del bar cerca di fermare il gancio che stai per premere sulla pancia del tuo rivale, ma invano.
Continui a picchiarlo, finché non senti che le forze piano piano ti abbandonano. Lo sguardo si fa sempre più offuscato, la testa comincia a girarti.
Cadi per terra.
 
Un eco così lontano da poterlo sentire incredibilmente vicino ti arriva fino all’orecchie. L’eco, il canto malinconico della disperazione e dei cuori sanguinanti a forma di granate. L’eco di spari.
Apri gli occhi e ti siedi in ginocchio sulla terra fangosa. La quiete si distende apparentemente sulla landa desertica. Il silenzio è l’unica cosa che grida.
Passi improvvisi diventano sempre più ostinanti e si avvicinano. Dalla polvere alzata dal vento emerge una figura mingherlina. E’ un ragazzo di circa 25 anni che corre senza tregua, con il fiato corto e le gambe ridotte all’osso. 
“Stanno arrivando, stanno arrivando!” Mormora continuamente con le mani alzate. 
“Stanno arrivando!” Detto questo sparisce nuovamente nella coltre polverosa.
 Poco dopo altre tre figure  uscite da una catapecchia lì vicino si presentano davanti ai tuoi occhi: una donna sulla cinquantina che non sembra avere nessuna espressione in volto tiene stretta con la mano un bambino (probabilmente sarà suo figlio) anch’esso stremato e poco entusiasta, affianco ad un uomo ben più anziano rispetto agli altri due, con tante rughe riversate sul volto. Ogni ruga per ogni dispiacere.
Si incamminano insieme verso nord, o almeno così sembra, insieme ad altre anime perdute. Qualcuno ci va insieme al proprio asino poiché sono troppe le cose da portare via, altri non hanno assolutamente niente e non porteranno con loro neanche la speranza. Tutti comunque passeggiano in modo lento e  rassegnato. Sembra una marcia dei morti viventi, pensi. La parata nera. Un bebè piange tra le braccia ormai non più sicure e tiepide di sua madre. Ormai neanche un abbraccio potrà rassicurarlo.
Ma la quiete viene rotta nuovamente da un rumore sordo. Non sono passi. Sono echi.
Echi sempre più vicini.
Vicinissimi.
Le persone cominciano ad entrare nel panico. Spronano di più i loro destrieri, lasciano più oggetti possibili per evitare di essere affaticati, prendono in braccio i loro bambini, mormorano frasi indecifrabili, preghiere, rosari, imprecazioni. Cominciano a correre.
Il vento accarezza i capelli di ognuno di loro, quasi a volerli abituare alla brezza della morte. Il vento sussurra, sussurra anche lui ciò che non vorrebbe sussurrare. Ma deve farlo, perché gli è stato detto di farlo. Gli è stato detto di portare gli echi fin da loro e di fargli sussultare.
Sono qui.
Ormai non c’è più ordine. Ognuno si trascina da una parte all’altra senza meta. Sempre più bambini cominciano a piangere, sempre più bambini riversano le loro lacrime in una terra ormai morta. 
Rumori assordanti di elicotteri e aerei cominciano a penetrare nell’anima, pallottole taglienti si scagliano nel cielo ormai non più blu.
Addio cielo azzurro.
Addio, per sempre.
Bombe cadenti.
Anime perdute.
Sogni di gloria.
Distruzione.
A quel punto non riesci a vedere più niente perché la polvere alzata dal vento e dai piedi in corsa è troppo fitta, ma riesci comunque a sentire le grida e il sangue di ogni fottutissima persona sulla tua pelle. Di ogni fottutissima persona speciale, che poteva vivere, doveva vivere, doveva sfruttare il dono più bello che gli abbiano mai dato. Doveva diventare un medico, presidente, psicologo, scrittore, farmacista. E invece è diventato un mucchio di cenere che si confonde con tutti gli altri mucchi di cenere. Un dimenticato.
Dilaniato dalla guerra. Cos’è la guerra? La guerra non esiste. La guerra è solo un pretesto per combattere, gli uomini amano distruggere senza un motivo preciso. Il vero conflitto è interiore. Ma non vogliono dargli ascolto. Perché tanto una vita in più o una vita in meno non fa niente.
Riesci anche a sentire le risate del grosso generale, che ordina alle sue truppe di sparare: “Sparate a loro!”
A loro.
Loro.
Noi e loro.
Noi, i grassi generali, loro, persone qualunque. 
In verità siamo tutti noi, o forse siamo tutti loro. In verità non esiste nessuna distinzione, l’hanno deciso solo i generali. Perché devono morire solo “loro” e non “noi”? 
E la verità è che nessuno è qualcuno, e qualcuno è nessuno. 
Prima di chiudere nuovamente gli occhi, scorgi il bambino che hai avvistato poco prima, seduto per terra dinnanzi all’uomo anziano in un rivolo di sangue, ormai deceduto. 
La madre lo chiama, lo chiama inutilmente.
“Svegliati, nonno. Non dormire. Non dormire!” Urla. 
“Non dormire!”
Le sue lacrime si mischiano con le gocce di sangue. Sa che si si sta illudendo, ma fa finta di non saperlo.
Prova a spostare le lancette del suo orologio da polso alle 4 di pomeriggio, quando ancora una finta quiete perseverava nella landa e “loro” non erano ancor arrivati, ma non potrà mai più tornare indietro.
Invita ancora una volta l’anziano a rialzarsi. E alla fine ci rinuncia.
Decide così anche lui di addormentarsi e di non risvegliarsi, mai più.
 
 
Ti ritrovi nuovamente nel bar. 
L’uomo che hai picchiato sembra essere privo di sensi, come il proprietario del locale, finito scaraventato sul bancone chissà da quale forza sovrumana.
Ti rialzi. E’ lo stesso spettacolo sognato poco fa, con la differenza che tu sei stato a provocare il disastro. Tu sei “noi”. 
E rimani immobile. Per udire ancora una volta gli echi degli spari.
 
  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Pink Floyd / Vai alla pagina dell'autore: Cornfield