Capitolo 2:
“Change’s Time”
Si cambia. È
inevitabile, tutta la vita è un lungo cambiamento.
Quando
nasci sei un neonato: non hai idee, non hai concreti sentimenti
o bisogni, se non quelli di mangiare e dormire. Sei un piccolo corpo
che emana calore;
che vive, senza sapere di essere vivo.
È
palese che quando cresci tu cambi. Cominci a capire le cose, ti fai
dei gusti personali, cominci a pensare. Cominci a vivere.
Il
mio era un mondo ovattato. Non esistevano suoni, non esistevano
emozioni.
Non
provavo rancore verso mio padre e, in realtà, nemmeno
disprezzavo
mia madre.
Quando
piangevo, lo facevo perché mi era entrato qualcosa in un
occhio.
Se sorridevo, era perché vedevo farlo agli altri. O forse cercavo ogni giorno di
convincermi di questo?
Ero
un inusuale feto che si costringeva a rimanere nel ventre della
propria madre dopo averla uccisa. Sputavo sangue e parole in fogli
bianchi che
raccoglievano le mie uniche sensazioni.
Mi limitavo
ad essere un corpo di carne.
Scrivevo.
Scrivevo tanto: versi su versi, poesie illogiche, che spesso
nemmeno io riuscivo a capire. Scrivevo, ma non rileggevo mai i miei
scritti. Quei
numerosi kanji vomitati sul mio povero quaderno delle note nero. Quello
che mia
madre mi aveva comprato, ordinando “prendici gli appunti
di scuola”.
Sconnessi,
deformati, rimarcati. Tanti, tanti kanji. Kanji su kanji.
Follia,
irrequietezza, pazzia, voglia.
Voglia di
che?
Forse non ho
mai voluto guardare in faccia la crudele - magnifica - realtà.
Un
giorno mi feci coraggio. Era un insolito freddo pomeriggio di
Primavera ed i ciliegi erano in fiore. Ricordo
distintamente che durante il tragitto da scuola a casa mi ero
soffermato ad
osservarli per quasi un’intera ora. Io
amavo i ciliegi, senza un preciso perché.
A
quei tempi il dolore fisico che provavo era a volte opprimente. Mia
madre mi aveva portato più volte dal dottore, che
però aveva catalogato i miei
problemi causa della mia costituzione esageratamente debole. Prendevo
delle
strane pillole color arancio, dal sapore rivoltante e dolciastro.
Vitamine,
aveva detto il dottore.
Il
petto mi doleva e non riuscivo a respirare. Ogni ansimo, ogni
sprazzo di aria che usciva dalla mia bocca, era una fitta nello sterno.
Perché
i miei polmoni continuavano a
lavorare ossigeno?
Dolore,
dolore, dolore.
Pillole,
pillole, pillole.
Era
come se avessi un groppo in gola perenne, un fastidioso peso in
prossimità dei polmoni, che me li comprimeva amaramente.
Quel
giorno allungai la mia mano verso il
block-notes. Tremava.
Quel
giorno aprii il quaderno. Quel giorno
lessi la mia anima. Ed
urlai.
I
miei urli si espansero con una tale forza che spaventarono mia madre.
“Perché
urli?”
Perché
era bello. Perché mi piaceva.
Da
quell’insolito freddo pomeriggio primaverile i miei dolori
sparirono
del tutto.
Urli, urli,
urli.
Non
più
pillole, pillole, pillole.
Se
non potevo urlare, semplicemente cantavo.
Il feto era finalmente
cresciuto.