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Autore: shadow_sea    17/08/2013    7 recensioni
Lo scrittore principale di Mass Effect desiderava che il finale di ME3 si concentrasse sull’energia oscura, che stava per distruggere l’universo.
"The Reapers as a whole were 'nations' of people who had fused together in the most horrific way possible to help find a way to stop the spread of the Dark Energy. The real reason for the Human Reaper was supposed to be the Reapers saving throw because they had run out of time. Humanity in Mass Effect is supposedly unique because of its genetic diversity and represented the universe's best chance at stopping Dark Energy's spread" (Drew Karpyshyn).
Da qui, dalla forza devastante dell’energia oscura, tema appena sfiorato in ME2 e poi rapidamente abbandonato, trae lo spunto questa mia storia.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Garrus Vakarian, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Shepard e Vakarian'
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L’UNITA’ DEGLI OPPOSTI


Losing you




Ponte 3 - Batteria Primaria
L’aveva lasciata apposta come ultima stanza. Rimase davanti alla porta senza aprirla. Respirò a lungo, provando a tranquillizzarsi, mentre fissava quelle sue mani che tremavano troppo. Si appoggiò con la schiena contro una paratia, aspettando di ritrovare un po’ di calma.
La possibilità di trovarci Garrus le appariva remota. Se anche non fosse stato impegnato con la Gerarchia, forse non si sarebbe fatto trovare a bordo, non dopo quei suoi messaggi. Era stato lui a farle affidare la nave ed era certamente la Normandy la casa a cui aveva accennato. Solo lui poteva capire quanto rappresentasse per lei e solo lui avrebbe usato tutto il suo tempo e le sue energie per farle quel regalo che non aveva prezzo.
“E’ una sorpresa, Shep” sentì ripetere da una sagoma indistinta, avvolta nelle tenebre, sentendo che il peso per il senso di colpa la stava schiacciando.

“Ma che significato ha?” si chiese perché, a parte il rimorso opprimente, ancora non riusciva ad aver chiara la situazione. “Cosa me ne faccio della Normandy se poi siamo ancorati su Palaven? Cosa diavolo hai pensato? Non potrei essere tua moglie e andarmene a zonzo per la galassia e tu non potresti mollare tutti i tuoi impegni per seguirmi. La dovremmo usare per le vacanze estive?” si chiese scuotendo la testa, senza riuscire ancora a trovare il coraggio di varcare quella soglia.
“Joker sta dirigendo la Normandy verso il tuo pianeta natale? Hai programmato che sarei stata al tuo fianco nella cerimonia di investitura a Primarca, ammesso esista una cerimonia del genere su Palaven?” si chiese sempre più incerta.
“Mi sto facendo domande alle quali non so rispondere per prendere tempo, perché non riesco ad accettare la stupidità dei miei gesti, la mia irrazionalità, l’ingiustizia con cui ti ho trattato: ho scordato chi sei e cosa hai sempre fatto per me” si confessò, sapendo che la disapprovazione di se stessa era un nemico che ancora non aveva mai affrontato con tanta violenza.
E non si decideva ad aprire quella porta soprattutto perché non sapeva come sarebbe riuscita ad affrontare la delusione di non trovarlo a bordo.

Se avesse coltivato il progetto di andare insieme a lei su Palaven per ricevere ufficialmente l’incarico, avrebbero potuto passare insieme varie settimane. Si sarebbe potuta spiegare e forse sarebbe riuscita a farsi perdonare. Non la sostanza, che restava invariata, ma almeno il modo: un messaggio... “Mi hai fatto affidare la Normandy e io, in cambio, ti ho liquidato con un messaggio stringato?”.
Era incapace di capire cosa provasse esattamente riguardo a quella maledetta nomina a Primarca. Di sicuro c’era la gioia di saperlo alla guida del suo popolo, in una posizione che gli spettava di diritto e che aveva dimostrato di meritare pienamente. Sapeva che avrebbe onorato quel titolo nel migliore dei modi e che, liberandosi dall’ombra della sua presenza, avrebbe finalmente realizzato di essere un ottimo leader. Ma non poteva negare di essere atterrita all’idea di perderlo.
L’errore lo aveva commesso un settimana prima: Primarca o meno, aveva sbagliato ad accettare di diventare sua moglie. Non c’era fretta di compiere quel passo che non era neppure necessario. Forse Garrus voleva una sicurezza di cui lei non aveva bisogno. “So che mi saresti sempre vicino, non ne ho mai dubitato. Non ti ho mai dato la stessa certezza, suppongo. E visto il messaggio che ti ho mandato, sarebbe difficile contarci...”.
“Dovevo rispondere di no allora, non una settimana dopo e di certo non in quel modo...”. Se gli avesse chiesto del tempo al ristorante panoramico, lo avrebbe avuto, ne era certa. Ora, invece, non sapeva assolutamente prevedere le reazioni di Garrus.

Provò a immaginare le conseguenze peggiori. Non trovarlo all’interno della batteria primaria, lui in persona o almeno un messaggio stringato, avrebbe dimostrato che lo aveva ferito troppo. Controllò la posta con il factotum, anche sapendo quanto fosse inutile, poi riprese a fissare la porta chiusa.
Faceva fatica a capire se le sarebbe pesata di più la sua perdita in veste di amante o di confidente. E sapeva già che, alla prima battaglia, avrebbe sentito la mancanza di quel compagno d’armi nelle cui mani aveva consegnato in più occasioni la propria vita. Ma era inutile pensare al peggio quando rimaneva ancora una tenue speranza: Garrus era un bravo ragazzo, forse più di quanto lei meritasse.
Si decise e aprì la porta, sperando di trovarlo lì, immerso nei calcoli di qualche complicato algoritmo, magari così preso dalle sue famose calibrature da non notarla affatto o da chiederle di tornare più tardi. Sarebbe stata felice anche di trovarlo adirato come mai lo aveva visto in precedenza.

I macchinari nella stanza la accolsero con il loro ronzio familiare, mentre le luci si accendevano e si spengevano con quel ritmo un po’ ipnotico che aveva imparato a conoscere così bene nel corso delle lunghe ore trascorse lì, in compagnia del turian. Sul ripiano a sinistra della porta c’era uno spazio vuoto: quello che di solito era occupato dal computer di Garrus. Tutto era pulito e ordinato, come la stanza anonima di un albergo.
“Sono una sciocca e un’ingrata, Primarca Vakarian” pensò mentre si lasciava scivolare in terra, appoggiando la schiena contro l’uscio appena chiuso e il viso sulle ginocchia ripiegate. Le lacrime scorrevano nonostante il suo sforzo di trattenerle e, dopo un breve istante di ribellione istintiva, ci si abbandonò completamente: in fondo nessuno poteva vederla… “neppure IDA” si trovò a realizzare, con un nuovo spasmo doloroso.

“Non abbiamo avuto modo di parlare: avrei dovuto spiegarti di persona perché non posso diventare tua moglie, la moglie di un Primarca, invece di scriverti. Ora posso solo sperare che tu abbia capito il mio messaggio al di là di quelle parole inadeguate. Non credo tu possa onestamente immaginarmi con qualcosa diverso da una pistola o da un fucile stretto fra le mani. Non ti potrei mai venire in mente come anfitrione che accoglie gli ospiti e che si occupa della gestione della casa. Sono certa che saresti il primo a piegarti in due dalle risate a queste immagini assurde” lo pregò silenziosamente, senza riuscire a liberarsi dal dolore per quel terribile senso di vuoto che le allagava l’animo.

“Ora che ho a disposizione la Normandy verrò a cercarti su Palaven, se già non è diretta lì questa nave. Mi serviranno dei mesi, ma verrò a vedere come te la cavi. E ti spiegherò tutto, se accetterai di vedermi. Sei riuscito a restituirmi la forza di rialzarmi e di tornare a combattere perfino dopo questa ultima terribile battaglia contro i Razziatori: non ti deluderò, almeno come soldato. Come donna sono stata un disastro, come fidanzata sono addirittura inqualificabile” si confessò amaramente.
“In un futuro lontano, quando sarai riuscito a perdonare quello che so di averti fatto, forse riuscirai ad essere fiero di te stesso, per essere riuscito a riportarmi a essere ciò che ero una volta, quando combattevamo insieme, fianco a fianco” concluse infine, rendendosi conto che doveva uscire al più presto da quella stanza troppo piena di ricordi.

Si alzò dal pavimento e dette un’ultima occhiata intorno. Accarezzò con le dita il macchinario più vicino, stupita dalla freddezza indifferente di quel metallo che tutto a un tratto le appariva estraneo. Si asciugò il viso maldestramente, con la manica dell’uniforme, e tornò sul ponte equipaggio. Ma all’improvviso, a metà del percorso verso l’ascensore, la fantasia della sagoma di uno sconosciuto intento a calibrare i sistemi offensivi della sua nave la offese, come se avesse ricevuto uno schiaffo in pieno viso. Quella visione le invase la mente, seminando il panico nei suoi pensieri, e si sentì costretta a tornare sui passi e a rientrare nella batteria primaria, per assicurarsi che non ci fosse realmente alcuna traccia di qualcuno che avesse preso il posto di Garrus.

Uscì nuovamente sul ponte equipaggio imponendosi di respirare con regolarità. Tutto taceva a quell’ora tarda della sera, ma lo scafo vibrava leggermente sotto i suoi piedi, le luci delle apparecchiature in funzione lampeggiavano con regolarità, mentre il ronzio rassicurante dei macchinari la accompagnò per tutto il percorso fino all’ascensore.


Ponte 1 - Alloggio del comandante
Entrò, premette il pulsante corrispondente al ponte 1 ed aspettò che l’ascensore si fermasse. Poi uscì e varcò la soglia della sua cabina appena illuminata dal consueto chiarore dell’acquario. Appoggiò la mano sinistra, con tutte le dita bene aperte, contro il vetro e restò a fissare le scintillanti sagome colorate, mentre ricominciava a piangere in silenzio “Hai pensato perfino agli stupidi pesci”.
Si voltò, cercando la gabbietta, e vide che anche il criceto era al suo solito posto: stava mordicchiando uno spicchio di mela con quel lieve suono raschiante.

- Non ce la faccio - sussurrò, mentre si rendeva conto di non vedere più nulla, accecata com’era dalle lacrime che non era capace di fermare: erano lacrime di gioia e di disperazione e non capiva quale sensazione sovrastasse l’altra. Si buttò sul letto, abbracciando il cuscino, e cercando di soffocarci dentro i singhiozzi che la stavano scuotendo.
- Non ce la faccio - ripeté, con il viso premuto contro la federa, questa volta urlando con tutto il fiato che aveva, cercando di sfogare in quel grido liberatorio tutto lo strano miscuglio di sensazioni soffocanti che la opprimevano.
Ammutolì non appena sentì aprirsi la porta del bagno, mentre una voce inconfondibile chiedeva - Cosa diavolo ti prende?


In the End




- Cosa fai qui? - chiese a sua volta, impietrita dalla sorpresa.
- Stavo raccogliendo le mie cose. Ero stato un idiota: le avevo sistemate nella tua cabina - fu la risposta pronunciata in tono assente.
Solo in quel momento intravide un borsone aperto appoggiato in terra, a fianco della porta del bagno.
- Non ho capito.
- Ho letto i tuoi messaggi pochi minuti fa - spiegò lui, indicando il portatile aperto, appoggiato sul tavolino - Speravo di riuscire a radunare tutto prima che finissi il giro della nave, ma sono in ritardo - aggiunse - Non mi era venuto in mente di controllare la corrispondenza. L’ho fatto solo per passare il tempo, mentre ti aspettavo - aggiunse con espressione distante.

Lo guardò infilare nel borsone un paio di flaconi e tornare poi verso il bagno. Restò in silenzio, senza capire cosa realmente provasse, senza sapere cosa dire. Era solo confusa, completamente disorientata.
- Mi dispiace - fu tutto quello che riuscì a pronunciare, asciugandosi gli occhi con il lenzuolo.
- Perché stai piangendo? - fu la domanda che provenne dal bagno, con un tono che la ferì perché suonava di pura cortesia.
Cercò delle parole semplici che riuscissero a spiegare l’insieme confuso delle tante sensazioni esasperate che provava.
- E’ troppo, tutto questo - disse alzandosi dal letto e aprendo le braccia, come in segno di resa, mentre fissava la grande finestra di fronte alla porta del bagno - Fa male.
Lo vide annuire lentamente nel riflesso del vetro che dava sul cielo nero.
- E poi... la batteria primaria... era vuota... - confessò con una voce pressoché inesistente, rendendosi conto di quanto fossero contrastanti le diverse emozioni che le stavano strappando l’anima.

- Sarebbe stata vuota la tua cabina e non la batteria primaria, se avessi letto prima quel messaggio delirante - asserì Garrus, con lo stesso tono che avrebbe usato per parlare dell’immutabile tempo metereologico della Cittadella.
Lei appoggiò la fronte alla finestra - Mi spiace... è partito per errore.
- Ti riferisci al primo, ma quel messaggio potevo comprenderlo. Il secondo no.
- Non capisco.
- Lo so.
- Potresti spiegarmi... - lo pregò, girandosi a guardarlo.
- Non ora. Non ce la faccio - confessò, scuotendo la testa - Sono deluso da me stesso, dalla mia irragionevolezza, dall’ignoranza con cui ho affrontato questa relazione. Sapevo troppo poco sugli umani e mi sono reso conto che tuttora non riesco a capirvi.
- Stai dicendo delle assurdità.
- Anche se fosse, non avrebbe importanza. E non capisco cosa ti importi delle mie spiegazioni. Tu sai dove ti porta la tua strada. Io sono molto più confuso.
- Io... non sono sicura di niente. Non so cosa voglio, non capisco neppure cosa provo - ammise, rendendosi conto che riuscire a trattenerlo in quella stanza era l’unica cosa che contasse in quel momento.
- Non sai cosa vuoi? - si sentì chiedere con voce ostile - E’ un’affermazione strana: una decisione l’hai presa. E ti sei limitata a comunicarmela, senza dilungarti in spiegazioni.

- Forse hai ragione - ammise stancamente.
- Forse? - ripeté lui, incredulo, calcando quella parola con rabbia - Questo tuo forse chiarisce quale enorme errore io abbia commesso e da cosa volesse proteggermi mio padre - aggiunse mettendo un altro paio di cose nel borsone per poi chiuderlo con un gesto deciso.
- Va bene, hai ragione e basta - si arrese - senza nessun dannato forse. Ne possiamo parlare?
- No. Non adesso.
- Non adesso - ripeté arrendendosi - Ma adesso cosa succede? - chiese poi, sentendo che stava affogando in un mare di sensazioni contrastanti, senza riuscire a seguire fino in fondo un solo pensiero, ma lasciandosi trascinare dai tanti che le si accavallavano confusamente nella mente. Sopra tutto c’era una paura che la paralizzava.
- Torno nella batteria primaria: le relazioni interspecie non possono funzionare.
- Non puoi aspettarti che lo facciano con la telepatia! - gli urlò contro con tutta la rabbia e la disperazione che provava, senza neppure rendersi conto di aver lanciato una nova in piena stanza, con il risultato di aver mandato all’aria tutto quello che non era saldamente fissato al pavimento o alle pareti, nonostante gli impianti biotici inattivi.
In un’occasione diversa si sarebbe messa a ridere di fronte all’immagine di Garrus scaraventato contro il muro con la gabbietta del criceto fra le braccia, ma in quel momento era solo atterrita all’idea che lui varcasse quella porta.

La certezza assoluta, anche se ingiustificata che, se fosse arrivato nel suo santuario privato, nulla lo avrebbe convinto a tornare sui propri passi, l’aveva fatta agire con una violenza da lasciare stupita lei per prima.
Mentre il turian si rialzava da terra e rimetteva a posto la gabbia sulla mensola con una pacatezza che era ancora più inquietante di uno scoppio d’ira, ricordò la decisione irremovibile di non voler diventare sua moglie e si chiese cosa volesse veramente.
- Ti avevo avvertito che sarebbe stato complicato. Probabilmente lo è troppo, per te - lo sfidò apertamente - Vai su Palaven a fare il Primarca, se è questo che vuoi - aggiunse fermandosi a pochi centimetri, fissandolo dal basso con un’espressione piena di rabbia.
- E tu cosa vuoi? Lo sai? - la provocò lui.
- Voglio la Normandy, i cieli della galassia, un equipaggio... E te - fu la risposta istantanea, che le sembrò ovvia e sicura - Non in quest’ordine…
- Garrus, non riuscirei a vivere arenata su un pianeta, neppure sul tuo - confessò con gli occhi umidi per le lacrime di rabbia che stava cercando di trattenere - Non posso essere tua moglie, la moglie di un Primarca. Ma non dobbiamo sposarci per forza, no?

- Non riesco a immaginare quale futuro in comune vedi per noi due, con queste premesse - osservò lui, fissandola pensieroso.
- Neppure io - ammise sinceramente, lasciandosi cadere in terra, con le spalle contro una parete.
- Il comandante Shepard va in giro per la galassia con la sua amata Normandy, ogni tanto fa scalo su Palaven, passa qualche notte con il suo uomo e poi riparte. Pensi onestamente che potrebbe funzionare?
- No - riconobbe - Ma la colpa è tua! - lo accusò subito dopo alzandosi in piedi e fronteggiandolo con rabbia.
- Vai avanti - la incitò Garrus con un sorriso inquietante, accompagnato da uno sguardo gelido.
- Non mi avevi avvertito che eri il nuovo Primarca. Non mi hai spiegato cosa avrebbe comportato un matrimonio con te!
- E’ inammissibile prendere decisioni del genere senza avvertire il partner. Stai affermando questo?
- Esatto - gli ringhiò contro, senza capire perché lui continuasse a fissarla con quell’espressione che la metteva a disagio.
- Come altrettanto inammissibile è la dichiarazione io vado per la mia strada... tanti saluti... non devo spiegarti nulla... che è il senso del tuo secondo messaggio.

- Quindi... ciascuno di noi ha commesso un errore? - chiese, con la speranza assurda che due errori potessero annullarsi a vicenda.
- No. Il mio unico errore è stato quello di fidarmi di un’umana. Non passerò il resto della mia vita a firmare scartoffie o a incontrare politici. Non valuterò la convenienza di inutili accordi galattici con diplomatici di potenze straniere. Non sono fatto per questo - le confessò tranquillamente - E comunque non avrei mai preso una decisione del genere senza discuterne prima con te.
Adesso era confusa - Ma perché non hai rifiutato subito?
- Perché volevo questa nave: il Consiglio non sarebbe stato ad ascoltare un Garrus Vakarian qualsiasi, ma il futuro Primarca di Palaven sì - le spiegò con calma, prima di aggiungere in tono decisamente diverso - Non immaginavo potessi credere che avrei valutato la proposta senza ascoltare il tuo parere. Ma suppongo che fra umani sia uso comune decidere come se il partner non esistesse.

Incassò quell’accusa, interessata ad altro - Ora cosa farai? - chiese senza osare guardarlo.
- Il mio posto è su questa nave, comandante, se non hai obiezioni.
- Pensi davvero che potrei averne? - domandò, sinceramente stupita.
- Non credo di avere più punti di riferimento certi - fu la risposta scoraggiante.
“Me la sono cercata...” ammise Shepard, sentendosi ancora peggio.
- Quando ti ho spedito quel messaggio pensavo che fossi il nuovo Primarca... - provò a protestare debolmente.
- La nomina, da sola, non avrebbe giustificato quelle tue frasi - fu la replica gelida.
Lo fissò, sorpresa da quanto la conoscesse - Il ruolo di moglie mi si addice meno di quanto il ruolo di Primarca si addica a te, Garrus - confessò sinceramente.
- Non capisco.
- Non so gestire una casa: non voglio passare il mio tempo a lavare, mettere le cose in ordine o cucinare e l’idea di dovermi occupare di eventuali figli mi terrorizza. Potrei imparare, certo - ammise - ma finirei con l’odiare quella vita, me stessa e alla fine odierei anche te - concluse in tono sicuro, che non ammetteva repliche.
Cominciò a camminare nervosamente per la cabina - Posso combattere al tuo fianco, tenerti addosso i miei scudi biotici maledicendoti se rischi la vita come un idiota, posso caricare mutanti e polverizzarli con una nova e posso perfino uccidere un Razziatore. Ma non voglio imparare a diventare una brava moglie, voglio restare me stessa.

- Il tuo concetto di moglie è paragonabile a un drone per le pulizie - obiettò Garrus, interrompendo quel fiume sconclusionato di parole. Non erano solo le parole a essere prive di logica, era Shepard stessa a comportarsi in modo insolito. Non la riconosceva. Ma neppure lei si riconosceva, di questo era certo. Stava parlando sotto l’effetto delle emozioni, senza provare a ragionare.
- Casa tua è la Nomandy e non lucidi i suoi ponti - le fece notare, abbandonando la tenue speranza di comprendere il significato del matrimonio in uso fra gli umani - Non ti farei mai mettere le mani sulla mia armatura e tanto meno sui miei fucili, come ben sai. E figli dubito che potremo mai averne, a parte il fatto che ci vorrebbe un bel coraggio a diventare genitori, con la vita che facciamo… - concluse, continuando a sentirsi a disagio perché, per una volta, non riusciva a comprendere quella strana aliena che gli stava di fronte: quei pochi centimetri di distanza sembravano migliaia di anni luce.
- Non so se ci sia altro da chiarire - ammise con stanchezza - Non ti capisco. Non so cosa tu voglia veramente. Credo che neppure tu lo sappia.
- Un matrimonio fra turian ha un significato diverso?
- Ma diverso da cosa? - esplose lui, per la prima volta palesemente arrabbiato - Da quello che ha per voi umani? Io non vi conosco e la voglia di conoscervi mi è passata del tutto in queste ultime ore. Mi sembrate insensati. Non riesco a capirti.
“E io non ho capito te: adesso sono certa di questo. E sono terrorizzata dalla possibilità che te ne vada” realizzò improvvisamente, mentre impallidiva nel vederlo prendere la borsa con una mano.
- Per favore... - sussurrò soltanto, fissando quelle dita che si stavano chiudendo sulla cinghia. Lo vide alzare la borsa solo per appoggiarla sul letto e aprirla. Trasse un sospiro di sollievo talmente rumoroso che Garrus si girò a fissarla con vero stupore, prima di borbottare qualcosa nella sua lingua in tono irritato.

Lo osservò rovistare al suo interno, tirare fuori una bottiglia e versare un dito del vino di Palaven in un bicchiere. Poi lo vide prendere la bottiglia del suo vino preferito e versarne un dito in quello stesso bicchiere, per poi chiederle - Sapresti separarli?
Scosse la testa in silenzio.
- Questa è una coppia turian dopo la promessa di impegno reciproco. Matrimonio o meno, per noi una promessa significa questo. E’ semplice, ma anche complesso. Non c’è altro. Non capisco cos’altro dovrebbe cambiare o perché. Ma sei un’umana...
- Ho provato a separare i due vini con quel messaggio - ammise - Ma l’ho fatto perché non avevo capito. Tu ora stai facendo lo stesso, ma in piena consapevolezza - lo accusò poi, con voce irritata.
La fissò interdetto: fra tante reazioni che si sarebbe aspettato, quell’attacco lo aveva colto di sorpresa. E, conoscendola, era l’anticipo di un affondo più deciso.
- E non ti permetto di trattarmi come un’umana qualunque - sillabò infatti lei - Io sono io: Comandante Trinity Shepard, Marina dell’Alleanza - affermò con orgoglio - e se mi avessi spiegato cosa voleva dire il matrimonio per te, invece di darlo per scontato, ora non saremmo in questo casino! - sbottò con rabbia.

- Per favore - ripeté ancora, cambiando completamente tono e accoccolandoglisi davanti sul pavimento - non lasciarmi qui da sola a pensare a cosa ho combinato.
Avrebbe voluto sovrapporre le sue mani sulle sue, stringergliele con forza, fissarlo negli occhi e appoggiare le labbra sulla sua bocca. Sapeva che, se davvero ci avesse provato, quasi certamente lui l’avrebbe scansata o sarebbe addirittura rimasto indifferente e lei non poteva affrontare quel rischio.
- Possiamo riprendere da prima che leggessi quello stupido messaggio? - chiese con voce incerta, spezzata dall’ansia.
- Mi sento... insicuro. Per una volta non ti capisco - fu la risposta sincera che le fece molto più male di un rifiuto sdegnato.
- Non sono ancora i nostri vecchi tempi? - domandò, piena di speranza - Non sarà facile: io farò altri disastri, lo sappiamo entrambi. Però potremmo almeno provare, non possiamo arrenderci.
- Devo riuscire a capire - la interruppe - Ho bisogno di un posto tranquillo dove pensare.
- Abbiamo affrontato battaglie più difficili di questa - lo incoraggiò.
- Non lo so - rispose Garrus stancamente, prima di alzarsi.

Non lo trattenne, né con un gesto e neppure con una frase. Non sarebbe servito.
Aspettò che lui uscisse dalla cabina e poi si diresse in infermeria.
- Dammi qualcosa che riesca a non farmi pensare. E’ un’emergenza, dammi qualcosa che funzioni davvero - ordinò alla dottoressa che le lanciò uno sguardo incuriosito, nonostante l’aria assonnata - No, non puoi farmi nessuna domanda - aggiunse poi, appena la vide schiudere le labbra.
Ingoiò le pillole strada facendo e si rese conto che si sarebbe addormentata prima ancora di riuscire a spogliarsi. Si buttò sul letto così come si trovava.

Sognò Garrus che la chiamava con il suo nome di battesimo e sentì che le si spezzava il cuore, mentre le lacrime le inondavano il viso e la voce restava ostinatamente muta. Non riusciva a raggiungerlo o a toccarlo, non riusciva a trattenerlo nelle sue braccia che erano troppo pesanti. Lo vide scomparire, come risucchiato da un vortice.
Poi solo il silenzio e il vuoto. Senso di perdita. Disperazione. Ancora lacrime, singhiozzi che si spezzavano. Dolore, tanto... troppo.
“Ti avevo chiesto di non farmi pensare” ricordò con disperazione, incapace di rievocare il volto della dea a cui aveva rivolto quella preghiera che era stata respinta. Nessuno ascoltava mai le sue suppliche.
- Ti avevo chiesto di lasciarmi andare - urlò con rabbia contro Kalahira.
- Lo so - le parve che rispondesse quella dea dalla voce profonda come il mare. Poi le onde dell’oceano le lambirono il volto, asciugandolo dalle lacrime, e racchiusero le sue membra, conducendola in salvo in una grotta tiepida e profonda in cui si sentiva al sicuro.

Si svegliò all'improvviso, quando la manovra di cambiare il fianco su cui dormiva le risultò difficile. Prese coscienza di dove fosse e di chi la tenesse fra le braccia senza aprire gli occhi. Smise di muoversi, senza rendersi conto di aver smesso di respirare, fino a quando dovette farlo per forza, con una inspirazione dolorosa.
- Stai bene?
- Non lo so... ho paura di svegliarmi...
- Mi hai fatto preoccupare quando sono entrato qui stanotte. Sembravi delirare. Ho dovuto chiamare la dottoressa. Vorrei che la smettessi di spaventarmi...
- Sarebbe meglio se la smettessi di farti del male...
- Non so a chi ne fai di più - osservò Garrus, passandole le dita fra i capelli.
E fu quel gesto affettuoso e quel tono gentile a scatenare una crisi di pianto inconsolabile.

- Spiriti! Ora basta! La devi piantare, Trinity... Hai pianto un’ora almeno, stanotte, senza che riuscissi a farti smettere.
- Mi dispiace.
- Non mi importa un accidente che ti dispiaccia. Smetti immediatamente - le ordinò girandola in modo da poterla guardare in faccia - Vatti a lavare via quelle dannate lacrime. Poi parliamo.
Quando tornò in stanza trovò Garrus seduto sul letto, con la schiena contro il cuscino che aveva messo in verticale, appoggiato alla spalliera. Gli si sedette accanto e lui la alzò come fosse una bambina, se la mise a cavalcioni e piegò le gambe dietro la sua schiena.
- Mi piace - osservò lei con un sorriso - E’ comodo e rassicurante.
- Di cosa hai paura, Trinity? - le chiese lui senza lasciarsi distrarre dalle sue parole.
- Paura... come paura?
- Ti comporti in modo assurdo. L’unica spiegazione ragionevole è che hai paura di qualcosa. Dimmi di cosa.
- Non lo so...
- Cosa non potresti sopportare?
- Non lo so.
- Di cosa avevi paura mentre parlavamo?
- Non voglio che te ne vada. Ho bisogno di te. La Normandy... senza te a bordo non è più la Normandy - rispose immediatamente. Nascose il viso contro il petto del turian, passando le braccia dietro le sue spalle e stringendolo talmente forte che lui imprecò soltanto, senza provare neppure a scansarla, per evitarle ferite peggiori.
- Piantala - le ordinò - Per gli Spiriti! Togliti di dosso!

Fissarono entrambi le braccia da cui il sangue colava e finiva sulle lenzuola.
- Mi dispiace... - sussurrò, temendo che lui si fosse arrabbiato.
- Non sono Kaidan. Non sono neppure umano. Non puoi aver paura che me ne vada - affermò Garrus con sicurezza, distogliendo lo sguardo dalle braccia e fissandola negli occhi.
- Cos’altro pensavi? - ripeté.
Scosse la testa con sicurezza - Non c’è altro.
- Pensi davvero che potrei andarmene?
- Ieri lo hai detto.
- No, non è vero. Ma avevo bisogno di capire. Ieri eri tu a non volermi.
- E’... uguale.
- No. Non è uguale.

Where do you think you’re going?




Restarono in silenzio per un po’, senza guardarsi, isolandosi per trovare il bandolo in tutta quella matassa ingarbugliata.
- Non è uguale. Lo sai benissimo - ripeté, prendendole il mento fra le dita di una mano - Però forse ho capito - affermò improvvisamente, mentre la spostava per alzarsi.
Andò in bagno a prendere del medigel, poi tornò a sedersi sul letto e le disinfettò le braccia con gentilezza. Era più una sorta di carezza lenta e delicata che una vera e propria medicazione. La fasciò con delle bende che le avvolse in lunghi giri attorno agli avambracci. Ci mise un bel po’ di tempo, mentre continuava a rimuginare nella mente un pensiero che voleva esprimere in modo chiaro.
Quando finì, le prese i polsi e avvicinò il viso al suo - Tu non hai paura di quello che io posso fare. Hai paura di quello che tu puoi fare - la accusò con sicurezza - Non sai gestire la paura, ci anneghi e reagisci con il puro istinto. Come un insetto impazzito che sbatte contro i vetri chiusi di una finestra che è solo un miraggio alla sua libertà.
- No, non provare a piangere - l’avvertì vedendo che gli occhi le si inumidivano - Non c’è proprio nulla di cui piangere. Fammi finire.
- Non ti permetterò di andartene. Hai capito? - sillabò lentamente, calcando bene le parole, come se gliele volesse incidere nella mente. Le strinse più forte i polsi, fino a quando vide una smorfia istintiva di dolore e riprese a parlare - Non ti lascerò fare altre stupidaggini. Tu non andrai da nessuna parte senza di me, né io senza di te, per quanto impegno potrai metterci.

Rise divertito, respingendola, perché si era preparato a rifiutare quel tentativo di abbraccio colmo di gratitudine e di sollievo che lei tentò appena lui smise di parlare.
- Per oggi ti sei tagliata abbastanza - le sussurrò avvicinando la bocca alle sue labbra e poi tirandosi indietro, concedendo che si sfiorassero appena.
Continuò a lasciarsi sfiorare appena la bocca, il collo e gli occhi, ad accarezzare lievemente la pelle morbida del viso di lei e a imporle allontanamenti forzati, in una successione lenta e fluida di avvicinamenti e separazioni fino a quando la sentì tremare per il desiderio.
Le liberò i polsi, godendosi la scena di quelle dieci dita impazienti che, appena sciolte, cominciarono ad aprirgli freneticamente i fermagli dell’uniforme, poi la imitò immediatamente.
In pochi secondi si trovarono spogliati e abbracciati in un viluppo di braccia e gambe, mentre le loro bocche si scambiavano baci come bevessero l’uno dall’altra dopo una lunga giornata nel deserto.

Era appena l’alba quando ritrovarono un respiro pacato, ridacchiando come due bambini che avessero combinato una marachella in segreto, eludendo la sorveglianza dei genitori. Ammirarono soddisfatti il disordine sovrano che regnava nella stanza, in ricordo dei tanti appoggi che avevano utilizzato quella notte per smorzare il desiderio reciproco.
Sembrava che, dopo la nova, fosse passato anche un piccolo ciclone che avesse messo fuori posto ogni suppellettile e avesse spostato perfino i mobili. Shepard si rannicchiò fra le sue braccia, appoggiandogli la testa contro il petto e ascoltando il battito lento e costante del suo cuore. Lui mormorò solo - Trinity - prima di stringerla forte, affondando il naso fra i capelli ancora corti.
- Spiriti! Quanto mi mancava tutto questo - confessò Garrus, ridacchiando, prima di abbassare la bocca sul collo di lei per assaporare il gusto della pelle tenera e delicata sotto l’orecchio. Le mordicchiò il lobo e la strinse fra le braccia fino a quando Shepard lo fermò ridendo.
- Anche a me piacerebbe rifarmi del tempo perduto, ma voglio fare una cosa. Adesso e con te. Rivestiti - lo incitò cominciando a indossare la biancheria.

Lo prese per mano e lo condusse verso l’ascensore. Selezionò il pulsante numero 2 e lo portò con sé, sempre tenendolo per mano. Attraversò la sala tattica e si fermò sul ponte, ancora deserto a quell’ora del mattino.
Qui si fermò e rimase in piedi, dietro la poltrona vuota di Joker, con lo sguardo oltre le grandi vetrate, a fissare le stelle che si muovevano appena, mentre la nave si lasciava trascinare pigramente intorno all’orbita di un piccolo pianeta. Continuò a stringere forte la mano di Garrus, fino a quando lui capì che era semplicemente quello il suo desiderio. Ricambiò la stretta in silenzio, poi la avvicinò a sé, cingendole la vita con il braccio sinistro. Lei rise brevemente, appoggiò il viso contro la sua spalla e gli passò il regalo di Kasumi, che si trovava ancora nella tasca dell’uniforme.
Il turian guardò con sorpresa le due figure abbracciate, poi sorrise, continuando a cingerle la vita con il braccio e a guardare le stelle lontane.

Forse sarebbero rimasti così altri lunghi minuti, magari sarebbero rimasti a godersi quello strano momento di felicità unica e genuina fino a quando Joker avesse ripreso il suo posto, invece entrambi sussultarono non appena intravidero un debole bagliore bluastro baluginare sulla consolle alla sinistra del sedile del pilota.
Si guardarono un istante con espressione stupita, riconobbero un’identica speranza balenare negli occhi che stavano fissando, e filarono immediatamente verso il nucleo della IA, facendo una sorta di gara spensierata per vedere chi riuscisse ad arrivare prima.
Evitarono di misura di travolgere Kal’Reegar che incrociarono appena dietro la porta che immetteva sul ponte, risero brevemente scusandosi, e seguitarono a correre come due ragazzini all’uscita dalle lezioni nell’ultimo giorno di scuola.



Note
Il titolo me l’ha ispirato andromedahawke e la sua dannata filosofia (che io in realtà ho sempre odiato). E a lei lo dedico con un abbraccio forte.
  
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