Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: IoNarrante    20/08/2013    11 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Capitolo 21
betato da nes_sie 

Mi ero appena abituata alle lamentele di mia madre e al fatto che cucinasse per un esercito in preparazione di una battaglia, che per noi arrivò il momento di tornare a Londra. Simone quasi non volle credermi.

«Ma dobbiamo proprio?» mi chiese con il broncio.
Annuii decisa, cominciando a preparare la mia valigia. Sapevo perfettamente che dopo mi sarebbe toccato preparare anche la sua, visto che Mr. Fatichello non si sarebbe scomodato nemmeno se gli avessi messo delle braci ardenti sotto il deretano.
«Sì che dobbiamo. Forse tu non ricordi, ma io sono il tuo avvocato e dovrei guadagnarmi il posto come socio dello studio risolvendo il tuo caso di dubbia paternità. O sbaglio?» puntualizzai.
Simone abbassò la testa mogio, torturandosi le labbra con i denti.
A dirla tutta, rifugiarsi per qualche giorno a casa non era stato così terribile. Mia madre a parte, avevo rivisto Mario ed ero riuscita ad evadere un po’ da quella realtà londinese che mi soffocava.
Diciamo che James mi aveva fatto un grande regalo.
James.
Scacciai via quel nome dalla mia mente come una vespa fastidiosa. Cercavo di fuggire da quella realtà ormai da tempo, eppure più mi si ripresentava davanti e più mi comportavo da codarda. La notte di Capodanno era ancora vivida nei miei ricordi, ed anche il discorso che mi aveva fatto la madre di James.
Io non appartenevo a nessuno dei due mondi, né a quello ricco e altolocato di James, con le loro feste, i loro incontri e i loro saloni da ballo; né a quello di Simone, fatto di fama, di paparazzi e di continue fughe verso una realtà che non facesse il giro del mondo su dei giornali da qualche sterlina.
«Hai preso tutto, tesoro?»
Fu mia madre a svegliarmi da quei brutti pensieri, chiedendomi – ancora una volta – se fosse tutto a posto. Da quella stessa mattina si era chiusa in cucina per prepararci un pranzo a portar via, dato che quello sull’aereo, per sua convinzione, era poco salutare e sicuramente non appetitoso come qualcosa cucinato con otto chili di burro…
«Certo, ho quasi finito,» le risposi.
Simone era seduto sul mio letto, con le gambe che stranamente ciondolavano dal materasso. Sorrise a mia madre e lei parve quasi arrossire.
«È un vero peccato che dobbiate andare così presto…» insistette, rimanendo sulla soglia.
«Purtroppo Ven deve tornare a lavoro,» rispose il calciatore, anticipandomi. Rimasi sorpresa dal suo tono piuttosto deciso, avevo contato che mi implorasse di rimanere lì, magari facendo leva sui miei genitori.
Per quanto amasse Londra e la sua squadra, sapevo bene come ci si sentiva così lontani dalla propria casa, dai doveri e dalle responsabilità che avrebbe dovuto affrontare una volta tornati nella capitale inglese.
Mia madre annuì. «Capisco,» e si asciugò le mani sul grembiule. «Spero proprio che quest’estate abbiate qualche giorno libero per tornare. Io e il papà di Ven vi aspettiamo anche senza preavviso. Prendete il primo aereo e venite qui. Le stanze non ci mancano in questa grande casa sempre troppo vuota.»
Mi si strinse il cuore a vedere mia madre così. Le avevo sempre detto di desiderare altro nella vita, di stabilirmi in un’altra città, una metropoli, così da costruirmi una carriera degna dei miei studi, e lei non si era mai opposta a questo mio desiderio. Eppure, adesso capivo quanto lei e mio padre si sentissero soli nella magione. Essendo figlia unica, li avevo lasciati da soli per inseguire la mia carriera altrove.
Non dovresti sentirti in colpa… stai inseguendo il tuo sogno.
Sì, era vero. Ma stavo anche sbagliando, visto che frequentavo uno dei miei clienti senza alcun riserbo per l'etica professionale.
La mia vita stava diventando sempre più ingarbugliata e di certo Simone non mi aiutava a mantenere quel compito piuttosto facile. Il fatto che mi fossi invaghita di lui, era piuttosto strano, dato il mio difficile gusto in fatto di uomini.
Purtroppo Simone non era uno dei tanti, e prima facevo i conti con questa cosa, prima mi sarei messa il cuore in pace.
«Certo, verremo di sicuro,» la rassicurò Simone con un sorriso.
Mia madre tornò ai suoi impieghi canticchiando, piuttosto allegra, ed io lanciai uno sguardo eloquente a quel ragazzino dalla lingua troppo lunga.
«Che c’è?» sbottò infastidito, allungandosi sul materasso come una pelle d’orso.
Sbuffai. «Non puoi promettere una cosa che non sai mantenere…» gli dissi piccata. «Così illudi solamente le persone, ed è quello che sai fare meglio, dongiovanni.»
Simone assottigliò quei grandi e intensi occhi neri. «Non so chi sia questo Giovanni… però non sto illudendo nessuno. Sono stato davvero bene qui dai tuoi, e vorrei tornarci.»
In quel momento il mio cuore fece una dolorosa capriola in avanti e fui costretta a prendermi qualche minuto per riordinare le idee. Mancavano sei mesi a Giugno, all’estate, e alla promessa di tornare giù a Tivoli, eppure lui non si era posto minimamente il problema del “saremmo stati ancora assieme”. Aveva acconsentito, punto.
Non sapevo se prenderlo come un buon segno, una dimostrazione di impegno per il futuro, oppure semplicemente una cosa detta senza pensare.
Opterei più per la seconda…
«Mh,» commentai. «Sai già che da qui a sei mesi noi ci vedremo ancora?» gli chiesi, forse un po’ troppo bruscamente.
Avevo tirato fuori di nuovo il mio “tono da avvocato”, quello inquisitorio che in genere faceva fuggire tutte le persone che interloquivano con me. Non era colpa mia, in fondo quella professione mi calzava a pennello.
Simone mi guardò serio, stringendo le labbra in una linea dura. «Non lo so,» ammise, e quella confessione mi fece più male di quanto avessi programmato in precedenza. «Però magari farò un salto qui, giusto per salutare i tuoi genitori.»
Rimasi sorpresa, tanto che mi si smorzarono tutte le parole in bocca. Da una parte mi ero aspettata una risposta del genere, dall’altra mi ero così abituata ad averlo intorno notte e giorno che immaginarmi di nuovo nel mio mini-appartamento subaffittato mi stringeva il cuore in una morsa.
Finii di preparare la valigia senza rispondergli, ma intanto pensavo a come avrei affrontato la cosa una volta che quel caso giudiziario fosse stato risolto. Avrei lasciato l’appartamento di Simone, sarei tornata alla mia vecchia vita di prima, senza tutto quello, ai miei impegni, al mio libro del sabato sera e a quella segreteria abbandonata sul comodino.
Anche se era dura ammetterlo, la convivenza forzata con Simone aveva riempito le mie giornate da cinquantenne single prematura, sostituendo cene fredde riscaldate al microonde con pasti non troppo elaborati ma consumati in cucina, con il rumore di sottofondo della televisione e la sua voce che imprecava contro il telecronista di turno.
Eventi quotidiani che a dirla tutta mi sarebbero mancati.
«Bene, sei pronta?»
Riemersi dai miei pensieri scuotendo la testa. «Per cosa?» gli chiesi.
Simone sorrise e indicò il corridoio. «Ti aspetta un’altra bella valigia da preparare, su!» gongolò soddisfatto.
Per poco non gli lanciai una delle mie scarpe. «Non sono la tua schiava!» sibilai contrariata.
Il calciatore mi si avvicinò malizioso, gattonando sul letto. «Ammettilo che non vedi l’ora di rovistare tra le mie mutande…»
Roteai gli occhi al cielo e lasciai la stanza, cercando di sopprimere la voglia che avevo di ucciderlo.
 
I posti che ci avevano assegnato sul volo di ritorno, erano piuttosto scomodi e stretti. Anche se l’aereo era di linea, e non uno di quei voli low-cost dove avevi le ginocchia in gola, mi sentii scomoda comunque.
Avevamo salutato i miei genitori prima di pranzo, e mia madre ci aveva consegnato una valigia di manicaretti che avrebbero sfamato metà della popolazione del terzo mondo.
«Pensi che al ceck-in ce li faranno passare?» mi aveva domandato Simone dubbioso.
Io avevo guardato prima lui, poi il trolley stra-colmo di roba da mangiare. «Questa è una bomba batteriologica, altro che cibo.»
E, infatti, il poliziotto che ci controllò il bagaglio a mano rimase piuttosto perplesso riguardo al carico. Ci fece un po’ di domande e lo vidi parlottare ridacchiando con i suoi colleghi. Ovviamente mia madre non la smetteva di farmi fare figure di merda anche quando non era presente.
Continuai a muovermi senza trovare pace sul sedile del boeing.
«La finisci? Sto traballando da dieci minuti, nemmeno fossi nell’idromassaggio…» borbottò subito Simone, che poi finse di ignorarmi quando la hostess di volo giunse per assicurarsi che avessimo le cinture allacciate.
Il comandante annunciò la partenza in perfetto orario, dall’aeroporto di Fiumicino in direzione di Heatrow, Londra.
A dire al verità, ero un po’ nervosa.
Sentivo come una pressione all’altezza del petto, un peso che ero riuscita a spostare durante quei giorni di “vacanza” ma che adesso dovevo tornare a sollevare.
Si tratta di lavoro.
Oppure di James.
Magari del lavoro e di James, conclusi.
«Non avevi gli allenamenti in questi giorni?» chiesi, una volta superato il momento del “allacciare le cinture di sicurezza”.
Simone scrollò le spalle e sbocconcellò alcune noccioline. «Più o meno.»
Roteai gli occhi al cielo. Era impossibile ottenere una risposta coerente da uno come lui, eppure avrei dovuto farci l’abitudine, oramai.
«Ho sentito dire che il campionato inglese non si ferma per le vacanze,» chiarii subito.
Era un’informazione che avevo assorbito per osmosi.
Una di quelle notizie che non mi interessavano minimamente e che avrei fatto meglio a dimenticare al più presto, ma che mi era entrata nel cervello magari ascoltando una radio, oppure leggendo il giornale distrattamente.
«Mh,» risposte il calciatore, ignorandomi.
Era stranamente interessato a lanciare sguardi ammiccanti verso la hostess. Sia all’andata che al ritorno, aveva fatto lo scemo con le assistenti di volo…
E tu continui a smollargliela.
Non era mia la colpa se avevo una Iolanda dotata di vita propria!
«Almeno datti un po’ di contegno, cielo!» sbraitai inacidita, aprendo la rivista che era in dotazione nell’aereo e sbatacchiandola rumorosamente.
Eravamo tornati all’odierna routine. La fuga dalla realtà mi aveva fatto bene, dovevo ammetterlo, ma era come se avesse trasformato Simone ai miei occhi, facendolo apparire diverso dal solito. Avevo dimenticato quanto potesse essere irritante.
«La gelosia è una brutta cosa,» commentò lui, sghignazzando.
«Non sono gelosa,» precisai. «Solo dovresti evitare di fare piazzate di questo tipo. Sei pur sempre una persona famosa, dovresti dare il buon esempio.»
La cazzata del secolo.
Non me ne fregava un accidenti di cosa pensasse la gente di Simone Sogno, mi importava solamente che la smettesse di civettare con quella arpia ossigenata. Ovviamente non lo avrei ammesso nemmeno sotto corte marziale.
«Come vuoi…» tagliò corto lui. «Stasera ho voglia di frittelle, me le prepari?» chiese, di punto in bianco.
Lo fissai furente. «Sei almeno consapevole di sfidare la mia pazienza, o lo fai di proposito? Non ti cucinerò niente, né stasera, né mai. Devo lavorare, perciò conta pure su te stesso, mio caro, oppure muori di fame!» e incrociai le braccia al petto, stizzita.
Quel gesto decretava la fine della conversazione.
Simone sbuffò e tirò fuori il telefono, giocando con qualche applicazione.
Dopo un po’ lo vidi sghignazzare.
«Che c’è?» ringhiai, furiosa.
Ridacchiò, poi si lasciò scivolare lungo la poltrona, fino a che le ginocchia non toccarono il posto di fronte. Soltanto in quel modo il suo viso si trovò pericolosamente vicino al mio.
Il suo naso si fece sempre più vicino, strusciandosi dolcemente sulla mia tempia.
Non avevo la forza di guardarlo. Dovevo mantenere la “facciata” arrabbiata.
«Adoro vederti gelosa di me…» soffiò malizioso, facendomi rabbrividire.
«Ti ho detto ch-…»
«Lo so, ma adoro lo stesso questo tuo non-essere-gelosa.»
 
Riabituarsi all’andirivieni londinese non fu affatto facile i primi giorni. Premesso che ero abituata a svegliarmi più tardi delle 7.30, la mattina sembravo sempre uno zombie.
«Le chiavi!» mi avvertì Simone, prima che uscissi dimenticandomele.
«Grazie, a stasera!» gridai uscendo.
Mentre mi incamminavo verso la fermata della metro, mi venne da ripensare a ciò che gli avevo detto. Gesù, suonava così scontato.
Una frase da coppietta sposata o convivente.
Tesoro, a stasera!
Rabbrividii.
Sul lavoro andò meglio. Yuki a parte. Era sempre pronta a stuzzicarmi e a rigirare metaforicamente il dito nella piaga in qualsiasi occasione le capitasse a tiro.
Soprattutto in presenza di Mr. Abbott.
«Jamie mi ha detto che ti ha quasi costretta a tornare a casa per le vacanze. Come sei stata? Ti confesso che amo l’Italia, ma non sono mai andato…» mi sorrise l’uomo.
Arrossii, soprattutto perché James gli aveva parlato di me. In privato.
«Sono stata bene. Diciamo che ci voleva una vacanza,» risposi cordiale.
Mr. Abbott mi sorrise e mi strinse una spalla, delicatamente. «Ora sarai pronta a rimetterti in carreggiata.»
Dovevo ammettere che tutto sommato non mi dispiaceva essere tornata. Per quanto quella gita a Tivoli mi avesse fatto capire che la mia famiglia sarebbe sempre rimasta parte della mia vita, così come Mario, ormai quella era la realtà in cui vivevo.
Avevo il mio capo, il mio partner e i miei colleghi. Simpatici o meno che fossero.
«Dunque sei sparita per una settimana,» constatò Yuki.
Mi voltai fulminandola. «Vedo che sai contare.»
SDANG! Colpita e affondata.
Gli occhi a mandorla si assottigliarono ancora di più. «Ovvio. Spero soltanto che anche tu ti sia fatta due conti, perché non potrai essere una tirocinante a vita.»
Mi lasciò a rimuginare su quella sua insinuazione, riguardante soprattutto il mio futuro che era appeso ad un filo. Se non avessi risolto il caso di dubbia paternità, la possibilità di essere assunta in quello studio legale svaniva come fumo tra le dita.
Dovevo impegnarmi al massimo in quegli ultimi mesi.
«Sono felice di rivederti.»
Quello che davvero non mi aspettavo, o meglio, con cui non avevo ancora fatto i conti mentalmente, era rivedere James.
Lo stesso uomo che era diventato prima mio collega, nonché mentore, dopodiché si era instaurato una sorta di legame tra di noi, ma destinato ad assopirsi, mentre adesso ci ritrovavamo a condividere qualcosa che stava nel mezzo.
Una cosa a cui ancora stentavo a dare un nome.
«Anche io,» ammisi imbarazzata.
Jamie era forse ancora più bello di quanto ricordassi.
«Sei stata bene? I tuoi come stanno?» s’informò, cordiale come sempre. Era meraviglioso il modo in cui domandava discretamente le cose, cercando sempre di essere poco invadente.
Sorrisi spensierata. «Tutto bene. È stata una vacanza perfetta.»
Quando mi aveva dato quel biglietto d’aereo, assicurandosi che staccassi la spina per un po’, gli avevo chiesto di venire con me. Non lo avevo implorato, certo, ma lui aveva rifiutato.
Poi ero andata da Simone.
Quel pensiero mi fece tremare impercettibilmente.
«Ho provato a contattare Mr. Sogno, ma suo fratello mi ha comunicato che era partito per qualche giorno. Tu ne sai qualcosa? Spero solo non si sia messo in qualche altro guaio…» rimuginò.
Non sapevo se si trattasse di una sorta di test o meno. Mi sembrava parecchio strano che James fosse così ingenuo e non avesse pensato a farsi due conti.
Decisi che era meglio optare per la verità. «Mr. Sogno è venuto con me, a Tivoli. L’ho tenuto d’occhio tutto il tempo, non preoccuparti,» sorrisi.
Cercai di farla apparire come una gita normale e innocente, ma James rimase perplesso.
«Ti sei portata il lavoro a casa, dunque,» ironizzò, tornando apparentemente alla normalità.
Mi sentivo dannatamente in colpa, anche se non avrei dovuto esserlo.
C’era un confine netto tra ciò che io, James e Simone rappresentavamo l’uno per l’altra, in questo triangolo strano e incasinato. Nessuno di noi l'aveva messo in conto.
Anzi, tra me e James si era risolto tutto piuttosto chiaramente.
«Non pensare male…» tentai di dissuaderlo, ma Jamie mi sorrise.
«Tranquilla,» mormorò. «Mi fido di te.»
Diciamo che quella fu la stangata finale. Se qualcuno avesse dovuto sentirsi un pezzo di merda, quella era la sottoscritta.
 
La casa senza Celeste e Leonardo appariva sempre un po’ vuota. Era come se tutta l’energia che la mia migliore amica aveva impiegato per rendere quelle vacanze sempre più incasinate, fosse volata via improvvisamente, lasciando una casa anonima e vuota.
Simone era lo stesso di sempre.
«Come vanno gli allenamenti?» gli chiesi una sera, tre giorni dopo il nostro ritorno.
Lui lasciò andare il cucchiaio sorpreso. «Davvero ti interessa?»
Magari ero una persona un po’ acida, che si alterava per un nonnulla e spesso andava in escandescenze anche se non c’era un vero motivo di fondo, ma non ero mica un’arpia!
«Anche se il calcio fondamentalmente non mi interessa, questo non vuol dire che me ne debba fregare della tua giornata,» sibilai un po’ offesa.
Lo vidi sorridere. Sorridere veramente, stavolta. Senza alcuna ombra di malizia oppure di scherno.
«Bene,» commentò, riprendendo a mangiare la zuppa di fagioli. «Sebastian è convinto che qualcuno stia portando il malocchio alla squadra, e così se ne va in giro con cinque collanine al collo, vari cornetti della fortuna e si butta il sale dietro le spalle ad ogni occasione. Il mister pensa che sia esaurito, poraccio
Non potei fare a meno di sogghignare.
Avevo conosciuto il suo compagno di squadra in altre circostanze, quando ancora la storia tra me e Simone non poteva affatto definirsi tale. Non c’era nulla se non l’odio e il fastidio che provavo per lui, ancora presente dopotutto, ma affievolito da qualcos’altro.
Amore?
Che idiozia.
«E perché questo malocchio?» chiesi, senza bisogno di fingermi interessata.
Era da un po’ di tempo a quella parte che il silenzio di quella casa mi stava asfissiando, così ogni scusa era buona per fare un po’ di conversazione.
Simone finì la zuppa, tintinnando rumorosamente il cucchiaio sul fondo del piatto. «Alcuni nostri compagni si sono infortunati, poi metti anche gli errori arbitrali e le traverse che abbiamo preso… Sebastian ha subito pensato a qualcosa che ha a che fare con il karma, ma io non do peso a queste stupidaggini,» disse convinto.
In effetti, nemmeno io avevo mai dato peso al “destino”, anche se più volte mi era capitato di pensare a quante possibilità ci fossero che Simone diventasse il mio primo cliente.
Davvero poche.
«E l’avvocatuncolo?» chiese lui, di rimando.
Non capivo dove volesse arrivare. «Che vuoi sapere?»
Simone si alzò e posò il piatto nel lavello, afferrando la prima scatola di biscotti che gli capitasse sotto mano e trangugiandola, senza pensare a farmi vedere tutta la sua arcata dentaria.
«Fe fi fa ancora foffo!» borbottò.
Premesso che non erano affatto affari suoi, non avevo nulla da dire. Oltre il lavoro, io e James continuavamo a vivere un’esistenza separata. Forse ammettere di essermi portata via Simone aveva allentato maggiormente quel legame già lesionato.
«Siamo solo colleghi. Punto,» insistei, seria. «E poi non sono cose che ti riguardano.»
Mi alzai a mia volta, posando le stoviglie nel lavello e passando un po’ di sapone su una pezzuola.
Di punto in bianco avvertii le sue mani solleticarmi i fianchi e tentai di scacciarlo, con scarsi risultati ovviamente.
Il suo corpo si adagiò contro il mio, schiacciato sul lavello della cucina. Ogni sua forma combaciava perfettamente con la mia, come pezzi di un puzzle che si incastravano al primo tentativo.
Le sue dita lunghe e affusolate mi scostarono una ciocca di capelli da una parte, mentre le sue labbra si avvicinarono pericolosamente all’orecchio.
«Mi riguardano eccome,» soffiò, facendomi rabbrividire.
L’unico rumore nella stanza era lo scrosciare dell’acqua nel lavello e le mie mani completamente insaponate che non potevano muoversi senza imbrattare tutto di schiuma.
«Smettila,» lo pregai, ma con poca enfasi.
La realtà era che ormai la sua presenza non era più un fastidio. Mi ero abituata ad averlo intorno, a contatto, non mi infastidiva più il fatto che mi sfiorasse anche senza alcun secondo fine. Ed era la cosa che mi terrorizzava di più.
L’abituarsi ad una persona, era come ammetterlo nella propria quotidianità. Quando e se sarebbe andato via, la mia vita non avrebbe avuto più lo stesso sapore.
«Fino a prova contraria, stiamo insieme…» insistette, lasciando una piacevole scia di baci lungo il collo.
La pelle d’oca salì sugli avambracci, facendomi rabbrividire.
«Questo chi l’ha deciso?» lo provocai.
Alla fine nessuno di noi aveva messo dei paletti. Quello che era successo, era accaduto senza cognizione di causa, tanto perché doveva accadere. Non avevamo parlato, non avevamo deciso, non c’erano etichette nella nostra storia, se così si poteva chiamare.
Simone mi strinse i fianchi con possessione, strusciandosi piacevolmente sul mio sedere.
Potevo sentire la sua eccitazione crescere.
«Non c’è bisogno di decidere, è così e basta,» tuonò, forse un po’ troppo autoritario. Fu allora che decisi di chiudere l’acqua, asciugarmi le mani e allontanarlo.
«Sai che non è una buona idea, vero?» gli feci, mettendo una certa distanza tra di noi.
Sapevo bene che nella maggior parte dei casi, erano i nostri ormoni a parlare. Quella cosa dello “stare insieme” avrebbe funzionato a stento, tanto valeva chiarirsi prima.
Simone sbuffò sonoramente. «Con te è tutto un enorme problema, eh? Possibile che non possiamo goderci la vita e basta?»
Mi prese in contropiede questo suo accanimento. «Scusami, Mr. Padre Dell’Anno, se sono un po’ dubbiosa riguardo il tuo problema di “impegnarti”!» ringhiai furiosa.
Il calciatore mi fissò arrabbiato. Scosse la testa. «Sono stanco di provarci, basta. Tanto con te è sempre un rifiuto. Mi fai credere che ci sia una speranza, poi ti tiri indietro. Bene, allora vai da quell’avvocato da strapazzo e fatti scopare da lui invece di usarmi.»
Bene, da una conversazione tenera e amorevole si era passati alla litigata del secolo.
«James non è il tipo che pensi tu. Inoltre, io non ti ho usato! Semmai è successo il contrario, visto che dovevi tenere a bada gli ormoni,» precisai.
Lo vidi gettarsi di peso sul divano e accendere la televisione, quasi fossi trasparente.
«Molto maturo, davvero,» ringhiai.
Simone puntò quei grandi occhi neri, scuriti forse ancora di più dalla rabbia che provava nei miei confronti.
«Io non ti ho mai usata, che sia chiaro. Di te non posso dire la stessa cosa, dato che hai due piedi in una scarpa,» precisò, rigirando il dito nella piaga.
Quell’affermazione non fece altro che farmi infuriare ancora di più.
«Con te è inutile ragionare, buonanotte!» tagliai corto, fuggendo nella mia stanza.
Finalmente potevo sbattere la porta senza che orecchie indiscrete potessero giudicarci. Celeste non mi aveva detto nulla riguardo a Simone e all’impressione che le avevo fatto, ma di certo non era stupida. Persino i muri avevano capito che tra me e il calciatore c'era qualcosa.
Il problema era proprio quello: cosa c’era?
Mi stesi sul letto supina, guardando il soffitto e interrogandomi sugli eventi trascorsi. Era cominciata come una banalissima storia fatta di sesso e fin lì potevo anche starci.
Il vero problema era giunto dopo.
Avevo avuto molte scelte davanti a me, come James, la carriera, concentrarmi unicamente sul mio obiettivo di diventare socio dello studio… eppure, avevo sempre scelto Simone. In ogni singola occasione che mi era capitata a tiro, alla fine ero corsa da lui.
Non sapevo se questo si poteva tradurre in amore, o altro. Di sicuro era qualcosa che mai avevo provato prima, perché mi rendeva vulnerabile, confusa e arrabbiata più del solito. Era irritante il modo con cui Simone voleva necessariamente definirci.
A me bastava quello che eravamo, senza etichette.
Fidanzati? Amanti? Amici? Clienti? Non m’importava.
L’unico mio vero interesse, per quanto stupido fosse ammetterlo, era chiedergli ogni sera com’era andata la sua giornata. Aspettare con pazienza che arrivasse la Domenica oppure il Sabato per vederlo giocare alla televisione, anche se quando rientrava gli mentivo, dicendogli di essermi chiusa in stanza a lavorare oppure di aver visto un film scadente.
Sofia che mi telefonava quando suo fratello faceva un goal, infilandosi la mano sotto la maglia e imitando un cuore che batte, convinta che non fossi sintonizzata sul canale di Sky.
…e invece avevo esultato molto tempo prima.
Ti sei fregata, lo sai questo?
Forse sarebbe stato meglio ammetterlo a sé stessi, come primo passo. I problemi – gli altri – li avrei affrontati a tempo debito.
Mi raggomitolai su me stessa, dopo aver avvertito un brivido di freddo.
Cinque secondi dopo sentii il materasso inclinarsi da un lato e le braccia grandi e forti di Simo che cercavano di incastrarsi sui miei fianchi, attirandomi a lui.
All’inizio cercai di fare un po’ l’offesa, tanto per non dargliela vinta subito, poi però cedetti.
«Sei ancora arrabbiata per il fatto che non dovremmo stare insieme?» mi chiese, affondando il viso nell’incavo del mio collo e inspirando forte l’odore della pelle.
Ero di schiena ancora, e non mi sarei voltata per nulla al mondo. Troppo imbarazzo.
«Sai che non è per quello che mi sono arrabbiata.»
Lo sentii ridacchiare. «D’accordo, allora da oggi in poi non cercherò di etichettare quello che siamo. Ai miei amici dirò che vado a cena fuori con la mia coinquilina, che festeggerò San Valentino con l’amica della ragazza di mio cugino scemo, che faccio regolarmente sesso con il mio avvocato… quale scegli?»
La stupidità di Simone era contagiosa, così come la sua risata.
A quel punto mi voltai, perché era inutile resistere a quello sguardo da cucciolo che sicuramente aveva dipinto in faccia.
Simone allargò le braccia per farmi più spazio, stringendomi a sé. Lo guardai come se lo vedessi per la prima volta, dopo tutto quello che ci era successo.
«Non mi sei mai piaciuto, sai? Dalla prima volta che ti ho visto. Eri troppo presuntuoso, pallone gonfiato e immaturo. Tutto ciò che odiavo in un ragazzo,» cominciai, ricordando la prima volta a Londra con Celeste.
«Nemmeno tu mi sei stata simpatica,» aggiunse lui, baciandomi a tradimento. «Spocchiosa, acida e permalosa. Non sopportavo il modo in cui giudicavi la gente dall’alto in basso, solo perché eri laureata e saccente.»
In effetti, detta così non ci sarebbe proprio dovuta essere alcuna interazione tra di noi.
«Eppure…» cominciai.
«Eppure eccoci qui,» concluse Simone. «Non so cosa diavolo mi hai fatto, ma adesso ti trovo quasi sopportabile,» ridacchiò.
Gli mollai un bel pizzicotto sul braccio. «Solo quasi?»
«Ahi! Okay, okay, diciamo che sei sopportabile.» Si massaggiò la parte lesa.
Rimanemmo a fissarci per qualche minuto, incapaci di aggiungere altro. I tratti di Simone nel buio della stanza parevano ancora più elfici. La sua pelle bianca e liscia era come fatta di porcellana e cominciai a sfiorarla senza nemmeno accorgermene.
«Perché?» mi ritrovai a chiedere, scostandogli i capelli scuri dagli occhi.
«Cosa?»
Scossi la testa, sentendomi stupida. Avrei voluto chiedergli perché un calciatore di fama mondiale come Simone Sogno, che una volta risolto il caso avrebbe potuto avere ogni donna ai suoi piedi, perdeva tempo con me. Inoltre, mi odiava, lo aveva detto lui.
«Niente. Rimani qui stanotte,» gli dissi invece, sperando non insistesse sull’altro discorso.
Ero ancora troppo insicura di tutto quello per espormi, c’erano troppi “forse” che dovevano tramutarsi in certezze prima o poi.
«Va bene,» mi rispose.
Mi voltai di nuovo tra le sue braccia, dandogli la schiena. Ci incastrammo in modo quasi perfetto, infilandoci sotto la calda trapunta e chiudendo gli occhi. C’era ancora qualcosa di sbagliato che aleggiava nell’aria, come se avessi un qualche presentimento distruttivo, ma non sapevo dire cosa.
Ovviamente ancora doveva succedere il peggio.
 
***
 
«Ven, dobbiamo parlare.»
La voce di James quella mattina non era squillante come al solito, anzi. Appariva piuttosto preoccupato e mogio. Stritolai malamente i documenti che avrei dovuto fotocopiare, anche perché sentivo che c’era qualcosa che doveva dirmi.
Si trattava forse di Simone? Aveva scoperto la nostra tresca? Avrebbe detto tutto a suo zio per vendetta?
Che idee stupide.
Infatti, James era un galantuomo e sicuramente non avrebbe adottato queste bassezze per liberarsi di me. Mi avrebbe parlato, fatto ragionare e magari indotto a lasciare il lavoro di mia spontanea volontà.
«Siediti pure,» disse ed io mi preoccupai davvero.
«Cosa c’è? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiesi nervosa, forse un po’ troppo. Le parole mi uscirono a raffica dalla bocca, senza passare prima per il cervello.
Dovevo stare molto attenta a ciò che dicevo, ne valeva la mia integrità morale.
James stiracchiò un sorriso. «Non si tratta di te, tranquilla,» mormorò, tirando fuori un plico di fogli con lo stemma di una clinica ospedaliera privata. «Dobbiamo parlare del nostro cliente.»
Ero nel panico più totale.
Forse in quei giorni post-vacanza non avevo ancora recuperato del tutto. Mi erano sfuggite parecchie cose in ufficio, forse per distrazione o perché ero sovrappensiero…
…o perché il tuo cervello era rimasto attaccato agli addominali di un calciatore.
«Ci sono novità?» chiesi, intimorita.
L’avvocato sfilò uno dei fogli, voltandolo sulla scrivania e porgendomelo. «Purtroppo non sono buone come speravo,» concluse.
Fissai il foglio pieno di segni colorati, di sbarrette con diverse colorazioni poste in due tabelle differenti. Appariva molto come uno di quei documenti visti nelle serie televisive poliziesche.
«Leggi sotto,» mi indicò.
Velocemente i miei occhi arrivarono alle indicazioni finali, ma quando lessi il cognome “Cloverfield” associato a quello di Sogno, con un segno POSITIVE MATCH vicino, mi sentii svenire.
«C-Che…» balbettai, senza capire.
James si accorse che non mi sentivo tanto bene, così si avvicinò preoccupato. «Calmati, Ven, non è niente. Prima di Capodanno ho fatto fare a Mr. Sogno il test di paternità a questa clinica di fiducia, visto che non mi fidavo dei risultati portati in aula da St. James,» spiegò con calma e chiarezza. «Diciamo che mi sarei aspettato un risultato diverso, però non è stato così.»
Tornai ad osservare il foglio col desiderio di sparire seduta stante.
Non ci voleva un biologo o un medico per capire cosa significasse quel documento. «Il…» tentai di articolare le parole, ma non volevano uscire fuori.
James mi guardo costernato. «Il bambino è suo, sì. Il test di paternità è corretto e Miss Cloverfield ha tutte le ragioni per citare in giudizio il nostro assistito. Fino a prova contraria, se non troviamo una strategia adatta per lenire al minimo i danni, lei ha tutti i diritti del caso.»
Volevo morire.
A quel punto non mi importava nulla del caso, del mio tirocinio, del fatto che avremmo risolto o meno il caso. Volevo andarmene da lì e sparire. Adesso sarebbe cambiato tutto…
«Non ci ha detto la verità…» sussurrai, più a me stessa che a James.
Lui scosse la testa. «Non puoi dirlo. Mr. Sogno ha detto di non essere sicuro di come si erano svolti gli eventi quella sera. Si è confuso, può succedere,» mormorò in sua difesa.
Cercai i suoi occhi cerulei con disperazione. «È finita,» deglutii.
L’avvocato non riusciva a capire. «Troveremo un modo, vedrai. In fondo, ci saranno sicuramente dei cavilli giudiziari a cui potremmo appellarci per limitare i danni. Non permetteremo a St. James di avere la meglio, non può costringere il nostro assistito ad adempiere ai suoi doveri verso il bambino con il matrimonio.»
Il problema era uno solo: io non stavo parlando del caso.
«D-Devo riflettere…» mormorai confusa, sentendo dei giramenti di testa troppo forti.
«Attenta!» mi disse, vedendo che barcollavo.
Caddi tra le sue braccia con la sola voglia di piangere a dirotto, ma mi trattenni. Sapevo che non era colpa di Simone, che non avrebbe mai fatto una cosa del genere e poi sostenuto il contrario soltanto per pararsi il sedere. Era evidente che ci si era messo il destino di mezzo.
Eppure non potevo pensare ad altro che a noi. A come sarebbe cambiato tutto adesso.
«Scusami, vado a fare due passi,» dissi a James, che non la smetteva di fissarmi preoccupato.
«Vuoi che ti accompagni?» mi chiese, sempre gentile.
Scossi la testa e mi avviai verso il portone.
Sentivo il bisogno di stare per conto mio, senza nessuno che mi gironzolasse attorno. Lasciai il documento incriminante sulla scrivania di James e mi diressi lungo Regent Street a passo svelto.
Avrei voluto sedermi ovunque, anche sui gradini di una tavola calda, per poi scoppiare a piangere. Era strano che mi sentissi in questo modo, in fondo avrei dovuto aspettarmelo.
Un momento volevo urlare, quello dopo ridere istericamente. Per tutto il tempo che ero stata con Simone, in quella bolla di sapone chiusa al mondo esterno, era come se avessi vissuto in una terra parallela, dove non c’erano i problemi di tutti i giorni da affrontare.
Non mi era passato minimamente per la testa che il test di paternità potesse risultare positivo. Non mi ero posta alcun problema e, di conseguenza, nemmeno nessuna soluzione.
Presi il mio Blackberry e lo fissai come si fissa il vuoto.
Continuai a camminare fino a quando non raggiunsi Hyde Park, sedendomi sulla prima panchina disponibile e osservando le persone che pattinavano sulla pista ghiacciata al centro del parco.
Faceva ancora troppo freddo.
Mi rannicchiai su me stessa cercando calore, mentre i piccioni becchettavano qua e là alla ricerca di alcune molliche di pane.
Cosa avrei fatto adesso? Come mi sarei comportata con Simone?
L’idea di tornare a casa mi metteva ansia. Sentii vibrare il telefono e notai subito che il diretto interessato mi stava chiamando.
Lo ignorai.
Il mio monolocale era ancora in sub-affitto, anche se vuoto, ma l’idea di tornarmene lì da sola era ancora più triste che dover affrontare il calciatore. Avrei potuto anche chiamare Sofia, spiegarle tutto, farmi consigliare da lei… ma non ne avevo la forza.
Un bambino.
Simone sarebbe diventato padre. Avrebbe avuto un figlio da una donna la cui gamba sinistra era lunga tanto quanto la sottoscritta.
Il mio cervello si proiettò subito in un futuro immediato, dove la mia vita con Simone prendeva una piega quotidiana, nonostante lui dovesse dividersi tra me, il suo lavoro e il figlio a cui doveva badare.
O il matrimonio dell'anno tra Simone Sogno e giraffona Cloverfield.
No, non ci sarebbe stato alcun futuro per loro due.
«Dovevo aspettarmelo…» borbottai tra me e me, incastrando la testa tra le mani.
Hai chiuso fuori i tuoi problemi per paura di doverli affrontare.
Già, non ci vuole un genio per capirlo.
Era come se avessi accantonato quei particolari scottanti in un cassetti, lo avessi chiuso a chiave e mai più aperto, fino a quando non era esploso riversando tutto il contenuto su di me, quasi come un’onda in piena.
Il telefono squillò di nuovo. Stavolta si trattava di un sms.
 
ehi! che fine hai fatto?
sto preparando una specie di torta, ma credo somigli più ad un vulcano in eruzione. mi aiuteresti?
 
ps. mi manchi.
simonator.
 
Avrei volentieri schiantato il telefono contro un albero, ma mi trattenni. Sarei davvero stata capace di dividere Simone? Di lasciarlo andare? Ne ero in grado? Anche se la causa di dubbia paternità fosse stata risolta al minimo danno, ovvero con visite stabilite e gli alimenti pagati adeguatamente, sarei davvero riuscita a digerire tutto quanto?
Come sarebbe cresciuto questo bambino, poi?
Aveva una mamma – gnocca tra l’altro – un papà (anch’esso appetibile), e la fidanzata del padre che somigliava ad uno gnomo da giardino.
Volevo morire.
 
Non appena girai la chiave nella toppa, vidi Simone che mi attendeva nel salotto con un’espressione piuttosto sconsolata.
«Che è successo?» gli chiesi, tentando di rimanere impassibile.
Lui scrollò le spalle. «Si è ammosciata.» Indicò la torta che aveva assunto una forma concava piuttosto brutta.
«Hai aperto il forno durante la cottura?» mi informai, togliendomi sciarpa e cappotto.
Simone mi fissò come se mi avesse vista per la prima volta. «Hai pianto?» chiese preoccupato.
Non seppi davvero come fece ad accorgersene, ma il mio primo istinto fu quello di mentire. «Ma cosa dici?» ridacchiai, avvicinandomi alla torta. «Si può ancora recuperare. Basta tagliarla a metà e spalmarci della cioccolata. Vedrai che è buona lo stesso.»
Simone però non si fece distrarre, anzi, mi raggiunse e mi strinse forte.
«Smettila di dire cazzate,» mi ammonì severo. «Che è successo?»
Fu allora che sentii un groppo alla gola esplodere. Tentai di fermare le lacrime, davvero, ci provai. Feci appello a tutte le mie forze, ma una riuscì a rotolare giù lungo la guancia, bagnandogli le dita.
«S-Sono arrivati i risultati del test…» smozzicai, insicura.
Non volevo farmi vedere così debole da lui, soprattutto perché significava che mi importasse davvero tanto quello che c’era tra di noi.
Furono sufficienti quelle parole per Simone, che fece soffocare i miei singhiozzi nel suo maglione.
«Mi dispiace,» disse, stringendomi forte. «Sono stato un coglione, un deficiente… se potessi tornare indietro…»
E lo allontanai da me. «Ma non puoi!» urlai, stanca.
Forse mi stavo comportando in un modo troppo infantile, ma non riuscivo a controllare i mei ormoni. «Avresti dovuto pensarci prima di scoparti qualsiasi cosa, anche quella giraffona! Un figlio, Cristo Santo!»
Simone non sapeva cosa dire. Continuava a guardarmi contrito, dispiaciuto, senza aggiungere altro che “Mi dispiace”, ripetuto come una nenia fastidiosa.
Tentò di sfiorarmi un braccio, ma io mi ritirai. «Ti prego…» mi disse, dispiaciuto.
Come avrei dovuto comportarmi a quel punto?
Lo fissai disperata. «Sai che non possiamo… non più, ormai.»
«Non dire così, smettila!» stavolta fu il suo turno di gridare. «Cazzo, non sto mica morendo! Sai quante persone convivono con una famiglia allargata?»
Lo sapevo, certo. Ovviamente si riferiva anche alla sua.
«Non è la stessa cosa,» lo fermai subito. «Abbiamo sbagliato a cominciare qualsiasi cosa questa sia, perché non doveva accadere. Ora ho capito il motivo. È arrivato il momento che tu ti prenda le tue responsabilità… per quanto sia successo ingenuamente, ormai il dado è tratto.»
«Falla finita!» ringhiò, arrabbiato. «Possibile che per ogni minima cosa ti tiri indietro? È evidente che non ti importa nulla di tenere a galla questa relazione, altrimenti avresti lottato!»
«Non dare a me la colpa per una cosa che hai fatto tu!» sbraitai. «Come dovrei sentirmi? Felice? Al settimo cielo perché il mio ragazzo avrà un figlio da un’altra?»
Stavo facendo una tragedia greca, e lo sapevo.
Ero il suo avvocato in fondo, ero sempre stata al corrente di ciò che sarebbe potuto succedere eppure, venire a patti con la realtà era stato devastante.
«Perché mi fai sentire come se ti avessi tradita?» mi accusò, con gli occhi che lentamente si arrossavano. «Non stavamo insieme quando è successo tutto questo, e non so nemmeno se stiamo insieme adesso… pensi che io sia felice di vederti così? Se potessi tornare indietro, cancellerei tutto, va bene? Rinuncerei a tutte le donne del mondo se questo servisse a farti smettere di soffrire…»
L’aveva detto quasi senza pensare, e, infatti, fu come se si rendesse conto di quello troppo tardi.
«Io…» tentò di rimediare.
Ero stata stupida ed egoista. Non avevo minimamente fatto i conti con quello che avrebbe provato Simone sapendo della notizia. La sua carriera e la sua vita sarebbero cambiate per sempre, cambiamento che io avrei subito solo in parte.
Avere un figlio era una grossa responsabilità. Enorme, direi.
Ero stata idiota a mettere al primo posto i miei bisogni, a pensare soltanto a me stessa, quando a Simone era piombata addosso una verità che lo aveva distrutto.
«Mi dispiace,» dissi, sinceramente colpita.
Invece di sostenerlo, lo avevo attaccato.
Simone sgranò gli occhi e tentò di avvicinarsi. «Non dirmi che vuoi rinunciare così presto, senza combattere…» chiese preoccupato.
Davvero volevo mollare tutto? Dopo aver quasi mandato a quel paese la mia carriera, preso in giro James, raccontato bugie persino alla mia migliore amica, avrei rinunciato a tutto quello?
Mi fiondai tra le braccia di Simone, stringendolo forte, facendogli mancare il respiro.
«Non credo di potercela fare…» ammisi.
Lui mi accarezzò i capelli dolcemente. «Shhh, vedrai che ce la faremo. In qualche modo supereremo anche questa cosa. Insieme.»
Avrei voluto piangere, ma sarebbe stato da deboli. Non era la fine del mondo, almeno. Avrei dovuto fare di tutto, impegnarmi al massimo perché a Simone fossero riconosciuti tutti i diritti sul bambino.
Alzai lo sguardo asciugandomi gli occhi. «Vuoi riconoscerlo?» gli chiesi, forse troppo direttamente.
Forse, dentro di me, speravo che rinunciasse e si lasciasse quella storia alle spalle. Un pensiero egoista, lo ammetto. Poi però, con cognizione di causa, mi sentii una stupida ad averglielo chiesto.
«Ovviamente,» mi rispose lui, sorridendo. «So che non sarò eletto padre dell’anno, ma almeno voglio provarci. Così la finisci di chiamarmi 'ragazzino',» mi rimbeccò.
Sorrisi, anche se sentivo una profonda tristezza dentro.
Sapevo che da quel giorno in avanti le cose sarebbero radicalmente cambiate. Sarebbe stato tutto diverso, per quanto ci sforzassimo di rendere la realtà quotidiana.
Ci sedemmo sul divano, ancora abbracciati.
«Lo dirai ai tuoi genitori?» gli chiesi, indagando.
Gabe non aveva voluto divulgare la notizia all’interno della famiglia, troppo preoccupato della reazione di Marco. Adesso le carte in tavola erano cambiate, forse sarebbe stato opportuno affrontare la verità.
Simone annuì, senza smettere di accarezzarmi un fianco. «Sarò io a dirlo a mio padre. Devo farlo.»
«Almeno non è la prima volta che diventa nonno…» ironizzai, pensando a Susy. Era da Natale che non sentivo quella bambina, e un po’ mi mancava.
Simone ridacchiò, poi s’incupì di nuovo. «Hai fame, preparo qualcosa?» chiese stranamente, senza ordinarmi di fare nulla.
Strizzai un occhio. «Non ti ci vedo così servizievole… non sembri più tu.»
Lui si stiracchiò come un gatto. «È arrivato il momento di crescere…» disse, come se non avesse compiuto appena ventun’anni.
«Te ne sei accorto presto…» lo presi in giro, poi lui mi tirò ancora più contro il suo corpo.
Allargò le gambe e mi fece accoccolare nel mezzo, con l’orecchio destro sul suo petto.
«Credi davvero che riuscirò ad essere un buon padre?» se ne uscì, serio.
Soppesai i diversi modi in cui ci eravamo scontrati e a quante volte gli avessi dato dell’immaturo, testone e arrogante. La verità era che ancora non lo avevo conosciuto abbastanza, mi ero basata soltanto su come appariva.
Sorrisi, disegnando cerchietti immaginari sulla sua T-shirt. «Credo che tu ci possa lavorare.»



Orsù buon pomeriggio a tutte/i!
Premetto che il ritardo nel postaggio-capitolo è dovuto al fatto che dal 22 luglio non sono tornata a Roma per niente, per cui - volente o nolente- non potevo proprio postarlo XD
Appena sono tornata, ho messo sotto torchio la mia wifuccia che mi ha betato il chap a tempo di record ed eccolo qui per voi! :3
E' un capitolo di svolta, niente più passaggi. Ora si affronta la verità dei fatti e ci si scontra con i problemi che sorgeranno dal fatto che il test di paternità è positivo. Reale. Che non si tratta più di una macchinazione, bensì della nuda e cruda verità.
Che fareste voi al posto di Venera?

Lascio questa domanda in sospeso U_U
Attendo risposta mentre rispondo, pian piano, alle recensioni... sono una marea e sono rimasta indietro T_T PEDDONO!! Cmq ce la farò, tra un impegno e l'altro :3
//marty
   
 
Leggi le 11 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: IoNarrante