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Autore: IoNarrante    02/07/2013    11 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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CAPITOLO 20
betato da  nes_sie
 
Non avrei mai e poi mai creduto di poter vedere Simone in quello stato. Con l’aiuto dello specchietto retrovisore, notai il suo sguardo cupo e l’espressione imbronciata.
Era davvero insolito trovargli una smorfia diversa da quella pre-stampata sulla sua faccia da viziato arrogante, e la cosa mi fece parecchio sorridere. Avevo il sospetto che Mario c’entrasse qualcosa, soprattutto il fatto che avesse scoperto che non si trattava di un’amica, bensì di un ventiquattr’enne alto un metro e ottanta, con barba, capelli e spalle da giocatore di rugby.
Gli è andata male, eh?
Concordo.
«Avete fatto buon viaggio?» ci chiese Mario, sorridendo con i suoi soliti modi affabili. Anche se propriamente gli abitanti di Roma ci definivano “campagnoli” soltanto perché abitavamo in provincia, Mario era diverso.
Non aveva studiato; cioè, si era limitato a finire i cinque anni all’istituto agrario più vicino e poi si era soltanto lasciato rapire dalla sua passione infinita per la musica. Per mantenersi, lavorava con il padre, nel caseificio di famiglia, e giorno dopo giorno si prendeva cura anche dei capi di bestiame con cui facevano delle deliziose forme di formaggio.
A parte questo, Mario non aveva quella tipica cadenza di paese nel linguaggio. Quel tipo di persona dura di comprendonio e attaccata visceralmente alle proprie origini, era ben lontana dalla sua persona.
Da Mario, che metteva i soldi da parte per comprarsi uno stereo, una chitarra, un amplificatore, da quello stesso ragazzo che per Natale o per il compleanno mi chiedeva sempre di regalargli un disco di vinile molto raro.
«Sì, non ci sono state turbolenze,» risposi tranquilla, sorvolando accuratamente su tutta la parte in cui io e Simone ci eravamo accidentalmente sfiorati le mani.
«Anche il tuo amico là dietro, mh?» domandò, fissando lo sguardo nello specchietto e cercando gli occhi del calciatore che, senza mezzi termini, lo incenerirono.
Sì. Se Simone fosse stato Ciclope, quello degli X-men per intenderci, di Mario non sarebbe rimasto altro che un mucchietto di polvere da raccogliere in un sacchetto di plastica.
«Mpf!» sbuffò in risposta, incrociando le braccia al petto e cominciando a fissare la sua attenzione fuori dal finestrino.
La strada sterrata che portava a casa mia cominciò in quell’esatto istante, ed avendo una semplice Panda un po’ arrugginita, Mario dovette sterzare un paio di volte in più per evitare le voragini presenti su quella strada malandata.
«Chi ti ha dato la patente, un ubriaco?» disse Simone, dopo aver battuto la testa sul tettuccio dell’auto perché era troppo alto per quella macchina.
«Simone!» ringhiai, rimproverandolo.
Mario ridacchiò. «Sei un topo di città, amico. L’aria di campagna è un po’ troppo pulita per i tuoi polmoni pieni di smog, right
Fissai malamente pure Mario. Cos’era? Una guerra al testosterone?
«Evidentemente l’aria rarefatta qui sui monti di lillà ti ha assottigliato quel poco cervello che avevi, man,» sibilò subito Simone. «Sarai abituato a trattare con le pecore e le mucche, ma non con gli esseri umani.»
«Simone, taci!» gli urlai, prima di dover litigare sia con l’uno che con l’altro
Mario però sembrava averla presa con filosofia. «Ven, ma davvero stai con questo tizio? Cioè, d’accordo che è un calciatore e tutto il resto… ma non ti ci facevo…» mi rimproverò, sogghignando.
Ovviamente aveva riconosciuto il mitico Simone Sogno senza che gli spiegassi che diavolo di lavoro facesse il mio quasi-ragazzo-barra-amante-barra-cliente.
«Non stiamo insieme!» rispondemmo prontamente all’unisono io e Simo.
Il mio migliore amico si voltò, senza mai perdere la concentrazione alla guida, e i suoi occhi blu incrociarono prima i miei, poi quelli dell’altro presente nell’auto.
Okay, magari io e Simone stavamo tentando di darla a bere a chiunque, persino a noi stessi, ma Mario aveva una sorta di superpotere, ce lo aveva sempre avuto, sin da quando eravamo piccoli, ed ovviamente ci aveva sgamati.
«Viennetta, vuoi mentire a me? Sul serio?» ridacchiò.
«Viennetta?»
Sbuffai. «È il soprannome che mi ha affibbiato quando avevamo cinque anni, perché il mio nome era troppo difficile, vero Mammio?» lo presi in giro anche io.
Ridemmo per i successivi cinque minuti, mentre sentivo lo sguardo di Simone che mi sondava la nuca. La sua aura aveva creato una sorta di alone nero attorno a lui, quasi come quello dei cartoni di animazione.
«Le piaceva tanto quel gelato. Ti ho chiamato Viennetta, Ven, perché una volta te ne sei finita una confezione intera!» infierì ancora.
«Perché la cosa non mi stupisce?» disse sarcastico Simone.
«Zitto tu!» lo fulminai, imbarazzata.
La conversazione stava raggiungendo vette davvero imbarazzanti, e se non avessi voluto finire a ricordare gli anni del liceo insieme a Mario, sarebbe stato meglio cambiare discorso, e alla svelta!
«Hai composto qualcosa di nuovo in tutto questo tempo?»
Inversione di rotta completa!
E così Mario cominciò un excursus sui progressi che aveva fatto col suo gruppo e alle serate che aveva in programma in quel lungo week end nei dintorni del Lazio.
«Stasera suoniamo al NewPort, che ne dici di venirmi a sentire, mh?» mi propose, mentre svoltò una curva un po’ insidiosa per mostrarci finalmente le mura della mia vecchia casa.
«Vedremo,» gli sorrisi, poi Simone si sporse violentemente tra i due sedili come se volesse uscire fuori dal parabrezza.
«M-Ma che…?» blaterai, indignata.
«Quella è casa tua?»
Simone vide la tenuta dei miei genitori che era piuttosto, sì, abbastanza grande in effetti, se paragonata ai miseri appartamenti di Londra.
«È casa dei miei genitori,» puntualizzai.
Mario sogghignò. «Pensavi di esserti messo con una campagnola che viveva in una vecchia soffitta sudicia e polverosa?»
Ovviamente frenai Simone prima che potesse strozzare Mario con le sue stesse mani.
 
Parcheggiata la Panda sul vialetto di casa Donati, scendemmo per recuperare le valigie. Simone perse parecchio tempo ad osservare intorno.
Era una bella giornata, nonostante la temperatura rigida di Gennaio, ma il sole di quella mattina illuminava i vasti campi arati per la semina che sarebbe arrivata di lì a qualche mese.
«Ma non finisce più?» mi chiese lui, chinandosi a raccogliere il manico del trolley.
Sorrisi ingenuamente. Alle volte pareva così puro e bambino che mi spiazzava questo suo comportamento.
Mi avvicinai e gli presi un braccio, facendogli indicare l’orizzonte.
«Vedi quella macchia di alberi laggiù?»
Simo annuì, così gli spostai il braccio sino al confine opposto. «Ecco, conta anche quel pezzo di terra laggiù e quelli sono all’incirca i confini della tenuta.»
Gli occhi di Simone si allargarono più del possibile, diventando così scuri da riflettere il cielo limpido nelle sue stesse iridi.
«Sorpreso, topo cittadino?» ridacchiò Mario, facendo strada all’interno della casa.
Notai come Simone lo fissò con un certo fastidio.
«Certo, ormai è abituato a fare da Cicerone.»
«Cosa intendi?»
Scrollò le spalle con indifferenza. «Nulla. Si comporta come se questa fosse casa sua. E non lo è. È la tua, dei tuoi genitori, non di un perfetto sconosciuto con le basette alla motociclista di Harley Davidson.»
Gelosia portami via.
«Ma smettila!» sbottai.
L’idea che in quel momento mi terrorizzava di più, in realtà, era l’incontro tanto atteso con i miei genitori. Ero certa che avrebbero preso d’assalto la figliol prodiga tornata a casa per passare il resto delle vacanze con la famiglia, ma ero anche più che sicura che avrebbero assalito, non metaforicamente, il povero Simone.
Entrai in salotto, lasciando la valigia nell’ingresso e mi diressi subito in cucina.
Sapevo di trovare mia madre lì. Lei era sempre ai fornelli, sia che cucinasse il pranzo o la cena, che facesse le marmellate, la conserva per l’inverno, che scaldasse il sego per i formaggi…
Il suo intero mondo ruotava attorno alla cucina.
E, infatti, la trovai proprio lì, con mestolo e pentola tra le mani, mentre Mario sorrideva e le raccontava qualcosa di estremamente divertente.
«TE.SO.RO!» trillò non appena mi vide.
Lanciò tutto all’aria, schizzando di sugo perfino il povero Mario, e mi corse in contro stritolandomi in uno dei suoi abbracci brevettati che toglievano l’ossigeno.
Eh sì. Mia madre non era proprio una persona esile, diciamo. Lo era stata, certo, alla mia età di sicuro, ma con gli anni aveva acquistato qualche chilo in più, favorito soprattutto dalla sua favolosa cucina.
«M-Mamma… s-sto soffocando…» le dissi, coi polmoni completamente svuotati d’aria.
Subito si scostò. «Oh, sì, sì, scusami! Com’è andato il viaggio? È atterrato in ritardo? Sei stanca? Vuoi andare a riposare?»
Ovviamente quelle erano le domande a raffica post-arrivo che soleva rifilarmi tutte insieme in un nano-secondo.
Pretendeva una risposta a tutte queste domande.
«Il viaggio è andato bene, sì. Non ha fatto ritardo l’aereo per fortuna e forse andrò a riposare più tardi. Che stai cucinando?» tergiversai.
Mia madre scrollò le spalle e agitò il mestolo. Evitai le macchie di sugo come Neo aveva evitato i proiettili in Matrix.
«Solo una cosetta per pranzo… a proposito!» se ne uscì. «Il tuo ospite mangia tutto? Non è che è uno di quei tizi strambi venuti dalla città che non mangiano roba vivente o uccisa, vero?»
«Vegetariani, mamma. No, Simone mangia tutto.»
Soprattutto i biscotti al cioccolato, pensai ma frenai la lingua altrimenti mia madre ne avrebbe sfornati per un esercito intero.
«Si può?»
Ed eccolo. Simone fece la sua entrata trionfante con il metro e novanta di altezza, per poco non sfiorava il soffitto a botte della cucina.
Gli occhi di mia madre divennero grandi come piattini da caffè.
Ammetto che messi vicini, io e Simone sembravamo formare una sorta di “Io”. La “I” era lui, magro e alto come un palo della luce, mentre, ahimé, la “o” era la sottoscritta. Bassa, un po’ morbida ma soprattutto minuscola se messa a confronto con il calciatore.
«C-Certo! Caro, entra pure!» si rinsavì mia madre, per fortuna. «Piacere, io sono Francesca, la mamma di Venera, ma questo tu già lo sai. Hai fame? Posso prepararti un po’ di porchetta se vuoi…»
«Mamma, sono le dieci del mattino!» sbottai, imbarazzata.
Possibile che mia madre risolvesse tutto con del buon cibo servito ad orari improbabili?
Lei mi fissò incredula. «E allora? Hai sempre mangiato la porchetta di mattina, tesoro. Ricordi? Tuo padre ti chiamava Oink-Poink.»
Ed ora potevo anche prendere la vanga in giardino e cominciare a scavarmi la tomba.
Mario ridacchiava come uno scemo.
«Mamma!» gridai, all’apice dell’imbarazzo.
Promemoria per il futuro: dire a tutti quelli che conosco che sono orfana, non ho genitori, e soprattutto non ho una madre che riesce a metterti in imbarazzo di fronte ad un tuo cliente, nonché amante provvisorio.
«Ammetto di essere tentato…» ridacchiò Simone, fissandomi divertito. «Solo che preferirei aspettare, ho ancora un po’ di mal d’aereo.»
Sì, certo, come no!
Ci sedemmo attorno al tavolo della cucina, mentre mia madre continuava imperterrita a preparare il sugo.
«Dunque, che lavoro fai caro? Studi?» gli chiese, ovviamente invadendo la privacy senza alcun riserbo.
Simone cercò prima il mio sguardo, poi s’imbatté in quello di Mario.
Mia madre, che di calcio sapeva poco o niente, non si accorse nemmeno di avere di fronte uno dei calciatori italiani più famosi all’estero.
«Diciamo che Simone è uno sportivo…» ridacchiò il mio migliore amico, beccandosi un’occhiataccia dal calciatore.
«E come vi siete conosciuti? Da quanto state insieme?»
«Whoa! Mamma, vacci piano con le domande. Primo, non tartassare le persone come tuo solito; secondo, dagli tempo di respirare.»
Simone sorrise. «Tranquilla, non mi dà fastidio,» mormorò. «Dunque, gioco a calcio per vivere e mi riesce piuttosto bene, devo ammetterlo,» qui ci fu l’occhiata di gelo tra lui e Mario, con tanto di sbuffo da parte mia. «Ho conosciuto Venera perché mi serviva un avvocato per un piccolo disguido giudiziario, e il suo studio mi ha assegnato lei…»
«Veramente siamo in collaborazione, io e James.»
«Chi è ‘sto James?» domandò subito mia madre, che appena udiva un nome straniero andava in allarme preventivo.
«Un pallone gonfiato,» rispose subito Simone.
Gli diedi una forte gomitata nel costato che lo fece lamentare. «Zitto tu!»
«Venera!»
«Mamma!»
«Dio che male!»
«Venni-Anna tutta panna!»
La voce di mio padre sovrastò tutte le altre e ci voltammo all’unisono. Vedere mio padre dopo tutto quel tempo passato lontano dalla famiglia, mi fece salire un groppo in gola.
«Papà!» e corsi verso di lui, abbracciandolo.
Mi sentii sollevare da terra, proprio come quando faceva da bambina, e girare attorno alla cucina come una trottola.
«Come stai?» mi chiese infine, mettendomi giù.
«Benissimo,» gli sorrisi.
«Caro, tua figlia ha portato un ospite. Fa il giocatore di pallacanestro, o qualcosa del genere…» disse, ma fu quando gli occhi di Alberto Donati e Simone Sogno s’incontrarono, che ebbe inizio la più bella storia d’amore mai raccontata.
«Tu sei…» e non riuscì a completare la frase.
Mio padre, a differenza mia e di Celeste, amava follemente il calcio. Aveva fatto installare un mega-schermo in una sala adibita solo alla sua passione folle per quello sport. Da giovane aveva anche giocato nelle giovanili della Roma, ma per un infortunio al ginocchio aveva smesso.
Quando si trovò davanti uno dei giocatori più famosi del mondo, rischiò di avere un infarto.
«Piacere signore, mi chiamo…»
Corse subito a stringergli la mano. «Dio mio non posso crederci!» sbottò, quasi come se Simone fosse improvvisamente diventato suo figlio. «T-Tu… T-Tu sei Sogno… Simone Sogno! Il più grande centro-avanti dell’Arsenal… in casa mia! FRANCESCA! Dio mio, guarda chi c’è nella nostra cucina!»
Mia madre annuì poco convinta.
Finalmente mio padre tornò a guardarmi, ed indicò Simone. Era troppo emozionato per chiedermi a parole com’era finito in casa sua un personaggio del genere.
Sbuffai infastidita da tutto quel successo.
Mio padre era mio, appunto. Non di Simone, ma mio! «È una storia lunga…» tentai, un po’ malamente.
«Caro, questo ragazzo è cliente di nostra figlia. Lei è il suo avvocato!» si pavoneggiò la mamma.
Alberto per poco non strabuzzò gli occhi. «D-Davvero?»
«Perché lui ha qualche causa in corso… magari calcio-scommesse…» s’intrufolò Mario, solo per il gusto di prendere Simone per i fondelli.
Ovviamente il calciatore abboccò all’amo. «Non gli dia retta, c’è dell’altro oltre il fatto che sua figlia è il mio avvocato…» disse.
Lo pregai con lo sguardo, cercai di fargli cenno di “no” con la testa, che non era necessario spiattellare tutta la verità in un solo momento, anche perché non sapevo come avrebbe reagito mio padre.
«Io e sua figlia usciamo insieme, adesso,» sentenziò, passandomi un braccio attorno alle spalle e spiaccicandomi la faccia sul suo petto, fissando di sbieco Mario.
Simone geloso non era per nulla divertente!
Mio padre prima spalancò gli occhi per la sorpresa, poi sorrise, poi quasi pianse, ed infine si decise a parlare. «Ben venuto a casa, figliolo!» e si prese sotto braccio Simone portandoselo dietro quasi come se fossero diventati improvvisamente migliori amici.
«F-Figliolo?» balbettai.
«Tuo padre aspettava da tanto un genero degno di questo nome, tesoro,» rispose distrattamente mia madre, che non capiva cosa ci fosse di così speciale in Simone oltre l’altezza smisurata.
«Sarà una vacanza piuttosto divertente…» ridacchiò Mario, con piacere.
Ora mi trovavo ufficialmente tra due fuochi: da una parte dovevo tenere a bada Mario, che sapevo ne avrebbe combinata una delle sue per “testare” se Simone fosse adatto o meno alla sottoscritta, e dall’altra dovevo controllare che mio padre non mi mettesse in imbarazzo più del necessario.
Come se fosse possibile dopo la storia della porchetta…
 
«Ci credi che tuo padre ha il pallone originale dei mondiali dell’82?» disse Simone tutto eccitato.
Era seduto sulla sponda del letto, anche perché mio padre aveva insistito tanto a farci dormire nella stessa stanza, la mia vecchia stanza poi.
«Mh-mh, interessante…» gli diedi corda, piegando con accuratezza i vestiti prima che si sgualcissero rimanendo in valigia.
«E il gagliardetto del 1929? Te l’ho detto?» continuò.
«Tipo per la ventesima volta…»
«Oddio, se soltanto mio padre fosse così appassionato di calcio come lo è il tuo!» disse tutto emozionato. «Abbiamo parlato per ore. Ore, ci credi?»
Cercai il suo sguardo per un attimo e lo vidi tremendamente sincero. Forse quella fuga da Londra avrebbe giovato più a lui che a me, di questo ne ero sicura.
«Vedo che non è poi così male l’aria di campagna, eh?» ridacchiai.
Simone subito sfoderò il sorriso arrogante che mi faceva sempre rabbrividire. «E come la metti col fantastico piano di rientrare nelle grazie del tuo meraviglioso papà per farci dormire insieme, mh?»
Roteai gli occhi. «Certo, perché era un tuo piano sin dall’inizio…»
«No, però quando ha acconsentito, diciamo che mi sono venute certe idee in mente…»
Frenai subito i suoi bollenti spiriti. «Non lo faremo sotto lo stesso tetto dei miei genitori, intesi?»
Simone mi guardò perplesso. «Vuoi farlo fuori? Io non monterò più sulla sudicia macchina di quel tuo amico, che tra l’altro non sopporto per niente…»
«Ma davvero? Non me ne ero accorta… comunque, no, in questa vacanza non lo faremo. Per niente, non voglio rischiare di essere scoperta dai miei genitori. Ho già avuto la mia dose di imbarazzo in una sola giornata,» sentenziai.
Simone mi restituì uno sguardo divertito. «I tuoi sono davvero simpatici,» sorvolò sull’argomento castità-durante-il-soggiorno-a-casa-di-Venera.
«Mh,» borbottai, ripiegando le camicette. «Ne riparliamo quando dovrai viverci per ventiquattro anni a stretto contatto…»
Il calciatore rotolò, letteralmente, sul materasso fino a raggiungermi e mi fissò dal basso verso l’alto con due occhi languidi. «È una muta richiesta?» insinuò.
Per poco gli occhi non mi rotolarono fuori dalle orbite. «Richiesta di cosa, scusa?»
Si stava sfiorando il ridicolo adesso?
Simone prese a stiracchiarsi sul letto come un gatto, occupando tutto il materasso e rischiando di farmi cadere la valigia per terra. «Ehi!» lo redarguii.
«La richiesta di passare il resto della vita insieme a te,» propose, furbo.
Ci mancò davvero un soffio all’infarto. «Tu sei tutto suonato! Figurati se io e te potremmo sopportarci più dello stretto necessario.»
«Eddai, che un po’ mi vuoi bene…» ridacchiò, punzecchiandomi con una mano come avrebbe fatto un gatto, per l’appunto.
«No, per niente,» risposi sicura.
Lo faceva di proposito a punzecchiarmi in quella maniera. Voleva che ammettessi la mia dipendenza da lui, il fatto che, volente o nolente, il suo bell’aspetto mi costringeva a comportarmi come una qualsiasi delle giraffone che si era portato a letto.
Con l’unica differenza che io avevo un master.
Non si scompose, anzi.
Si alzò a sedere e cercò il mio sguardo serio, notando che proprio in quel momento stavo togliendo la biancheria intima dalla mia valigia. I suoi occhi divennero ancora più scuri ed io arrossii. Ci provai, davvero, a rimanere impassibile di fronte a quel Simone che diventava predatore, ma ormai avrei mentito soltanto a me stessa.
Dopo che ci hai fatto sesso per chissà quante volte…
Tre! O forse quattro… non sapevo se quella volta nella vasca da bagno contasse.
«Smettila,» lo ammonii.
«Di fare cosa? Stai facendo tutto da sola…» puntualizzò.
Sì certo, come se non conoscessi ormai quello sguardo. «Ti ho detto che è proibito, punto. Io avrò la mia stanza, tu avrai la tua e tutti vivremo questa “vacanza” nel migliore dei modi, per poi tornare tranquillamente a Londra e continuare a lavorare al tuo caso di dubbia paternità,» precisai.
Simone sbuffò. «Guarda, sei talmente noiosa che me l’hai fatto ammosciare…»
«Dio, come sei volgare!»
Simone tirò fuori quel ghignetto che utilizzava soltanto i primi giorni di convivenza, quelli in cui cercava di farsi odiare per liberarsi della sottoscritta. «Di sicuro, so essere più gentleman di quel campagnolo…»
Roteai gli occhi al cielo. «Possibile che tu non riesca a fare a meno di vedere cose dove non ci sono?» sbuffai.
Lui fece spallucce. «Vorresti dire che non avevo ragione su James?»
«Cosa c’entra James, adesso?»
Dovevamo finire per litigare, ormai non c’era alcuna via di scampo. Quando insinuava cose che non esistevano, arrivavo ad un limite della sopportazione inaudito. L’avrei ucciso, era questione di millisecondi.
«L’avvocatuncolo c’entra sempre,» concluse.
Posai la pila di maglioni sul comodino e misi le mani sui fianchi. «Senti, non puoi paragonare Mario a James. Con lui è diverso,» poi mi corressi quasi in automatico. «Con lui è stato diverso, ma Mario è il mio migliore amico, è come un fratello, perciò smettila di continuare ad insinuare cose che non esistono e che non stanno né in cielo né in terra.»
Simone si alzò dal letto a sua volta, imboccando la porta. «Sappi solo che tu non c’entri nulla, io lo faccio perché quel tipo mi ha sfidato, ha chiaramente messo in dubbio la prestanza di Simone Sogno ed io non posso tollerarlo. Non lo permetto nemmeno a mio cugino, sangue del mio sangue, figurarsi a quella sottospecie di contadino.»
«È un musicista,» precisai.
«Pifferaio dei miei stivali,» detto questo uscì dalla mia stanza e si chiuse la porta alle spalle, sparendo chissà dove, visto che non sapevo nemmeno se i miei gli avessero davvero preparato una stanza a parte.
Conoscendo mio padre, gli avrebbe concesso la mia mano anche se fosse stato un serial killer. Se era in grado di far rotolare un pallone, era di famiglia.
«Ultima precisazione,» disse Simone, tornando a fare capolino nella camera.
«Mh?» Alla fine non ero riuscita nemmeno a svuotare completamente la valigia per colpa di quel calciatore da strapazzo e le sue assurde fisime mentali.
«Con o senza permesso dei tuoi genitori, stanotte sgattaiolerò nel tuo letto.» Ed aggiunse uno di quei sorrisi furbi in cui alzava soltanto uno degli angoli delle labbra.
Nemmeno ebbi la forza di lanciargli un cuscino dietro, perché ormai ero abbastanza sicura che avrei fatto lo stesso se fossi stata al suo posto.
Scacco matto.
 
La sera ci riunimmo tutti a cena, salvo “Mister calciatore dei miei stivali”, che arrivò con ritardo principesco perché aveva bisogno di calmare i nervi sotto la doccia.
«Scusate, ma il jet-lag mi ha distrutto,» commentò.
«Ma quale jet-lag, deficiente!» lo rimbeccai subito. «Tra Roma e Londra non c’è manco un’ora di differenza e tu tiri fuori la storia del fuso orario?»
Mia madre mi fissò scandalizzata.
A mio padre venne quasi un infarto, tant’è che si posò una mano sul cuore. «Non sa quello che dice, scusala,» gli sentii sussurrare piano a Simone.
Dio, che odio!
Simone mi sorrise beffardo. «Sarà, ma io mi stanco facilmente. Non posso permettermi di tornare a Londra non al pieno delle mie forze. Insomma, c’è un girone di ritorno del campionato che è abbastanza tosto…» sostenne, come se fosse una scusa plausibile.
«La prima è contro il Manchester, se non sbaglio.»
«Papà!» ringhiai.
Invece di essere dalla mia parte, la mia famiglia sembrava non fare altro che pendere dalla parte di Simone, ignorandomi completamente.
«Tesoro, potevi dircelo che il tuo fidanzato era così cagionevole…» cinguettò mia madre preoccupata.
Dire che avevo gli occhi ridotti a due misere fessure sarebbe stato solo un eufemismo. Finii di mangiare i miei piatti in silenzio, tanto qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata ribattuta senza darmi il minimo di sostegno.
«Non è il fio fifanfafo!» sbottai, addentando una patata al forno intrisa di olio.
Calorie, uccidetemi pure prima che lo faccia quel cretino di Simone!
«Tesoro…» mia madre era rivoltata dal fatto che stessi mangiando come un camionista disperso nel Sahara per una settimana. Non m’importava!
Quel ritorno a casa per le feste natalizie si stava trasformando in un incubo.
«Stasera dove lo porterai di bello?» mi domandò mio padre, con sincero interesse. «C’è il campetto comunale, di notte è illuminato e dicono sia un posto molto romantico…» sospirò.
Simone sorrise. Sembrava sincero questa volta.
«E pensare che ancora ricordo il primo appuntamento con suo padre,» cominciò a raccontare la mamma. Roteai gli occhi al cielo soltanto perché avevo sentito ripeterle quella storia un milione di volte. «Mi ha portato ad una partita di pallone, pensa!» ridacchiò.
«Come se ci fosse posto più romantico dei sedili sporchi dello Stadio Olimpico…» borbottai.
«Gli stadi di Londra sono più puliti,» aggiunse mio padre, come se il problema fosse davvero l’igiene dei seggiolini.
Simone ci fissava l’un l’altro molto divertito e soddisfatto. «Anche il nostro primo appuntamento, si può dire, è avvenuto in uno stadio. Ricordi, mh?»
Divenni paonazza. Non c’era altro modo per descrivere il io colore in quel momento.
Rossa, bordeaux, color pomodoro maturo? Tutti sinonimi perfetti. Dovetti abbassare lo sguardo, tossire e fingere di bere una sorsata d’acqua per riuscire a cambiare discorso.
Ovviamente fallii.
Mia madre era fuori di sé dalla gioia. «Oddio, Vennie, racconta, racconta!»
Cercai di riacquistare una normale respirazione, poi guardai Simone di sbieco. «Punto primo, non era un appuntamento…» sibilai.
«Punto secondo,» mi interruppe lui. «Sei venuta a guardarmi giocare e mi hai fatto un discorso incoraggiante a metà partita. Non era un appuntamento ufficiale, ma è come se lo fosse stato…» insinuò.
Sentii un gridolino acuto provenire alla mia sinistra e pensai si fosse rotta la valvola del termosifone, oppure che si fossero dimenticati un bollitore del the sul fuoco… invece era mia madre che produceva quella specie di suono assordante.
«Oddio, che cosa romantica!» cinguettò entusiasta.
In quel momento desiderai con tutto il cuore di avere l’anello di Bilbo Beggins e poter sparire da quella cucina in un battito di ciglia.
Potevo umiliarmi più di questa mattina con la storia della porchetta? Ovviamente sì.
Mi alzai di scatto facendo strusciare sonoramente la sedia dal pavimento. «Okay, andiamo o faremo tardi!»
Simone mi fissò confuso. «Tardi per co-che… ahi!»
Lo afferrai prepotentemente per la maglietta e tentai di farlo alzare, ma il suo metro e novanta mi impediva la maggior parte dei movimenti.
«Ricordi? Dobbiamo uscire o ti perderai le magnificenze di questa città di notte!» dissi con ovvietà, ma il mio tono era palesemente sarcastico.
«Vennie, ma Simone deve ancora finire il pasto…» protestò mia madre.
Simone sfoderò uno sguardo da cucciolo. «Non ho nemmeno assaggiato le patate…»
Fissai furente prima lui, poi mia madre ed infine le patate. Presi il cucchiaio e con forza lo caricai di tuberi per poi schiacciare le guance di Simone, facendogli aprire la bocca, e rimpinzandolo di patate quasi stessi riempiendo il tacchino per il Ringraziamento.
«Finirai per soffocarlo!»
«Dio mio, Alberto, ferma tua figlia!»
«Contento?» sibilai, vedendo il volto Simone tutto sporco d’olio e lievemente terrorizzato da quello che avrei potuto fargli se avesse protestato ancora. «Vuoi qualcos’altro?»
Lui scosse violentemente la testa.
«Mamma. Papà,» dissi solennemente. «Io e Simone usciamo, non aspettateci alzati.»
Praticamente ci scapicollammo fuori dalla porta di casa, uscendo nel portico illuminato debolmente dai lampioni che costeggiavano il giardino.
Simone era palesemente imbronciato.
«Scusa, ma non ce la facevo più a reggere tutta quella tensione. Mi sembrava stessero facendo il terzo grado,» mi giustificai.
«Volevano soltanto sapere cosa avevi fatto tutto questo tempo lontana da casa, non mi sembrava chiedessero molto.»
Odiavo da morire quando mi prendeva in giro, ma ancora di più detestavo l’idea che avesse ragione. Quando succedeva – di rado, s’intende – il mio inconscio faceva di tutto per trovare un escamotage, una qualsiasi scusa valida per vanificare le sue teorie.
«Sono solo impiccioni, soprattutto mia madre. Non hanno il diritto di intromettersi nella mia vita privata, e soprattutto in quella del mio cliente.»
«…che casualmente, almeno per metà, combacia con la tua,» si sentì in dovere di aggiungere.
Non dissi altro.
Come al solito anche con quelle quattro parole messe in fila a stento, riusciva comunque ad essere dalla parte della ragione.
«Dovremmo pensare seriamente a risolvere questo caso,» gli ricordai.
«Direi che se non ci riesci tu, sono completamente fottuto,» ridacchiò. «Io? Padre? Mi ci vedi davvero con un neonato tra le braccia?»
«Un ragazzino che cresce un altro ragazzino… la fine del mondo,» ironizzai.
«Ah. Ah. Ah,» finse lui. «Dunque, dobbiamo congelarci oppure hai intenzione di andarlo a vedere davvero quel campetto da calcio?»
«Ma non ci penso neppure!» esclamai. «Basta calcio, ho un’idea migliore…»
E l’idea migliore ovviamente non rientrava nei gusti del bel calciatore, e quando mise piede nell’unico, sperduto, pub del paese per poco non gli prese un infarto. Considerato che al bancone del bar ci fosse Mario, con tanto di canottiera scollacciata a causa del caldo del locale, macchie d’acqua sparse sulla maglia e capelli ricci e fluenti completamente scompigliati, sentii chiaramente i denti del calciatore stridere l’un l’altro.
«A questo punto penso sia meglio tornare a casa, o faremo impensierire i tuoi,» tentò.
«Simo’, sono le dieci di sera… non le due!» lo rimproverai.
«Eddai, prima che ci veda! Altrimenti mi toccherà passare quasi dodici ore in compagnia di quel tuo amico primitivo, sommandoci anche la mattinata,» si lagnò.
«Come sei scorbutico, Mario è fantastico!»
«E allora potevi evitarmi questo supplizio e lasciarmi a Londra.»
«Nessuno ti ha obbligato a venire.»
Simone sfoderò un sorrisetto furbo. «Davvero? Vuoti che ti ripeta le esatte parole di quella notte?»
«Stronzo.»
Per fortuna proprio Mario venne a salvarmi da quella situazione che sarebbe potuta precipitare da un momento all’altro.
«Ehi! Ven!» urlò, dall’altro capo del pub.
«Adiamo a salutarlo, su. Non fare il cafone…» puntualizzai.
Ovviamente sentii una serie di imprecazioni indirizzate al mio migliore amico ma cercai di non dar loro peso. Ci sedemmo sugli sgabelli proprio di fronte alla postazione di Mario.
«Che si dice? Cosa c’era per cena?» s’informò subito, sorridendo sprezzante a Simone che gli rifilò unicamente un’occhiataccia.
Feci spallucce e sbuffai, soprattutto ripensando a ciò che era successo. Altro che terzo grado, mi chiedevo se i miei genitori, in una vita passata, fossero state delle spie del KGB.
«Le solite cose… sai, mia madre fa sempre da mangiare per un esercito,» commentai.
«Sì, peccato che non abbia avuto il piacere di assaggiare tutto,» protestò subito Simone.
Mario lo guardò sorpreso. «Lascialo perdere, è arrabbiato perché l’ho “strappato” dal suo degustare le patate al forno,» dissi, con ovvietà.
Il mio migliore amico scoppiò a ridere. «Le patate al forno di Carla Vanoni sono qualcosa di sublime, ti rimangono attaccate al palato quasi fossero farcite di burro caldo e denso…»
Il che non era da escludere, visto il vizio di mia madre di stra-condire qualsiasi pietanza avesse davanti agli occhi. Mi ricordo di una cappuccina che di verde alla fine non aveva più nulla, visto che nell’insalatiera c’erano finite olive, mais, carote, cetrioli, sedano, olio quasi a far galleggiare il tutto e aceto da farti strizzare gli occhi e tossire.
Mi accorsi di Simone che pasteggiava mentre sentiva Mario descrivere quella pietanza con tanta accuratezza. Gli scorsi persino un rivolo di bava all’angolo delle labbra…
Poi il suo sguardo inquisitorio si posò su di me. «La prossima volta non mi trascinerai via così facilmente da tua madre!» minacciò, puntandomi il dito contro.
Incrociai le braccia al petto. «Sposatela, allora,» lo rimbeccai.
Mario nel frattempo si godeva i nostri battibecchi mentre preparava alcuni cocktail per i clienti del pub.
Simone mi fissò di sbieco. «Lo farei se non avesse sposato tuo padre, quell’uomo ha la maglietta autografata di Roberto Baggio quando sbagliò il rigore nei mondiali USA del ’94!»
E qui intervenne il mio migliore amico. «Dio, quanto gliela invidio!»
Forse avevano trovato una passione in comune: quel benedettissimo gioco che io tanto detestavo.
«Certo, interessante,» dissi, fingendo uno sbadiglio.
«Vennie, con tutto il rispetto, ma è come se tuo padre possedesse la penna con cui fu firmata la dichiarazione d’indipendenza americana!» mi suggerì Mario, ma la cosa mi parve alquanto esagerata.
«Per una volta potrei darti anche ragione,» gli rispose Simone, fissandolo per la prima volta come se non volesse mangiarselo per colazione.
Mario gli restituì uno sguardo altrettanto neutro. «Io ho sempre ragione,» gongolò.
Ecco il nocciolo della questione, il nodo a cui sarei dovuta arrivare nell’immediato. Il fatto che quei due non si sopportassero era chiaro, come lo era il motivo per cui Mario fosse il mio migliore amico fin da quando avevamo un anno ciascuno.
Si somigliavano troppo quei due: nei comportamenti, nel modo di parlare, in quello di atteggiarsi. L’uno era un calciatore, l’altro un musicista, ma per il resto sarebbero stati come due gemelli separati dalla nascita.
«Bene, cosa vi posso offrire, ragazzi?» chiese Mario, stemperando quell’atmosfera di calma che sembrava quasi irreale. «Aspettate, siete venuti a piedi vero?» s’informò.
«Mi ci ha costretto,» brontolò subito Simo.
«Dannazione, sono due isolati… DUE. Io non so come tu possa definirti uno sportivo, se ti lamenti di un chilometro a piedi,» sbuffai contrariata.
Mario ridacchiò.
«Direi due birre, grazie. Comunque non è il fatto di essere sportivi o meno, solo che ormai sono abituato ad un certo tipo di comodità,» puntualizzò Simone, fissandomi serio.
«Certo,» rincarai la dose. «Dormi fino alle dieci del mattino, non pulisci e mandi in giro per casa le tue giraffone mezze nude.»
Le birre per poco non caddero di mano a Mario. «G-Giraffone?»
«Fattelo spiegare dal ragazzino qui…» sbuffai.
«È storia vecchia, e lo sai,» intervenne subito Simone. «Odio quando mi chiami così, piantala.»
Arrivò il momento adatto per punzecchiare Simone. Era da un po’ di tempo che non mi divertivo a burlarmi di lui, e adesso avevo anche Mario dalla mia parte.
«È la verità.»
Mario servì le birre in due bei boccali di vetro, così iniziai a sorseggiarla senza staccare lo sguardo da quello cupo di Simone.
«Fatemi capire bene,» s’intromise il mio migliore amico. In seguito indicò il calciatore. «Tu quanti anni hai, scusa?»
La questione dell’età di Simone era qualcosa di cui non andava estremamente fiero. Seppur fosse uno dei calciatori più giovani e più famosi d’Inghilterra, questa cosa di essere etichettato come “ragazzino” lo faceva infuriare.
«Fatti i cavoli tuoi, lavapiatti,» sputò fuori.
Sperai che Mario non reagisse troppo d’impulso, e per fortuna lo giudicai bene. Sorrise furbo al calciatore, poi cominciò a lucidare alcuni boccali. «Da questa risposta, presumo che la cara Vennie si sia fatto un toy-boy. Giusto?» si rivolse alla sottoscritta.
Beh, forse avevo fatto male i miei calcoli.
«Non è il mio ragazzo, chiariamo questa cosa una volta per tutte. Simone è qui come mio cliente, mi sto occupando del suo caso, condividiamo l’appartamento perché gli affitti erano troppo cari… tutto qui,» tagliai corto.
Mario mi sorrise beffardo. «E allora cosa ci fa qui?»
«Mh?» domandai stranita.
«Il pastore vorrebbe sapere per quale motivo sono qui se non in veste di tuo “non ufficiale” uomo di letto,» rincarò la dose l’altro.
Già, quello che di sicuro avrebbe dormito in un’altra stanza, se non addirittura in un’altra casa!
«Uomo di cosa? Ma voi siete entrambi fuori!» sbottai.
Sia Mario che Simone sembrarono abbastanza soddisfatti di avermi messo in completo imbarazzo. Ero stufa di essere il giullare di ogni situazione, sia a casa, con i miei, sia qui con gli amici. Continuai a sorseggiare la birra e a linciarli entrambi.
«Dunque, cosa avete da fare domani mattina?» chiese Mario, servendo due Sex on the beach alla ragazza che subito li andò a servire ai tavoli.
Guardai prima Simone, poi Mario. «Dormire.» «Lavorare.» dicemmo all’unisono io e il calciatore. Due risposte ovvie da due personaggi altrettanto ovvi.
Mario sorrise. «Bene, allora non vi dispiacerà accompagnarmi a fare una corsetta in giro per il paese, almeno così avrò la scusa di fare da Cicerone.»
«Io lo conosco già, il paese,» brontolai. L’idea di andare a correre era totalmente fuori discussione, soprattutto perché non facevo un po’ di moto da quando avevo superato il master a Cambridge.
«Io voglio dormire…» si lagnò Mr. Attività.
Il mio migliore amico adottò il ricatto, come sapeva ben fare da tempo. Non c’era modo di trattare con due tipi ostinati come me e Simone.
«Vorrà dire che dovrò spargere voce tra il paese di un certo calciatore e una certa avvocatessa che intrattengono una specie di relazione semi-illegale?»
«Sei un traditore, altro che migliore amico!» sbottai.
«Fortuna che te li sai scegliere gli amici, eh?» mi apostrofò Simone.
Mario si godette la scena, quasi come se avesse appena vinto alla lotteria. «Allora vi aspetto domani alle 7. Passo sotto casa di Vennie.»
«Ma la sera non fa buio presto, qui?» s’informò Simone.
«Alle sette del mattino, idiota!» gli urlai addosso.
Simone sgranò gli occhi quando ebbe realizzato che ciò comportava alzarsi prima che il sole fosse completamente sorto.
«Voi due siete dei pazzi, io a quell’ora non mi sveglio nemmeno per andare agli allenamenti!»
Lo fissai con un sopracciglio alzato. «Non avevo dubbi.»
«Allora è fatta, a meno che Simone non si tiri indietro. Non so, magari non regge il ritmo di noi “gente di paese”,» gli disse, provocandolo.
Simone assottigliò lo sguardo. «Il ritmo lo detto io. Domani alle 19 in punto.»
«Sono le sette del mattino, porca miseria!»
 
Quella notte rincasammo sul tardi. Alla fine avevamo passato quasi tutta la serata al pub di Mario, ed io ero rimasta pressoché tutta la sera a sorseggiare birra mentre vedevo quei due ringhiarsi a vicenda come se si stessero litigando l’ultimo pezzo di carne avanzato.
In verità, sospettavo la ragione per cui il calciatore si comportava guardingo nei confronti di tutto l’universo maschile che mi girava intorno, alla fine la dinamica di pensiero degli uomini era piuttosto limitata.
È geloso.
Per quanto Simone potesse essere diverso da tutti i ragazzi con cui ero uscita, uomini che avevo conosciuto a Cambridge, oppure a Roma durante il periodo universitario, c’era quella caratteristica comune un po’ a tutti i possessori del cromosoma Y.
Celeste una volta mi aveva detto di associare gli uomini a degli animali, e proprio come in natura essi si comportano in modo possessivo verso ciò cui appartiene loro: che siano cuccioli, territorio o compagne di vita.
E così ero rimasta a sbuffare tutto il tempo in attesa che quei due finissero di linciarsi.
Premettendo che Mario stuzzicava Simone di proposito, di tanto in tanto gli lanciavo delle occhiate espressive per suggerirgli di farla finita, almeno sarei potuta andare a dormire prima della “scampagnata” mattutina a cui avevo aderito contro il mio volere.
«Bene, si è fatta una certa ora,» aveva annunciato d’improvviso il mio migliore amico e così finalmente ero scattata in piedi dallo sgabello su cui mi stavo addormentando tipo gufo di Bambi, e avevo afferrato Simone per il collo del maglione trascinandolo fuori dal locale senza nemmeno salutare Mario.
«Ehi, aspetta!» mi brontolò dietro il calciatore, cercando di infilarsi il cappotto e camminare contemporaneamente.
Gli rifilai un’occhiata gelida anche attraverso il buio di quella nottata. «Muoviti,» ringhiai.
Simone si vestì in fretta e furia seguendomi. Gli bastarono quattro lunghi passi per raggiungermi con quelle sue gambe chilometriche e mi fu subito al fianco.
Rabbrividii per l’umidità che circondava la zona, in aperta campagna, così di punto in bianco avvertii la sua mano posarsi sulla spalla e avvicinarmi a sé. Scattai subito sulla difensiva fissandolo torvo.
Simone alzò un sopracciglio. «Oh, ma andiamo!» sbottò stanco. «Siamo andati a letto insieme fino a ieri pomeriggio ed ora ti scandalizzi se cerco di tenerti al caldo?» mi rimbeccò.
Cominciai a mordicchiarmi il labbro nervosamente. Era una di quelle rare volte in cui mi trovavo a corto di parole nonostante fossi un’avvocatessa in erba.
«Ti ho detto che non voglio che ci scambiamo effusioni in casa dei miei,» precisai, sicura.
Continuammo a camminare fianco a fianco, ma ebbi la netta sensazione che con Simone non era ancora finita. «Teoricamente non siamo ancora dentro casa…» sussurrò malizioso, fissandomi con quegli occhi neri che riuscivano persino ad inghiottire il buio di quella notte.
Stavolta il brivido che mi serpeggiò lungo la schiena non fu di freddo. «Smettila,» gli intimai. «Siamo venuti qui soltanto per svagarci, per far passare un periodo di tempo prima del processo che sono sicura ci impegnerà entrambi. Non voglio allarmarti, ma la tua cara Lizzie è decisa a chiedere la tua mano pur di non far scoppiare lo scandalo sui tabloid.»
Simone si irrigidì. Mi accorsi soltanto allora che era una delle rare volte in cui parlavo con lui di Elizabeth Cloverfield. Era la controparte nel mio primo caso da assistente alla Abbott&Abbott ma con Simone non ne avevo mai realmente parlato.
Lui aveva sempre sostenuto di averla sì abbordata quella notte, ma che fosse finita lì.
«Non dovevo essere così diretta, scusa,» dissi, rimangiandomi l’ultima frase detta.
Certe volte la vecchia e cara acidità di Venera usciva fuori senza che riuscissi a controllarla pienamente, ma vidi Simone scrollare le spalle e infilarsi le mani nel cappotto lungo.
«Non devi scusarti,» borbottò, sbuffando fiato caldo dalle labbra carnose. «Hai detto soltanto la verità, in fondo. Per quanto possa ricordarmi di quella notte, sono piuttosto sicuro di aver preso precauzioni, ma spesso e volentieri mi lascio prendere dalla passione e…»
Qui i puntini di sospensione lasciarono cadere un silenzio che mi fece arrossire. Era ovvio che si riferiva a noi due, a quello che era successo la notte di Natale e a quello che sarebbe ancora dovuto succedere. Deglutii a fatica, perché per quanto avessi predicato bene all’inizio di tutta quella storia, alla fine ci ero caduta con tutte le scarpe.
Relazione con il proprio collega, relazione con il proprio cliente e nessuna di queste due cose mi aveva minimamente fermata. Soprattutto la seconda.
«A… A proposito di questo,» tentai di dire, ma ci trovammo inaspettatamente sotto il portone di casa Donati.
Simone mi fissò aspettando che aprissi l’uscio per poi rifugiarci dall’umidità che ci aveva praticamente aggrediti quella notte.
Trafficai con le cose che avevo dentro la borsa, facendo più rumore di quanto avessi previsto. Ero nervosa, sia perché il discorso che volevo intraprendere era sempre lo stesso, sia perché sapevo che non avrebbe portato da nessuna parte.
«Eccole!» dissi trionfante, mostrandogli il mazzo di chiavi.
Lui mi restituì un sorriso che riuscì ad accartocciarmi il cuore come un pezzo di carta straccia. Mi afferrò la mano prima che potessi inserire la chiave nella toppa e mi fissò con quegli occhi neri.
Gli occhi di un demone.
Mia nonna mi ripeteva sempre da piccola i significati del colore negli occhi delle persone, ed ogni volta che giungeva il momento del colore “nero” lei mi metteva sempre in guardia.
 
“Mia cara, gli occhi neri sono sintomo di coraggio, di forza e di sicurezza. Essi rivelano un grande desiderio di autoaffermazione e un forte bisogno di mettersi in mostra per paura di passare inosservati. Talvolta è sintomo di durezza d’animo e di freddezza.”
 
Ed era proprio quella la descrizione che corrispondeva a Simone. Troppo impegnato a mettersi in mostra per poter lavorare davvero sulla propria personalità, troppo attento a compiacere gli altri, ad essere il migliore, a cogliere le sfide laddove si presentavano.
«Aspetta,» disse serio, fissandomi.
Non forzai la sua presa, perché dentro di me volevo sapere cosa aveva da dirmi. Ora ogni sua parola mi appariva piena di significato, quando prima tentavo in tutti i modi di non ascoltarlo. Lui che era stato la mia opportunità e adesso era la mia condanna.
Si chinò senza dire nulla e catturò le mie labbra in un bacio casto, appena accennato. Mi sorrise, forse un po’ impacciato. «Adesso possiamo entrare,» aggiunse.
Per quanto odiasse il mio continuo ciarlare e ripetere regole su regole, aveva ascoltato. Non volevo che ci fossero scambi di effusioni tra di noi dentro casa dei miei genitori, un po’ per rispetto verso di loro, e lui mi aveva baciata sulla soglia di casa.
Non aveva infranto la mia regola.
Senza pensarci due volte, mi aggrappai ai lembi del suo cappotto scuro, alzandomi in punta di piedi e cercando ancora le sue labbra. Un’ultima volta, per un bacio più profondo.
Continuavo a ripetermi di essere devota al suo corpo, alla bellezza che innegabilmente Simone aveva, come tutta la famiglia Sogno, ma per quanto queste parole continuavano a ronzarmi in testa, dentro di me sentivo che le carte stavano cambiando.
All’inizio di quella partita avevo in mano una coppia di picche. Contavo di poter bluffare, vincere la mano utilizzando l’astuzia oppure passare quando ne avrei avuta l’occasione. Ora, invece, alla coppia di picche si erano aggiunte tre carte di cuori.
Full.
 
La mattina seguente fui svegliata dal suo no sordo di qualcuno che bussava insistentemente alla porta della mia stanza. Pensai si trattasse di un incubo, così mi voltai dalla parte opposta sotterrando la testa sotto il cuscino.
Inservibile.
Il rumore si fece più intenso e martellante.
«Che diavolo vuoi!» ringhiai, e dopo nemmeno due minuti mi ritrovai Simone già vestito e pettinato nella mia stanza.
Avevo gli occhi gonfi dalla sera prima, nonostante fossi abituata a svegliarmi presto per andare a lavorare, invece il calciatore sembrava fresco e profumato come una rosa. Eppure la mattina dormiva sempre fino a tardi.
«Ancora non sei vestita?»
Guardai l’orologio digitale che segnava le 06.55. In quel momento avrei volentieri soffocato Simone con il cuscino e se fosse avanzato del tempo, avrei ucciso anche Mario, perché no.
«Sai a quante ferie ha diritto un tirocinante?» gli chiesi sbadigliando e scendendo dal letto controvoglia.
Simone arcuò il labbro e fece spallucce.
«A nessuna! Diciamo che questa breve pausa mi è stata concessa per grazia divina e tu e quel cretino di un musicista dovete togliermi delle preziose ore di sonno di bellezza per andare a lisciarvi il piumaggio!»
Sbattei la porta del bagno con forza, in modo che potesse capire quanto fossi infuriata.
«Non l’ho proposta io questa cosa,» aggiunse lui dall’altra parte dell’uscio. «E poi a te non serve il sonno di bellezza…» sussurrò malizioso.
Schiusi la porta soltanto per sorridergli. «Perché?» lo incitai.
Perché sei già bellissima così.
Perché non ti serve.
Perché ti amerei anche se passassi le notti in bianco a fare l’amore con me.
Simone mi accarezzò il viso. «Perché quelle occhiaie ti si vedranno comunque, e poi l’età avanza. Ti suggerirei di cominciare ad usare la crema anti-rughe,» sentenziò obiettivo.
Si allontanò gongolando prima che potessi lanciargli addosso tutto il contenuto del mio beauty-case.
Mi preparai in fretta e furia, indossando un paio di pantaloni da ginnastica che risalivano al mio periodo da liceale. Preferii un giubbino impermeabile alla felpa che avevo trovato nel cassetto, visto che raffigurava una Hello Kitty enorme e spaventosamente rosa.
Scesi in fretta, trovando Mario e Simone che si squadravano in silenzio.
«Buongiorno, principessa!» ridacchiò il mio migliore amico e subito l’altro “maschio” drizzò la cresta in segno di sfida.
«Vacci piano, bello,» ringhiò. «Siamo qui per correre o per chiacchierare?»
Posai una mano sul petto di Simone, cercando di frenare i suoi spiriti battaglieri. «Calma, Mario mi chiama così da quando abbiamo visto insieme “La vita è bella”,» gli spiegai.
Il calciatore parve poco convinto.
«Senza ulteriori indugi, partiamo?» propose il mio migliore amico.
Annuimmo entrambi, io un po’ meno convinta in effetti.
Quella giornata iniziò nel peggiore dei modi, e forse si concluse anche peggio. Se quello fosse stato uno dei capitoli della mia vita lo avrei intitolato Le dodici fatiche di Ven: la prima sarebbe stata “sopportare Simone e i suoi attacchi di gelosia”.
Girammo subito a destra, imboccando la piccola salita che conduceva al cimitero del paese. I due ragazzi schizzarono letteralmente in avanti, correndo l’uno di fianco all’altro e squadrandosi da capo a piedi. Nessuno di loro si voltò a sincerarsi delle mie condizioni.
Decisi di acquisire un ritmo costante, lento certo, ma costante. Altrimenti sarei spirata dopo nemmeno due metri. Visto e considerato che non facevo sport dal lontano 2011, mi meravigliai quando, passata mezz’ora, avvertivo soltanto un po’ di stanchezza.
Davanti a noi si stagliava una lunga salita irta di sassolini che rendevano la corsa più pesante e soltanto dopo averla superata avremmo svoltato sulla destra per proseguire lungo il Viale delle more. Era chiamato così perché c’erano rovi di more ovunque e verso la fine di Settembre si vedevano tutte le anziane del paese che le raccoglievano per poi farne una deliziosa marmellata.
Non potei nemmeno raccontare quell’aneddoto a Simone, perché lui e Mario avevano oltrepassato il viale continuando a correre come dei forsennati.
Rallentai un po’ il passo fissando il sole. Dovevano essere le otto e mezza ormai, a giudicare dall’altezza dell’astro e al periodo dell’anno in cui ci trovavamo.
Quelli erano piccoli trucchi che mio nonno mi aveva insegnato da piccola.
Verso la metà della salita, quando avevo ormai il fiato corto ed ero rimasta completamente sola e abbandonata a me stessa, mandai mentalmente a quel paese i due ragazzi e cominciai a camminare.
Mi presi alcuni momenti per riflettere, mentre il calore piacevole del sole mi scaldava le membra ancora intorpidite dalla corsa.
Cosa conti di fare una volta tornata a Londra?
Di tanto in tanto, nei momenti di maggior stimolo, anche il mio Cervello tornava a farsi sentire con le sue domande ben poco mirate.
Direi di ricominciare da dove ho interrotto. Ho deciso che passerò molto più tempo in ufficio e molto meno a casa, in modo da rallentare questa cosa con Simone e non destare sospetti.
Era un piano perfetto. Sapevo che una volta tornati, sarebbe anche arrivato il risultato degli esami che Simone aveva fatto prima di partire. Esami del DNA.
Davvero credi ancora di non essere completamente assuefatta?
Quella domanda mi fece trasalire.
Se il mio cervello avesse avuto un paio di occhi – e nella mia mente era vestito come Margaret Thatcher – a quest’ora li avrebbe roteati spazientito.
Sono mesi che ti ripeti questa cosa, che dici di lasciarlo, di prenderti una pausa, che sei devota unicamente al lavoro. Guarda in faccia la realtà, Venera. In fondo, io sono parte integrante del tuo corpo e so come funzioni.
Continuai a camminare, a passo più sostenuto.
L’adrenalina della corsa aveva evidentemente surriscaldato il mio cervello che non faceva altro che inviarmi immagini ben poco piacevoli. Una verità con cui dovevo fare i conti da tempo.
Perché non ne avevo parlato con Celeste? Per quale motivo continuavo a tenermi tutto dentro, nonostante ormai fosse chiaro pure ai sassi che mi stavo lentamente innamorando di Simone.
Innamorando.
Quella era una parola pressoché sconosciuta nel mio vocabolario.
Di Simone.
Quest’altra era addirittura in arabo.
Mi fermai un attimo per riprendere fiato, poggiandomi al tronco di un albero. Posai una mano all’altezza del petto, sentendo come il cuore galoppava forte battendo contro la gabbia toracica. Lì per lì pensai di avere un infarto, ma poi mi diedi della sciocca.
 
L’unico dolore del cuore dei ventenni è il mal d’amore.
 
Odiavo quando le parole di mia nonna mi ridondavano nella mente insinuandosi nelle pieghe del tessuto come dei parassiti. E odiavo ancor di più il fatto che avesse maledettamente ragione.
Altro che allontanamento, altro che separazione… ieri notte ne era stata la prova. Oltre quel corpo muscoloso e atletico c’era dell’altro, c’era un ragazzo cresciuto inseguendo un sogno a dispetto di ciò in cui credeva la sua famiglia.
Un ragazzo con un padre che non lo rispettava pienamente, che non gli dava gioie e soddisfazioni, un ragazzo che non aveva mai amato nessuno al di fuori di sé stesso.
«Venera?»
Una voce femminile mi sorprese ed io mi voltai di scatto.
Riconobbi una mia vecchia amicizia, prima di Celeste, di quando ero bambina.
«Elisa, ciao!» sorrisi, avvicinandomi alla mia coetanea che, con un bastone alla mano e un carrello nell’altra, portava la spesa a casa.
Ci salutammo e ci scambiammo i soliti convenevoli.
«Come va? Tutto bene?» mi chiese. «Ho saputo che ti sei trasferita in Inghilterra e che sei un avvocato. Complimenti!»
Arrossii, anche perché non ero abituata a sentirmi così al centro dell’attenzione. «Non sono ancora avvocato, ma faccio tirocinio in uno degli studi più importanti di Londra. Conto di diventare socia un giorno.»
Elisa mi sorrise radiosa.
Ricordavo ancora i nostri pomeriggi insieme a fingere di cucinare, di portare i bambolotti dal dottore e a rassettare case invisibili.
«Tu, invece? Che mi racconti?» le domandai, notando la spesa. «Aspetta, ti do una mano a portare almeno un sacchetto.»
«Grazie.» E me ne porse uno.
Ci incamminammo fianco al fianco risalendo il pendio per poi girare lungo il viale delle more. Elisa mi raccontò che al terzo anno dell’istituto agrario aveva incontrato Tommaso, e che dopo aver finito la scuola si erano sposati.
Lui mandava avanti l’azienda casearia del padre, allevando le bufale da latte. Lei si era sempre occupata della casa, soprattutto dei loro figli.
«Figli?» le chiesi stupita.
Elisa mi sorrise. «Ne ho tre, due maschi e una femmina.»
Il mio cervello fece rapido qualche calcolo e mi resi conto che a ventiquattro anni avere già tre figli faceva molto anni '20.
«Complimenti,» aggiunsi nervosa.
Non avrei mai voluto ammettere che forse era un po’ troppo giovane per avere già una famiglia così numerosa e lei parve intuire i miei pensieri.
«So cosa stai pensando, Ven. Ti capisco,» asserì sincera. «Tu hai fatto le tue scelte, hai preso un aereo, hai studiato, sei andata in un altro paese ad inseguire i tuoi sogni d’indipendenza e di una carriera redditizia,» snocciolò, apparendo molto più saggia della maggior parte dei laureati di Cambridge. «Anche io ho fatto la mia. Amo Tommaso e ho amato ogni singolo bagliore di vita che lui mi ha donato, compresi i bambini che sono venuti dal nostro matrimonio forse un po’ forzato dal destino.»
«Non avevo alcuna intenzione di giudicarti,» le dissi subito, per paura di averla offesa.
Elisa mi sorrise, tranquillizzandomi. «Non preoccuparti. Siamo nel 2014 ed è normale che la gente si sposi più tardi, che metta su famiglia alla soglia dei trent’anni, visto tutto il tempo che ci si impiega per laurearsi e poi cercare lavoro. Qui siamo rimasti un po’ indietro, e forse è anche un bene,» commentò.
Arrivammo al paese limitrofo, dove si trovava la casa di Elisa.
«Mi ha fatto molto piacere rivederti,» disse, prendendo l’altro sacchetto. «Spero che un giorno tornerai qui per farmi conoscere la tua famiglia.»
«S-Sicuro,» smozzicai.
Io che alla famiglia non avevo minimamente pensato.
Camminai ancora per qualche chilometro, prima di intravedere Simone che mi veniva in contro correndo. Pensai che era del tutto instancabile, nonostante fosse zuppo di sudore.
«Ehi!» mi raggiunse. «Pensavamo ti avessero rapita,» disse sorridente.
Dal modo in cui si pavoneggiava intuii che aveva vinto la corsa. «Mario?» gli chiesi.
«Ad un certo punto mi ha detto che doveva prepararsi per andare a lavoro, così ha mollato,» ridacchiò.
Lo fissai divertita. «Quindi hai vinto per abbandono?»
Simone subito mi fissò di sbieco. «Ero comunque in vantaggio,» sibilò contrariato.
Infilai le mani nelle tasche della giacca a vento. «Ciò non toglie che hai vinto per abbandono,» ripetei.
L’euforia con cui mi aveva raggiunto si era smorzata del tutto. «Possibile che tu non mi dia mai alcuna soddisfazione?» brontolò offeso.
Fu allora che un pensiero galeotto sfuggì alla mia mente sempre rigorosa.
Come sarebbe stato Simone come padre?
Lui mi restituì uno sguardo carico d’aspettativa nell’attesa che io gli dicessi qualcosa in merito al fatto che avevo smontato il suo ego. L’incontro con Elisa mi aveva turbata in un modo che non avevo previsto. L’idea di avere una famiglia non mi si era mai presentata, anche perché mi era sempre mancata una materia prima valida.
Simone non era certo l’esempio di maturità, di responsabilità, da ciò che avevo letto sul dossier stilato da James, di certo non era candidato come padre dell’anno, vista la causa con Miss Cloverfield.
Eppure per una frazione di secondo vidi me e lui davanti al fuoco, come quella famosa notte di Natale. C’era un'altra persona accanto a noi. Un bambino.
Scossi violentemente la testa e diedi colpa alla stanchezza.
Mi strinsi al braccio di Simone accerchiandolo, e cercando un contatto più profondo che mi mancava da un po’. Lui abbassò lo sguardo sorpreso.
«Per te mi sono sorbita novanta minuti di calcio, uno sport che odio. No ti basta?» gli sorrisi.
Simone cercò di trattenere una risata e si voltò addirittura dalla parte opposta pur di non farmi scorgere quel barlume di felicità che inconsapevolmente gli avevo donato.
Oh sì, quello era proprio amore.
 
***
 
I giorni passarono in fretta lì a Tivoli. Mio padre insisté per farci fare una passeggiata a cavallo nei boschi, per farci fare un’escursione nei monti lì vicino, mentre la sera eravamo sempre ospiti del gruppo di Mario.
Alla fin fine lui e Simone avevano fatto amicizia.
In paese lo avevano riconosciuto e subito era corsa la voce della presenza di uno dei calciatori d’oltreoceano in casa Donati. I bambini che incrociavano Simone per strada gli chiedevano un autografo o una firma sul loro pallone da calcio.
Si prestò perfino a farsi fare delle foto con la squadra del paese.
«Sono molto diversi dagli hooligans inglesi,» mi confessò un pomeriggio, spaparanzato sul mio letto mentre io riguardavo gli appunti del caso. «Mi ero dimenticato che aria si respirasse qui in Italia.»
«Non sei nato qui, scusa?» gli chiesi, incuriosita.
In fondo, Simone non si era mai scucito in merito alla sua infanzia. Le cose che avevo scoperto, o me le aveva raccontate Sofia oppure le avevo intuite dai loro discorsi in famiglia.
Simone mi guardò serio. «Mio fratello Gabe è nato qui, e anche io. Ma ci siamo trasferiti quasi subito, infatti Sofia è nata a Londra,» disse. «Conosco l’italiano soltanto perché mio padre lo parlava e anche quel cazzone di Leonardo. Mia madre, invece, odiava il fatto che lui ce l’avesse insegnato.»
«E perché?»
Misi da parte gli appunti e lo raggiunsi nel grande letto ad una piazza e mezza. L’idea di sapere di più sul suo passato mi faceva morire di curiosità.
Simone allargò le braccia ed io mi accucciai contro il suo petto, posando l’orecchio al centro di esso. Mi piaceva sentire la vibrazione della sua voce attraverso la stoffa del maglione blu.
«Lei è inglese di nascita e per quanto abbia amato mio padre, è cresciuta con una rigida educazione che le ha impedito di continuare ad essere sposata ad un uomo che ha lasciato il proprio lavoro, redditizio e di buon nome, per ritirarsi a fare l’agricoltore dall’altro capo del mondo. Non lo ha mai perdonato. Inoltre, non sopporta il modo “allegro” con cui gli italiani storpiano la sua lingua,» disse.
D’improvviso mi resi conto di quanto si era trattenuta quando aveva sentito il mio accento, accurato ma evidentemente non di madre lingua.
«Chissà che orribile impressione le ho fatto,» dissi mogia.
Lui prese ad accarezzarmi i capelli distrattamente. «Scherzi? Pendeva dalle tue labbra. Sofia mi ha detto che quando siamo andati via, ha continuato a tessere le tue lodi e a ripetere quanto fosse fiera che suo figlio stesse con una donna di cervello.»
Già, quando c’era stata quella riunione di famiglia tutti avevano pensato che fossi la ragazza di Simone.
E in seguito lo ero diventata davvero.
Mi voltai appena per guardarlo in faccia. I capelli un po’ più lunghi sparsi sul cuscino, la barba leggermente incolta. In quelle occasioni sembrava addirittura più grande dei suoi vent’anni e per un attimo mi crogiolavo a pensare come sarebbe stato se ci fossimo incontrati in ben altre circostanze.
«Hai mai pensato cosa sarebbe successo se non ci fossimo incontrati così?» gli chiesi, senza timore che mi ridesse in faccia.
Si portò una mano dietro la nuca per rialzarsi e guardarmi meglio. «Se tu non fossi stata il mio avvocato?» chiese.
Annuii pensierosa. «Probabilmente non mi avresti degnata di uno sguardo,» riflettei.
«Probabilmente,» constatò, ed io subito gli pizzicai il fianco per punirlo. «Ahi!»
«Colpa mia!» e sorrisi birichina.
Simone per vendicarsi mi afferrò per i polsi e mi sovrastò con il suo corpo, bloccandomi contro il materasso. I miei erano usciti per delle commissioni e la casa era silenziosa. Dovevo ammettere che il suo corpo mi era mancato, e tanto. L’averlo a così poca distanza dal mio non faceva altro che aumentarne il desiderio.
«Ma sarebbe stata solo questione di tempo,» disse, avvicinandosi lentamente.
«D-Di cosa?» arrancai, troppo eccitata.
Simone si lasciò andare completamente sul mio corpo, schiacciandomi piacevolmente con tutto il suo peso. Sì, decisamente ne avevo decisamente sentito la mancanza.
«Uhm, sono convinto che prima o poi mi sarei accorto di te. Magari al compleanno di Leonardo, oppure di qualcuno dei nostri amici in comune. Direi che mi sei rimasta impressa quattro anni fa, in positivo,» smozzicò, roco anche lui.
«Ora che ne dici se rompessimo una delle regole di questa casa?» mi sussurrò malizioso.
Intrecciai le braccia dietro il suo collo e lo tirai giù. «Battezziamo anche questa camera da letto,» ridacchiai.


Sorratemi il ritardooooo!!!
Dunque, come scusa principale dirò che sono in periodo esamoso (seh, come no!) oppure dovrei mettermi a scrivere i nuovi capitoli - anche - e vi faccio dannare per questi rimasti. SONO IMPERDONABILE!
Frustatemi se volete :3 #sadomaso.
Detto ciò, devo ancora rispondere alle recensioni degli scorsi capitoli. Praticamente su EFP non ci entro quasi mai puLLtroppo T_T
Infine, la moglie di Chicuccio ha partorito, sfornando quell'ammmmore di Milo che assomiglia tutto alla mamma (spero cambi, crescendo). Il prossimo pargolo lo sfornerà la mia wifuccia :3

Infine, ma quanto è dolce la famiglia di Ven?? *.*
Personalmente li adoro, perché sono un po' matti come la mia stessa famiglia. Devo dire che papà Donati è più fanghérl di tutte noi messe assieme e gli aggrada parecchio avere un genero così famoso!
E di Mario che mi dite?
Maaaaaaaaaaaaaaaaaarioooooooooooooo! :3
Lo amo!


Mi rimetto ai vostri giudizi!
Intanto se ve lo siete perso, qui c'è l'epilogo di Come in un Sogno, il prequel di questa :3

 
   
 
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