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Autore: Im_Not_Okay    21/08/2013    1 recensioni
DAL PRIMO CAPITOLO: "Era più o meno mezzanotte e lui era uscito perché non riusciva davvero ad addormentarsi, erano ore che ci provava. Era uscito nonostante sapesse benissimo che quella era una città pericolosa. Ad ogni angolo potevi trovare spacciatori di droga, ladri pronti a fotterti il portafoglio, criminali pronti a spararti in testa senza "se" e senza "ma". Eppure Alex aveva deciso di uscire comunque.
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Il volto completamente coperto da lacrime, calde, salate, pesanti... Dio, per quel che sapeva avrebbe potuto star piangendo sangue, tanto quelle gocce fuggitive facevano male. I singhiozzi gli impedivano anche di respirare, gli squarciavano il petto riducendolo a una piccola fogliolina tremante e impaurita rannicchiata in un angolo.
[****]
Il destino esisteva? Alex non lo sapeva. Nessuno lo avrebbe mai potuto sapere per certo. Ma di una cosa era sicuro, QUALCOSA che lo aveva spinto verso il piccolo che in quel momento era stretto al suo petto c'era. E sapeva che loro si erano sempre cercati, senza scoprirlo mai. Senza sapere nulla prima di quel momento. Ma ora, ora che si erano trovati... ora sapevano entrambi, sapevano che si erano cercati."
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E' una slash, omofobi VADE RETRO!!!! xD
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Sciau mondo!
Ebbene sì, ecco il secondo capitolo di questa fanfic... Beh, sarà un po' triste, ma era necessario. Comunque vedrete che le cose si sistemeranno, non le lascerò messe così male u_u non sono bastarda. 
Ringrazio LadyDepp e La Reveuse che hanno recensito lo scorso capitolo e sono state davvero gentili. 
Poi ringrazio le 3 persone che seguono questa cosa assurda, mi auguro che abbiano voglia di continuare a farlo :P
Okay, non vi trattengo oltre sennò mi picconate già adesso... I hope you like iiiiiiiiiiiiiiiit!!!!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Odore di Pioggia
 
 
Gli era praticamente svenuto fra le braccia. 
Non sapeva cosa fosse successo, né chi avesse ridotto quella creatura in quel modo che definirlo terrificante sarebbe stato solo un bieco eufemismo. Il buio rischiarato solo dalla fioca luce delle stelle non gli mostrava bene le condizioni del piccolo, quindi optò per l'unica cosa realmente possibile: portarlo a casa sua. 
Un uomo con in braccio un ragazzino privo di sensi non faceva scalpore o almeno, non nelle strade di Newark. Fortunatamente Alex dovette percorrere soltanto qualche centinaio di metri più quattro rampe di scale prima di raggiungere il suo appartamento in periferia e poi il piccolo era leggerissimo, non poteva pesare più di una cinquantina di chili. Era TROPPO leggero. Pesava TROPPO POCO. 
Alex sapeva che stava portando in casa sua un completo sconosciuto e non poteva non preoccuparsi. Però al contempo non riusciva a pensare che un essere del genere avrebbe potuto realmente fare qualcosa che sarebbe potuto essere etichettato dalla società come "male". Chiunque altro, i qualsiasi altra città del mondo, per prima cosa avrebbe pensato a portare il ragazzo a casa, chiamare medici e servizi sociali. Ma non Alex. Non in quella città che era il fulcro di tutto ciò che c'era di sbagliato e perverso sul pianeta terra. Per farla semplice, tutto questo NON POTEVA accadere, per nessun motivo. In primo luogo perché c'erano migliaia di bambini e ragazzi messi molto peggio di quella creatura pura che lui aveva fra le braccia in quel momento. I servizi sociali del luogo gli avrebbero riso in faccia se avesse denunciato quello che stava vedendo in quel momento, gli avrebbero detto che ricevevano tutti i giorni decine di chiamate del genere e che avrebbero dato priorità a casi ben più gravi. 
E poi Alex, anche se faticava ad ammetterlo a sé stesso, non voleva lasciar sparire dalla sua vita tanta innocenza, non avrebbe permesso che quegli occhi incontaminati vedessero ancora tutto lo schifo che c'era FUORI, non avrebbe lasciato scappare da lui quella creatura che era fragile come il cristallo eppure forte come un blocco di marmo senza carpirne tutti i segreti, tutte le sfaccettature, tutta la sua purezza nella sua forma più semplice ed elementare possibile. 
Lo portò fino a casa, non sapendo bene cosa si dovesse generalmente fare in quei casi e lo adagiò delicatamente sul su letto, sopra il piumone nero, poi accese una piccola lampada che si trovava sul comodino e lo scrutò per qualche secondo. 
Non gli avrebbe dato più di 15 o 16 anni al massimo, con quei lineamenti dolci, vagamente femminei e la sua altezza che, ipotizzò, fosse all'incirca di un metro e settanta. Aveva i capelli lunghi più o meno due dita, biondo cenere, scompigliati a tal punto che gli conferivano un'aria ancora più giovane, incrostati di sangue in certi punti. Infatti, subito dopo, Alex si rese conto che il viso era coperto di tagli e ferite varie e un esteso livido violaceo gli copriva la guancia sinistra. La pelle delle braccia era molto arrossata, anch'essa graffiata in molti punti. 
Pensò che sarebbe stato meglio togliergli di dosso i vestiti e poi lasciarlo dormire in pace e attendere il suo risveglio per vedere come stava. Allora, cercando di fare il più piano e il prima possibile in modo da lasciarlo riposare tranquillamente, gli slacciò le All Star rosse semi-distrutte e gliele sfilò togliendo subito dopo anche i calzini. Passò poi ai jeans strappati sulle ginocchia e non potè fare a meno di notare che anche sulle gambe non mancavano chiazze livide, ferite, recenti o più vecchie e cicatrici. Lo liberò anche della maglietta scura di una qualche band a lui sconosciuta e lo lasciò con addosso solo i boxer color bianco sporco, tendente al grigio chiaro. 
Andò ad appoggiare i vestiti sulla scrivania dall'altra parte della stanza e quando tornò indietro per sistemare il piumone addosso al ragazzo, notò che quest'ultimo si era girato su di un fianco, dandogli le spalle. Gli saltarono subito all'occhio i segni lunghi e viola sull'addome. Alex sapeva cos'erano e soprattutto sapeva quanto potevano fare male, quanto potevano bruciare. In tutti i sensi possibili. Da ragazzo ne aveva ricevute anche lui di vergate e le ricordava fin troppo bene, a volte gli sembrava di sentire ancora il dolore atroce ai fianchi. A occhio avrebbe detto che quelle sul corpo del piccolo erano state inferte con la classica quanto efficace canna. 
Stava per voltare lo sguardo, non reggendo più quella vista, quando la sua attenzione venne attirata da qualcos'altro. 
Notò infatti suna macchia rosso scuro sui boxer del piccolo. 
Sgranò gli occhi, incredulo, sperando davvero di sbagliarsi e fece qualche passo incerto e impaurito verso il corpo dormiente disteso sul suo letto. La mente gli gridava quella parola nelle orecchie, ma lui non voleva, non poteva crederci. Non la ascoltava. Eppure era così ovvio che era praticamente scontato... Allora perché Alex non riusciva a credere che fosse reale? Cazzo, era Newark quella! Cose del genere succedevano tutti i fottuti giorni! 
La sua testa gli ripeteva quella parola, quella cosa formata da due sillabe o sei lettere che lo tormentava: STUPRO. Stu-pro. S-t-u-p-r-o. Tutto tornava: le condizioni in cui lo aveva trovato, lo shock, lo svenimento e quella cazzo di chiazza che altro non era che l'ennesimo fiotto di sangue versato. 
Ma Alex non accettava che le cose fossero andate in quel modo, non al suo piccolo. Sì, SUO. Era una creaturina troppo ingenua e innocente per aver potuto subire tutto ciò. 
Sospirando pesantemente si accostò al ragazzo e gli sistemò addosso il piumone nero, coprendolo fin sopra le spalle e regalandogli una carezza lasciva sulla guancia ferita per poi andarsene in un'altra stanza e lasciarlo dormire.
 
[****]
 
Ian prese coscenza poco a poco, connettendo i primi pensieri, passando dal sonno ad uno stato di dormiveglia e torpore che ancora non lo aveva strappato via dal mondo dei sogni. Ecco, sapeva che prima stava sognado qualcosa, qualcosa di bello... ma non si ricordava cosa. Voleva ricordare e ritornare nel suo mondo onirico il prima possibile. Si strinse nelle coperte calde e si rannicchiò su sé stesso.
La realtà lo fece precipitare da metri e metri, facendolo schiantare a terra con un tonfo sordo. 
Quello non era il suo salice, non era il suo rifugio segreto. Ma non era nemmeno casa sua, non era la sua prigione. Sbatté un paio di volte le palpebre per colpa del raggio di sole che puntava dritto sui suoi occhi e mise a fuoco ciò che aveva davanti. Si trovava in una stanza che ovviamente non era la sua. C'era una grande finestra che dava sulla strada, un comodino e una scrivania piena zeppa di roba. Poi un armadio semplice di compensato. Le pareti erano arancio chiaro mentre il soffitto era completamente nero. Come il piumone in cui era avvolto. 
In quel momento si rese conto di non avere altro addosso che i suoi boxer e arrossì di colpo. Chiunque lo avesse portato lì aveva anche visto in che condizioni era e di questo non era propriamente felice, ecco. Era imbarazzatissimo, sarebbe volentieri affondato in quella chiazza color petrolio in cui era rannicchiato per non risalire mai più in superficie. 
Si chiedeva come avrebbe affrontato le occhiate di repulsione che chiunque lo avesse salvato gli avrebbe lanciato fin da subito. Non credeva che le avrebbe sopportate. Decise che sarebbe stato meglio alzarsi e cercare i suoi vestiti, vestirsi il più in fretta possibile e andarsene. Magari avrebbe lasciato un biglietto... o magari no. 
Ma non ebbe il tempo materiale per prendere una vera e propria decisione che la porta di legno scuro si aprì silenziosamente, svelando una figura alta e slanciata immersa nella semi-oscurità. Ian si sollevò velocemente, mettendosi seduto e trascinando con sé le coperte scure. Indietreggiò fino a schiacciare la schiena contro la testiera di metallo intrecciato del letto, che formava disegni e fantasie astratte, gemendo leggermente per colpa delle fitte prepotenti ai fianchi. 
Ian piantò gli occhi nelle iridi verde smeraldo del ragazzo che aveva di fronte. Se li ricordava quegli occhi del colore delle foglie in primavera, ricordava quel luccichio nelle pupille quando si erano posate sui suoi occhi arrossati e gonfi di lacrime, ricordava le sue dita fredde che gli sfioravano delicatamente la pelle bagnata della guancia che gli aveva fatto scendere i brividi lungo ogni terminazione nervosa, ricordava quelle braccia forti che gli avevano circondato la vita e stretto al petto dello sconosciuto e soprattutto ricordava l'odore di pioggia che aveva sentito. Eppure non pioveva da giorni. 
Iniziò a giocherellare con le dita e prese a fissarle molto intensamente. Non sapeva cosa dire, cosa fare, come comportarsi. Talvolta essere sé stessi è una pessima scelta. 
Il ragazzo aveva i capelli scuri, non avrebbe saputo dire se castani o neri, corti e arruffati, la pelle chiara ma non pallida, era altro, sicuramente più di lui e pareva avere all'incirca una ventina d'anni, forse un po' di più. Indossava una semplice felpa nera e dei jeans stretti e aveva iniziato a camminare sul parquet con i piedi scalzi, facendo scricchiolare leggermente le assi di legno. 
Ian si costrinse ad alzare il capo quando sentì il materasso cedere sotto un peso. I suoi occhi incontrarono subito quelli cristallini dello "sconosciuto" e in questi non c'era paura, non c'era pena, non c'era ripudio. Non c'era rifiuto. No, c'erano dolore, comprensione, dispiacere, preoccupazione. Voglia di fare qualcosa, di aiutare. 
Si tolse di dosso le coperte e guardò il ragazzo senza nome mentre faceva vagare lo sguardo su di lui, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. Ian gattonò fra le coperte fino a che non gli fu accanto. Voleva che lo abbracciasse, senza preoccuparsi delle ferite e dei lividi, senza preoccuparsi di procurargli dolore. Voleva che lo stringesse come aveva fatto la sera precedente, quando era ancora ignaro. Voleva che se ne fottesse di tutto e lo abbracciasse, voleva sentire ancora l'odore dolciastro della pioggia. Ma allora perché sentiva che tutto questo era così fottutamente sbagliato? 
- Come ti chiami? - sussurrò il moro, snodandogli i capelli con le dita. 
- Ian, - mormorò riprendendo a fissarsi le dita - E tu chi sei? E perché mi hai portato qui?
- Alexander, ma chiamami Alex. - asserì alzandosi in piedi - E tu, ragazzino, dovresti ringraziarmi visto che ti o praticamente salvato la vita. - e detto ciò uscì dalla porta, lasciando Ian solo e con ancora appiccicata addosso la voglia di un abbraccio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Yeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeh!
Ecco, questo capitolo è strano, lo so... povero Ian, ma per fortuna c'è Alex che fa l'orsachiottone tenero e me lo coccola un po', no? 
Mm, però.... stuprato, ve lo aspettavate? Eddai, ammettetelo, vi ho sorprese(/i)!!!! 
Sapevate dal capitolo precedente che era stato picchiato, ma il fatto che venga anche stuprato cambia tutto, no? Lo so, sono malefica e mi dispiace, ma non posso non scriverla così sta storia u.u
Beh, il prossimo capitolo dovrebbe arrivare la settimana prossima, boh... sempre che non mi uccidiate prima per quello che sto facendo a Ian, ovvio...
In molti mi dicono che scrivo in modo strano... è vero? O.o Bah, ditemelo voi... 
Spero di vedervi alle recensioni allora! ^_^
 
bye
 
Jas
   
 
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