Capitolo Due: Sangue
sull’Argento
Le
iridi verdi si specchiarono sulla lama lucida dello stiletto, per poi
appuntarsi sul viso corrucciato del ragazzino.
«Dove
hai preso questo pugnale?» volle sapere.
«In
giro» borbogliò Lovino.
Antonio
puntò i gomiti alle ginocchia e intrecciò le mani
davanti alle labbra, strette
in un’espressione grave.
«L’hai
rubato sulla nave?»
«Me
l’hanno dato gli uomini di mio padre» Lovino storse
un angolo della bocca,
disgustato dal sapore amarognolo dell’arrendevolezza. Lo
stemma del Vaticano
era visibile nelle intarsiature pompose dell’elsa, e
l’affilatura impeccabile
della lama rivelava l’arte di un fabbro di prima scelta.
Le
sopracciglia scure del capitano si curvarono dubbiose.
«Non
dovevano giustiziarti?»
«La
Gehena reclamerebbe la loro anima, se permettessero a un Vaticano di
morire
senza avergli dato una minima possibilità di
difendersi» salmodiò Lovino.
Antonio
chiuse le palpebre e le massaggiò brevemente, esalando un
sospiro esasperato.
Dovevano ucciderlo, ma non potevano sporcarsi le mani; dovevano
assicurarsi che
morisse, ma non potevano lasciarlo totalmente inerme.
«Ecco
perché mi sono fatto scomunicare» esalò
tra i denti, prima di aprire nuovamente
gli occhi. «Per quale motivo sei venuto nella mia stanza con
un pugnale?»
Lovino
girò su se stesso, sollevando i capelli per scoprire la base
del collo. La
lampada a olio della cabina del capitano ricamò baluginii
zafferano
sull’argento del tatuaggio.
«Voglio
toglierlo» le dita si strinsero in un moto di rabbia sui
capelli. «Non voglio
più avere niente a che fare con il Vaticano. Ma da solo non
ci riesco» una
punta di risentimento inasprì la sua voce: avrebbe voluto
chiudere il capitolo
della sua vita come Vaticano con le sue stesse mani, ma quel maledetto
stemma
era troppo difficile da raggiungere.
Antonio
esaminò i risultati dei feroci tentativi del giovane: le
unghie avevano scavato
la pelle ai lati del tatuaggio, e i bracci della croce erano annegati
in una
laguna di rivoli sanguigni. Tuttavia, per quanto il ragazzo si fosse
scorticato
il collo, il tatuaggio era ancora tremendamente visibile.
Il
pugnale emise uno stridio argenteo, e il suono più delicato
di un fazzoletto di
stoffa frusciò nelle orecchie del giovane.
«Mordilo»
ordinò Antonio, consegnandogli il quadrato di tessuto.
«Nessuno riesce a
rimanere in silenzio, mentre la sua carne viene tagliata.»
Lovino
obbedì con insospettabile prontezza, ficcandosi la stoffa in
bocca.
Il
tremore che non aveva scosso la voce acerba del ragazzino scorreva
sotterraneo
nelle spalle, che il giovane manteneva ferme a fatica. Doveva essere
spaventato
a morte all’idea di un pugnale così vicino al suo
collo. A dispetto del suo
temperamento abrasivo, restava un rampollo di estrazione nobiliare: era
stato
cresciuto in un ambiente ovattato, in cui le noiose lezioni del
precettore e le
interminabili funzioni alla Abbazia erano i mali peggiori.
Antonio
passò un dito sul dorso del pugnale.
Si
chiedeva cosa potesse provare un ragazzino abituato agli agi
dell’aristocrazia
nell’essere scaraventato nello strato più basso
del mondo comune, quello dei
malviventi. Probabilmente, per la sua anima di vetro la vita di bordo
era un
inferno e loro una masnada di diavoli privi di controllo o decoro.
Accostò
il filo della lama al collo del ragazzo, e vide la sua pelle
accapponarsi per
il timore. Avrebbe potuto offrirgli di sedersi sul letto, ma non lo
aveva
fatto: comprendeva quanto quel brusco cambio di vita potesse essere
orribile
per il piccoletto, ma non poteva dimenticare del tutto il suo
risentimento per
i nobili. Voleva vedere fino a che punto quel giovane avrebbe resistito
prima
di crollare a pezzi.
La
filatura si inabissò senza alcuno sforzo nella carne tenera
del giovane, e
scavò con facilità sotto la pelle. Il fazzoletto
smorzò un’esclamazione di
dolore, e i pugni si strinsero fino a sbiancare le nocche per evitare
che le
mani corressero ad allontanare quello strumento di tortura.
Antonio
apprezzò quegli sforzi di contenimento e seguitò
a scavare. Con sua grande
sorpresa, quello che credeva un tatuaggio non era una semplice pittura
sulla
pelle: era una sottilissima placchetta di metallo, arpionata al collo
del
giovane mediante un sistema di microscopici ganci. Questo lo costrinse
a
incidere più a fondo nei punti in cui il simbolo dei
Vaticani si aggrappava
alla pelle del giovane, e ogni volta una contrazione nervosa si
scaricò lungo
la schiena del piccoletto.
Furono
i dieci minuti più lunghi della vita di Lovino, prima che il
capitano vi
mettesse termine annunciando:
«Ho
finito.»
Le
ginocchia del ragazzo cedettero per un istante, ma la sua testardaggine
gli
impedì di crollare al suolo proprio davanti
all’Ispanico. Antonio scacciò il sorriso
dalle proprie labbra quando Lovino si rialzò con
l’equilibrio barcollante di un
ubriaco.
«È
una specie di targhetta di riconoscimento?»
s’informò Antonio, facendo sfilare
un’unghia sulla sottile scia di rune che correvano sul
braccio più lungo della
croce.
Lovino
premette il fazzoletto che aveva morso fino a quel momento sulla ferita
e
rispose, seccato:
«È
un lasciapassare per le Ville Vaticane.»
«E
ti hanno lasciato scappare con una cosa così
importante?»
«Nessuno
mutilerebbe mai un Vaticano.»
Il
rancore nel tono di Lovino era paragonabile allo scetticismo negli
occhi di
Antonio. L’ipocrisia che si nascondeva sotto l’oro
e il bianco delle divise
Vaticane avrebbe potuto tappezzare l’intero Palazzo di Quarzo.
«Qualcuno
avrebbe potuto strapparlo al tuo cadavere» Antonio
proferì quell’ipotesi con la
brutale schiettezza di un uomo avvezzo alla morte. «Non hanno
pensato a questa
eventualità?»
«Probabilmente
hanno disattivato il mio codice. Sono falsi, ma non sono
stupidi» Lovino si
gettò a sedere sulla poltrona del capitano, la mano ancora
premuta sulla
ferita.
Antoniò
fissò la croce insanguinata adagiata sul suo palmo e il
ragazzino spossato
accasciato sul suo scranno.
«Perché
hai voluto toglierlo?» domandò, mostrandogli la
piastrina ancora gocciolante.
Lovino
scostò il fazzoletto per esaminarlo: una stella irregolare
di sangue sporcava
il tessuto, e il giovane lo rimise a posto con un sospiro irritato.
«Non
voglio un marchio di appartenenza. D’ora in poi, voglio
essere libero»
dichiarò. «Così potrò
insegnare a mio fratello come si vive senza catene,
quando lo incontrerò di nuovo.»
La
croce roteò nell’aria, e venne afferrata al volo
dal capitano, che la appoggiò
sulla scrivania, esattamente a metà tra lui e il ragazzo.
«Fai
attenzione, Lovino» lo redarguì. «Vivere
senza legami non significa essere
liberi. Significa essere soli.»
Il
fazzoletto fu schiaffato sulla croce, e Lovino lo stese con un gesto
secco, in
modo che la macchia di sangue fosse bene in esposizione.
«Questo
è il mio legame» sbottò Lovino,
l’eco delle parole scambiate con il fratello
che gli rimbombava nella mente.
Se
anche dovessero dividerci, io sarei
nel tuo sangue, nei tuoi sogni e nei tuoi ricordi. Siamo gemelli.
Antonio
afferrò il fazzoletto usando solo l’indice e il
medio, e lo sventolò con
eleganza derisoria davanti al naso del giovane.
«E
ti basta un unico legame per tutta la vita?»
Lovino
raddrizzò la testa con orgoglio adamantino, e una goccia di
sangue rotolò lungo
il collo prima di morire sulla camicia in un fiore scarlatto.
«Fino
alla morte» asserì, gli occhi e la voce di ferro.
Il
capitano drappeggiò il fazzoletto sporco sulla croce,
vagamente compiaciuto
dalle reazioni del giovane. Non si era opposto al dolore del pugnale, e
non
lasciava impallidire le sue certezze.
Le
mani erano troppo perfette per essere mai state impiegate in un qualche
lavoro
di fatica, e le spalle magre non avevano sopportato altri pesi al di
fuori
delle sfarzose vesti Vaticane; tuttavia doveva riconoscere al ragazzo
una
tenacia abbastanza lodevole. Pensava che i nobili nascessero con un
pugno di
piume al posto del fegato, ma il piccoletto stava dimostrando una
discreta
tempra, a dispetto delle ginocchia tremanti.
Antonio
gli indicò la porta, serafico e inflessibile.
«Vai
dal medico di bordo a farti bendare. Domani mattina devi essere pronto
per
lavorare.»
***
Era
passata una settimana da quando il signor Vargas gli aveva presentato
il
protetto cui avrebbe dedicato la vita.
Era
un onore difendere l’Asse e, con esso, l’equilibrio
della Confederazione. Ma,
qualche volta, Ludwig si sorprendeva a sperare che quel giovane
smettesse di
sorridere.
Il
precedente Asse non scostava mai la sua espressione dalla distaccata
serenità
propria dei santi, e il suo sorriso pacifico avrebbe rasserenato
all’istante
perfino un toro inferocito. Il viso del suo successore, per contrasto,
era artificiale
come il ghigno delle maschere grottesche del Carnevale pagano; era
perennemente
spianato in un sorriso fittizio, ben cementato sulle labbra e sugli
occhi.
Il
precedente Asse sorrideva con il cuore di un angelo, il suo successore
con l’abilità
di un falsario. Non riusciva nemmeno a intuire quali pensieri
affollassero la
mente del giovane mentre stava chino sull’altare a pregare, o
quando gli si
rivolgeva con esagerata gentilezza. Perfino quando mangiava pareva che
la sua
mente non fosse rivolta al cibo ma a qualche luogo lontano migliaia di
chilometri, la cui esatta ubicazione era ben nascosta da quel sorriso
fasullo.
Ludwig
sistemò distrattamente la cinghia dello spadone sulla
spalla. Il suo lavoro era
proteggere l’Asse, non di spremergli le meningi.
Nel
momento esatto in cui prese questa solenne decisione con se stesso,
qualcosa
cambiò.
All’improvviso,
l’imperituro sorriso si incrinò, e dalle sue crepe
sgorgarono incredulità e
gioia mentre una mano guantata di bianco correva a tastare lo stemma
Vaticano
sul collo.
Le
labbra e le ciglia del giovane tremarono, così come le mani
che percorrevano
frenetiche la piccola placca d’argento.
«Mi
fa male…» mugolò l’Asse.
Ludwig
fu più veloce del lampo nel portarsi al suo fianco, ma
Feliciano lo allontanò
con garbo.
«È
una cosa buona. Significa che mio fratello è vivo»
il guanto di pelle bianca
attutì l’applauso di gioia dell’Asse.
«Non è successo niente per cui il mio
stemma dovrebbe farmi male, giusto? Questo significa che fa male a mio
fratello. E se gli fa male, significa che è vivo!»
«Non
sapevo che voi aveste un fratello.»
Una
nuova emozione ancora scorse sul volto del giovane, quella
dell’incredulità
indignata.
«Come
è possibile?» pretese di sapere Feliciano,
rialzandosi dall’inginocchiatoio.
«Vostro
padre ha sempre detto di aver avuto un solo figlio. Non ne ha mai
menzionato un
secondo» notando l’espressione ferita sul volto del
giovane, Ludwig si sentì in
dovere di aggiungere: «Per qualche motivo, vostro padre non
ha ritenuto
necessario divulgare questa informazione…»
«È
da così tanto tempo che desidera liberarsi di
Lovino?»
Le
parole di Feliciano non fecero più rumore del fruscio della
sua veste mentre
muoveva un passo verso la parete, ma Ludwig le udì
ugualmente.
«È
il nome di vostro fratello?» s’informò
con garbo.
«È
il nome del mio gemello» precisò Feliciano.
A
Ludwig non furono necessarie ulteriori spiegazioni per comprendere. Le
superstizioni narravano che i gemelli fossero di pessimo auspicio,
poiché erano
due corpi che condividevano un’unica anima. E un Asse,
dominatore del destino
della Confederazione, non poteva di certo sostenere una simile
responsabilità
con una sola metà del proprio spirito.
Feliciano
sollevò il berretto, passò una mano tra i capelli
ramati e trasse un profondo
respiro prima di esordire:
«C’è
qualcosa che vuoi proteggere, Ludwig?»
Il
Guardiano sussultò interiormente. Non sapeva che
l’Asse fosse a conoscenza del
suo nome. Nell’ultima settimana avevano scambiato a malapena
qualche parola, ed
era convinto che quel giovane fosse talmente disinteressato a
ciò che non
riguardava lui stesso da rimuovere istantaneamente qualunque
informazione a
riguardo.
«Proteggo
voi» rispose, marziale.
Una
risata sgorgò dalle labbra di Feliciano e, quando questo si
voltò, una
curvatura del tutto inedita gli addolcì le labbra.
«Sei
obbligato a proteggermi, è il tuo compito. Voglio sapere se
c’è qualcosa che
vuoi proteggere al di là del dovere» il ragazzo si
avvicinò di nuovo
all’inginocchiatoio e si sedette sul basso legno imbottito,
passando un
polpastrello foderato sul pavimento lindo. «Io devo
preservare tutta la
Confederazione, ma ciò che vorrei davvero difendere ha lo
spirito di un leone e
la lingua di un serpente» il giovane appoggiò il
capo adornato dal cappello
bianco sul bracciolo dell’inginocchiatoio, e lo
guardò con una luce incuriosita
negli occhi: «Non hai niente di simile?»
Il
Guardiano dirottò lo sguardo verso il pavimento, alla
ricerca di una risposta
che potesse soddisfare l’Asse senza rivelare quella parte del
suo passato che
aveva giurato di mantenere segreta.
«Anche
io ho un fratello fuori di qui» telegrafò infine.
Feliciano
chinò piano la testa, compiaciuto.
«Ti
manca?»
«Non
vedo mio fratello da molto tempo.»
«E
la cosa ti rattrista?»
«Voi
siete rattristato dalla lontananza di vostro fratello?»
Ludwig gli ritorse
contro la sua stessa domanda, per evitare di dovervi rispondere.
Felicianò
dondolò placidamente il capo un paio di volte prima di
rispondere:
«Mi
manca tantissimo. Ma spero che là fuori abbia trovato tanti
motivi per
sorridere. Così un riflesso dei suoi sorrisi
arriverà fino a me, e ne sarò
felice anche io» il mento affusolato del ragazzo venne
appoggiato sulle
ginocchia, raccolte al petto. «E nutro anche la speranza
più egoista che non si
sia scordato di me. Anche se il mio ricordo dovesse inquinare la sua
gioia» Feliciano
reclinò nuovamente il capo su una spalla e concluse:
«Provi anche tu lo stesso?»
Trascorse
qualche istante di immobilità prima che l’aria
venisse scossa dalla replica
seriosa del Guardiano:
«Io
spero che mio fratello riesca a dormire bene.»
Una
domanda incuriosita si affacciò dal sorriso del giovane, ma
fu scacciata quando
il ragazzo scosse la testa. L’Asse si ricompose nella posa
cerimoniale e
riprese a pregare.
Ludwig
non distolse lo sguardo dalla sua figura inginocchiata. Non lo avrebbe
mai
ammesso, perché ogni buon Guardiano deve amare il proprio
lavoro, ma detestava
essere stato assegnato al Palazzo di Quarzo e all’Asse, per
quanto quel compito
fosse onorevole. Tuttavia, dopo quelle poche parole, sentiva di trovare
meno
insopportabile l’essere costretto al fianco di quel ragazzo.
Era
riuscito a intravedere un’anima dietro la pantomima
dell’Asse. Ed era uno
spirito affamato di affetto che nutriva se stesso con
l’illusione di rivedere
il gemello, un giorno. Una povera anima sola, abbandonata negli immensi
corridoi del Palazzo di Quarzo, che cercava di proteggersi da ulteriori
ferite
camuffandosi con un sorriso artificiale.
Sfiorò
la custodia dello spadone, assorto.
Separato
da un fratello scomodo e costretto a imparare un modo per difendersi da
tutto e
tutti. Le strade che avevano percorso lui e l’Asse erano
parallele. Per questo
poteva comprendere il suo dolore talmente a fondo da avvertire una
spina
conficcarsi nel suo cuore.
Batté
le palpebre un’unica volta prima di appuntare di nuovo le sue
iridi di ghiaccio
sul ragazzo in preghiera.
Non
esistono lupi cattivi, Ludwig. Solo
lupi molto infelici.
La
lezione di tanto tempo prima gli affiorò nella mente.
Come
sempre, suo fratello aveva ragione.
***
«Se
permettete una parola, Capitano, il nuovo mozzo non mi
convince.»
Antonio
fece stridere la pietra affilatrice sull’ascia con
particolare veemenza, in
modo che quell’ululato metallico sopperisse alla sua mancata
risposta.
Poteva
capire perché il tenente di vascello nutrisse dei dubbi
riguardo l’utilità del
trovatello che proprio in quel momento stava imprecando contro le corde
che gli
si erano aggrovigliate attorno alle caviglie, facendogli quasi
rovesciare il
barile che stava portando in braccio. Lo osservarono zampettare fuori
dal
roveto di cordame e traballare sotto il peso della botte.
«Potrebbe
rivelarsi utile. È pur sempre un Vaticano»
minimizzò Antonio.
«Un
Vaticano ripudiato.»
«Potrebbe
avere qualche potere» ipotizzò, in tono neutrale.
Il discorso avuto con Lovino
una settimana prima nella sua cabina lo aveva incuriosito enormemente:
si
chiedeva quali capacità avessero potuto bollarlo come
gemello malefico, ma non
aveva intenzione di lasciar intuire il suo interesse a tutto
l’equipaggio.
Inoltre, non aveva ancora visto quale fosse il limite ultimo cui quel
ragazzino
fosse disposto a spingersi pur di incontrare di nuovo il fratello.
«Ma
non è mai stato in battaglia, è chiaro come il
sole!» protestò il tenente. «In
che modo…»
L’ascia
tagliò l’aria e le obiezioni del subordinato,
quando il capitano la fece
scattare verso il suo volto. Il tenente deglutì lentamente,
vedendo il suo
stesso mento riflettersi sulla lama lucida. Il colore livido sulle sue
guance
rivelò la precipitosa ritirata del suo sangue nei piedi, il
più lontano possibile
dalla Aguja Paladar,
la temutissima ascia del capitano Antonio Fernandez
Carriedo.
«Apprezzo
i consigli» scandì lento l’Ispanico, gli
occhi aguzzi e freddi come il metallo
dell’ascia. «Ma non dimenticarti chi è
il capitano, tenente.»
«Chiedo
scusa, signore.»
Il
sangue osò affacciarsi di nuovo sulle gote smunte solo
quando l’ascia tornò a
essere appesa alla schiena del capitano.
«Avremo
modo di testare la sua utilità tra poco»
sancì Antonio. Calcò il cappello sulla
testa prima di lanciare uno sguardo concentrato
all’orizzonte. «Esistono ancora
degli sprovveduti disposti ad attaccarci.»
Il
tenente estrasse veloce il binocolo e scrutò a sua volta il
cielo piatto
intorno a loro: una nave puntava nella loro direzione, i razzi
propulsori che fiammeggiavano
alla massima potenza; avrebbero subito un arrembaggio entro pochi
minuti.
Ripose il binocolo, un brivido di ammirazione mista a timore per la
capacità
del capitano di prevedere l’arrivo dei nemici: una dote
compresa nel forziere
delle qualità dei Carriedo, che Antonio aveva accennato ma
mai spiegato. Il
capitano, da buon combattente, non rivelava mai la piena portata delle
sue
capacità.
«Tra
pochi minuti, una nave nemica ci assalirà»
comunicò autoritario, esaminando i
suoi uomini. «Chi non vuole combattere è libero di
ritirarsi sottocoperta. Non
voglio codardi o incompetenti sul ponte» si fermò
esattamente davanti a Lovino,
e gettò un’occhiata al suo viso incupito. Il
ragazzo rispose con un silenzio
burrascoso e un’occhiata in cui si rimescolavano
testardaggine, paura e
orgoglio. Il capitano distolse lo sguardo dopo qualche secondo: non
aveva tempo
da sprecare con i novellini desiderosi di gettare al vento la loro vita.
«Sono
visibili dieci uomini sul ponte, capitano» avvertì
il tenente. «La nave è
abbastanza grande da contenerne altri dieci sottocoperta.»
«Un
gioco da ragazzi!» abbaiò un bucaniere con la gola
essiccata dal tabacco.
«Posso
farcela da solo.»
L’annunciò
colò come una cascata di ghiaccio sui marinai,
paralizzandoli nell’incredulità.
Una
frase così prepotente, pronunciata dal membro
dell’equipaggio che più di tutti
avrebbe dovuto essere spaventato dalla prospettiva della battaglia,
congelò gli
animi dei presenti prima di farli esplodere in un poderoso coro di
risate.
Gli
angoli della bocca di Lovino tremarono per l’indignazione, ma
non abbassò lo
sguardo mentre i marinai deridevano con parole rudi la sua
dichiarazione.
Il
capitano fu l’unico a rimanere estraneo a quella
deflagrazione di ilarità. Si
avvicinò invece a Lovino e domandò:
«Come
vorresti risolvere questa faccenda?»
Lovino
sbocconcellò la risposta con rabbia, mentre arrotolava le
maniche troppo lunghe
della camicia che i mozzi gli avevano prestato:
«Sono
un Vaticano. Vedrete» e aggiunse, a voce più alta:
«Non vi costa nulla farmi
andare per primo. Se avrò ragione io, vi avrò
risparmiato uno scontro. Se avete
ragione voi, vi libererete di me.»
Sapeva
che non lo consideravano parte del loro gruppo. Lavorava sempre da
solo, al
contrario degli altri marinai, che venivano sempre raggiunti dai
chiassosi
compagni; nessuno gli aveva mai offerto di scambiare il cibo dal
piatto, cosa
che gli altri facevano con rumorosa allegria. Riservavano per lui gli
interrogativi venati di disgusto, come se si chiedessero costantemente
perché a
un simile rospetto fosse stato permesso di mettere piede sulla Reina de la Oscuridad,
l’Aeronave della
temibile famiglia Carriedo. Era stanco di farsi invischiare nel loro
disprezzo:
si sarebbe scrollato di dosso quella fanghiglia umiliante una volta per
tutte.
Nessuno
mosse un dito per fermarlo mentre si avvicinava al parapetto. Stavano
certamente pregando perché lui “tirasse le
cuoia”, secondo il colorito
vocabolario dei lupi di mare: sentiva le loro speranze premergli sulla
schiena
quasi cercassero di buttarlo giù dalla nave. Solo il
capitano si limitava a
fissarlo senza alcuna emozione apparente sul viso, semplicemente in
attesa.
Lovino
si riempì i polmoni con l’aria creata
dall’atmosfera artificiale che inglobava
l’Aereonave per permettere all’equipaggio di
respirare anche nello spazio
aperto. Antonio doveva amare molto il vero mare: aveva fatto in modo
che il
pungente odore salmastro dell’oceano scorresse libero
all’interno
dell’atmosfera artificiale.
I
ciuffi ramati disegnarono una buffa ruota quando Lovino scosse la
testa: non
era il momento di pensare al capitano e ai suoi profumi preferiti.
Osservò
la Aeronave nemica dirigersi in picchiata verso di loro. Chiuse gli
occhi e
congiunse le mani in preghiera. Morse appena le nocche intrecciate,
mentre il
ricordo delle parole del padre gli azzannava le viscere.
Speriamo
che il suo potere blasfemo
muoia con lui. Una simile propensione può portare solo
disgrazie.
Torse
la bocca in un ghigno amaro. Avrebbe usato le sue capacità
per aiutare un
branco di pirati a uccidere dei loro pari. Non poteva dare torto al
padre, in
fondo.
Perfino
i marinai più consumati indietreggiarono alla vista della
bestia richiamata da
Lovino. Solo Antonio rimase fisso nella sua posizione: gli spettacoli
di
Gilbert e Francis in passato lo avevano immunizzato alla sorpresa per
la magia.
Tuttavia non riuscì a mascherare il suo stupore nel vedere
un simile potere in
un corpo così mingherlino.
La
schiena di Lovino si aguzzò in una foresta di minuscole
creste di oscurità, che
poi si gonfiarono formando un torso animalesco, incurvato in una
posizione di
attacco. Dalla bocca del giovane si allungarono delle fauci tenebrose,
e due
occhi rossi si aprirono sulle sue palpebre chiuse. L’intero
corpo della bestia
d’ombra pulsò e si contorse, fino a che, con un
guizzo delle zampe mostruose, un
enorme lupo si distaccò dal corpo esile del giovane.
Lovino
stese una mano, accarezzando per la prima volta il suo famiglio. Nella
Villa
non gli avevano mai concesso di sviluppare il suo dono, e non gli
avevano mai
permesso di evocare la bestia che il piccolo sentiva ringhiare nella
sua testa.
Era qualcosa di sacrilego, e andava soppresso. Ma Lovino aveva
continuato a
sentire l’uggiolio di quell’animale dentro di lui,
per cui a volte aveva fatto
emergere dalla sua pelle una zampa nera o una coda ispida per
acquietarlo.
Alcune volte, invece, gli parlava mentre il fratello dormiva e, durante
una di
quelle chiacchierate unilaterali notturne, aveva dato un nome a quella
povera
creatura intrappolata dentro di lui: Roma. Non aveva mai potuto
lasciarlo in
libertà, poiché non era sicuro di poterlo
controllare, e non voleva che
seminasse il panico nei sacrosanti corridoi della Villa; al contrario,
il ponte
di quell’Aeronave era lo scenario perfetto per permettergli
finalmente di
uscire all’esterno.
Roma
si rivelò sorprendentemente docile al suo tocco: Lovino
avvertì le creste
d’ombra guizzanti appiattirsi sotto la sua mano, come se
l’animale abbassasse
le orecchie per essere accarezzato. Si chiedeva cosa avrebbe detto il
signor
Vargas, vedendolo accudire un lupo spettrale, composto di sole tenebre
e
fiamme. Forse lo avrebbe schedato come ulteriore conferma della
malignità dei
gemelli.
Lovino
si chinò appena per bisbigliare sul capo chino del lupo:
«Sai
cosa fare, Roma.»
La
bestia fletté le zampe e partì
all’attacco con un ululato infernale.
L’intero
equipaggio osservò il lupo procedere a rapide falcate verso
i nemici e
avventarsi sul loro ponte spalancando le fauci diaboliche. Ma prima di
toccare
il legno dell’Aereonave, il corpo del lupo si disperse in una
rete di rivoli di
fumo plumbeo: prima le zampe, poi il torace muscoloso, quindi il collo,
fino a
che non rimasero solo due scintillanti occhi rubino sospesi nel vuoto.
E
fu in quel momento che ebbe inizio il panico: bastò un solo
tocco di quella
foschia nefanda perché l’intera ciurma nemica
impazzisse. I marinai
strabuzzarono gli occhi e cominciarono a correre per il ponte creando
un caos
totale: alcuni si gettarono dal parapetto, spaventati a morte da
allucinazioni
infernali; altri, alla ricerca di una via di uscita inesistente dal
sortilegio
mentale, chiazzarono di sangue e liquidi cerebrali i muri di legno
della nave
fino ad accasciarsi al suolo con la testa fracassata; altri ancora
imbracciarono le armi e cominciarono a falciare i loro compagni,
urlando come
ossessi fino a gettarsi loro stessi sulle proprie lame.
L’equipaggio
di Antonio assistette ammutolito al suicidio violento dei rivali, e un
silenzio
tombale accolse la nave avversaria quando il suo pennone
accarezzò quello della
Reina dell’Oscuridad. Il
ponte rivale
era un cimitero di armi abbandonate, pozze di sangue e cadaveri che
ancora
fissavano con occhi allucinati la visione che li aveva portati alla
morte.
Nessuno
emise un fiato quando i tentacoli di nebbia di carbone avvolsero la
piccola
figura di Lovino, che li assorbì fino a farli scomparire di
nuovo all’interno
del suo corpo. E nessuno dimenticò la ferocia nelle pupille
rosse che li
fulminarono poco prima di sprofondare nelle palpebre chiuse.
Il
giovane aprì lentamente gli occhi, e lo spettacolo della
devastazione dei
nemici gli accoltellò le pupille. Non era sufficiente
conoscere il proprio
potere per accettare le sue conseguenze: una scossa elettrica gli
polverizzò le
ginocchia, facendolo cadere sul ponte, e premette entrambe le mani
sulla bocca
nell’inutile tentativo di trattenere i conati di vomito.
Una
mano forte gli si appoggiò sulla spalla tremante, mentre un
mozzo gli
posizionava un catino sotto il mento un secondo prima che gli argini di
Lovino
cedessero. Le dita sulla sua spalla si strinsero mentre il suo stomaco
si
rovesciava nel bacile.
«Uccidere
una persona nella propria testa e ucciderla davvero non sono la stessa
cosa»
tuonò gentilmente una voce vicino al suo orecchio.
«Anche
i Carriedo…» barbugliò Lovino,
respirando con fatica tra gli spasmi. «Sono
capaci di questo?»
La
mano abbandonò la sua spalla e la risposta del capitano non
sciolse i suoi
dubbi:
«No.
Sappiamo fare altre cose.»
La
giacca dell’uomo gli schiaffeggiò la schiena
quando Antonio si rialzò e
declamò:
«Qualcuno
ha ancora obiezioni sulla presenza di questo ragazzo nella
ciurma?»
Non
si sollevò nemmeno una contestazione, e Antonio
annuì soddisfatto.
«Dagli
qualche giorno per abituarsi ai tuoi poteri, e dopo ti
adoreranno» bisbigliò,
abbassandosi nuovamente sul ragazzino debilitato.
Lovino
deglutì con fatica e annaspò:
«Ogni
anima completa ha luce e ombra, ma i gemelli ne dividono una in due,
per questo
un gemello nasce ombra e uno nasce luce. E per questo mio fratello ha i
poteri
dell’Asse e dell’equilibrio mentre io ho quelli del
Caos.»
La
mano del capitano scese sulla sua testa, nell’imitazione
ruvida di una carezza.
«Vai
dal medico a farti dare un antiemetico prima di buttare fuori anche il
fegato»
consigliò.
Antonio
comandò a due marinari di sorreggerlo fino alla cabina del
dottore, e ordinò ad
altri sette di saccheggiare la nave nemica. Dopodiché si
godette lo spettacolo
del ragazzino che arrancava a fatica sottocoperta con le sue stampelle
umane, e
il suo sguardo venne calamitato dalla benda che copriva la ferita con
cui il
ragazzo si era liberato della sua targhetta di riconoscimento.
Quel
giovane era un’erbaccia cresciuta tra i gigli: conosceva i
loro ritmi di vita,
ma restava più forte e più tenace di tutti loro.
Appoggiò
i gomiti al parapetto, osservando l’ostinata testa ramata del
piccoletto
sparire nel rettangolo della porta.
Sarebbe
stato interessante vedere come la vita sull’Aereonave avrebbe
cambiato quel
rospetto.
E,
se fosse cresciuto bene, non gli sarebbe dispiaciuto mettere il suo
simbolo nel
posto vuoto lasciato dalla croce d’argento.
«Estaremo a vedere»
sospirò allo spazio
intorno a lui.
Un
buon capitano sapeva quando occorreva aspettare.
***
«Non
riuscite a dormire?»
L’unico
colore nella stanza era la chioma ramata del futuro Asse, strappata a
malapena
dalla notte grazie alla luce timida della luna. Tutto il resto
soffocava in un
preponderante bianco.
Feliciano
si alzò sul letto, raccogliendo le lenzuola in grembo.
«Occorrono
sette anni perché il potere del precedente Asse riesca a
migrare nell’Asse
successivo» appoggiò il capo sulla nuvola di
lenzuola e considerò: «Le funzioni
che svolgo ora sono un infinitesimo di quelle che mi spetteranno una
volta
assunto il ruolo di Asse.»
«E
questo vi spaventa?» domandò Ludwig.
«Sarò
incatenato a questo Palazzo» sprofondò il viso
nelle coltri, come volesse
nascondere la sua angoscia in quel tessuto soffice. «Non
potrò più uscire.»
Ludwig
preferì non scoraggiarlo ulteriormente facendogli notare che
nemmeno durante
quei sette anni avrebbe avuto la possibilità di allontanarsi
da quelle mura: il
Palazzo era sorvegliato giorno e notte, e solo il signor Vargas e pochi
altri
avevano il permesso di attraversare liberamente la soglia di entrata. E
loro
due non rientravano in quel gruppo elitario.
«Come
era il posto in cui sei nato, Ludwig?»
Il
Guardiano batté le palpebre due volte, confuso.
«Come
mai questa domanda?» chiese in risposta.
Feliciano
si lasciò cadere all’indietro, e le vaporose
maniche della tunica da camera
svolazzarono tutto intorno mentre precipitava dolcemente sul materasso.
«Ho
visto solo l’interno della Villa, e qualche volta il suo
boschetto, e questa
stanza. Mi piacerebbe sapere come è il resto del
mondo.»
Un
silenzio lungo qualche secondo si estese tra di loro, mentre il
Guardiano
cercava le parole.
«Sono
nato su un pianeta molto lontano da qui» cominciò
a raccontare.
Feliciano
chiuse gli occhi, e la terra descritta dal Ludwig prese gradualmente
forma
sotto il sipario delle palpebre: vide srotolarsi davanti a
sé una landa di
terra dura e ghiacciata fin dove l’occhio poteva arrivare, e
sullo sfondo il
fantasma delle montagne acuminate avvolte da una nebbia glaciale; sul
cielo si
stemperò una tinta argento, la stessa che si riflesse sul
grande lago scuro al
centro della valle. Sentì il richiamo dei rapaci delle
montagne, e vide le loro
ombre sfrecciare in cielo mentre cacciavano la preda.
Avvertì il vento
invernale accapponargli la pelle, e cercare inutilmente di abbattere le
mura di
una solida baita di legno, costruita vicino al lago.
Aprì
le labbra in un sorriso prima di schiudere gli occhi.
«Mi
piace il posto che mi hai descritto. Sembra molto bello.»
«Magari
riuscirete a visitarlo, un giorno» cercò di
rincuorarlo Ludwig.
Il
giovane si girò su un fianco, il viso coperto dalla frangia
rossiccia.
«Sì.
Ora che me ne hai parlato, potrò vederlo nei
sogni» sussurrò.
Trascorse
una mezz’ora di immobilità prima che il giovane si
assopisse.
Ludwig
aveva sempre avuto l’assurda convinzione che i sogni
dell’Asse fossero come il
Palazzo: bianchi e privi di vita. Si chiese quali immagini popolassero
il sonno
dl ragazzo, quali voci si rincorressero nel suo riposo notturno.
Le
ciglia del giovane tremarono, e tra di esse nacque una lacrima, che
andò a
morire gettandosi dalla punta del naso. Ludwig si avvicinò
al letto quando la
prima venne seguita da una seconda e una terza, e fu abbastanza
delicato da
asciugare la quarta senza che l’Asse si svegliasse. Feliciano
sembrò
tranquillizzarsi grazie al suo tocco, e la quinta lacrima,
più piccola e debole
delle altre, fu l’ultima che versò, quella notte.
Ludwig
si sedette sul bordo del gigantesco letto per vegliarlo:
così sarebbe potuto
intervenire con più facilità se l’Asse
avesse dovuto piangere ancora.
Osservò
fuori dall’unica finestra di tutta la stanza, un piccolo
lucernario posto al
limitare del tetto.
Tutto
lo spazio al di fuori di quelle mura si sarebbe appoggiato sulle spalle
di quel
giovane, una volta che i sette anni di apprendistato fossero terminati.
Credi
davvero che un equilibrio basato
sulla solitudine e l’infelicità di una persona sia
un buon equilibrio?
Ancora
una volta, suo fratello aveva ragione.
Ed
eccoci qui con il secondo capitolo *w*
Solo
una precisazione: la frase “Non esistono lupi cattivi, solo
lupi molto
infelici”, è tratta dal libro
“L’importante è la rosa –
piccole storie per
l’anima”, un libro che straconsiglio a chiunque
abbia la fortuna di trovarlo
(purtroppo è abbastanza sconosciuto
ç_ç). È una raccolta di aforismi e
storie
brevi con un potere mozzafiato.<3
Tornando
alla storia, devo fare una seconda precisazione: i banner sono opera di
Cla,
l’infaticabile bannerista di questa fanfic<3 nello
scorso capitolo mi sono
scordata di specificarlo çAç<3
E
tornando di nuovo alla storia… vi informo che sono
ufficialmente in delirio
creativo xD perché lo dico?... perché sono
arrivata a finire il capitolo cinque
xD e ho quasi finito il sette (sì, ho saltato il sei
perché sarà abbastanza
impegnativo, e ieri sera mi sono messa a scrivere tardi quindi non
avevo la
testa per farlo @_@), ergo, connessione permettendo,
cercherò di aggiornare
settimanalmente *w* anche perché questa storia si
preannuncia davvero lunga,
quindi non è il caso di farvi attendere degli anni XD
insomma, ho scritto sette
capitoli e mi sono accorta di aver scritto circa un quarto scarso della
storia…
circa. Scarso. *nods*
E,
come sempre, un enorme grazie e uno spiedino di dango
a tutti voi che siete arrivati a leggere fin qui e avete
ancora voglia di proseguire questa strampalata avventura tra pianeti e
pirati
XD
A
presto!
Red
Le immagini utilizzate nei banner non mi appartengono; tuttavia, avendole prese dai miei archivi, non ricordo gli autori ç_ç Se qualcuno dovesse riconoscere la fonte di qualche immagine, me lo faccia sapere e provvederò a metterei credits<3