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Autore: __Stella Swan__    26/08/2013    1 recensioni
«Okay, poniamo che Arthur sia un vampiro. Perché gli davi la caccia? Non credo sia stato solo perché ha allungato le mani sulla tua migliore amica», ragionò.
Serrai le labbra e mandai giù il nodo alla gola. Pensare al momento in cui mia madre era stata uccisa mia faceva sempre quell’effetto: mi faceva sentire debole e inerme. Mi avvicinai a lui e gli presi dalle mani la foto di mia madre, osservandola in tutta la sua bellezza. «Sheila non sarebbe stata la sua prima vittima», sospirai con un filo di voce. Gabriel guardò prima la foto, poi me, accorgendosi della somiglianza dei lineamenti.
«T-tua madre è…», cominciò balbettando.
Strinsi la presa intorno alla foto e alzai lo sguardo. «È ancora viva», mi affrettai a dire, fissando Gabriel negli occhi. «Se si può davvero considerare vita».
[Tratto dal secondo capitolo]
N.B: ho già pubblicato questa storia, ma ho apportato notevoli modifiche, per questo motivo ho deciso di ri-pubblicarla, in modo da mantenere anche la prima stesura. La storia è ispirata al racconto di Meg Cabot "La figlia dell'ammazza vampiri", riprendendo i fatti principali, ma modificando i personaggi e la location.
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Ice Heart Saga'
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La storia, in breve


Non avevo ancora bene l’idea del perché stessi camminando verso casa mia seguita da Gabriel Vixen, il ragazzo che fino a pochi minuti fa era semplicemente un mio compagno di classe del corso di biologia. Per l’esattezza, quello seduto dietro di me.
Non fiatava, si limitava a seguirmi e basta. Per fortuna non faceva domande durante il tragitto, anche perché non era il luogo più adatto per discutere. Per quel motivo lo stavo portando a casa mia: dietro quelle quattro mura mi sentivo più al sicuro e avremmo potuto parlare tranquillamente.
«Dove stiamo andando?», mi chiese ad un certo punto.
«A casa mia», risposi concisa.
Gabriel allungò il passo, arrivando accanto a me. «Casa tua? Perché?».
«Hai detto che vuoi sapere». Gli lanciai un’occhiata e questo bastò per ammutolirlo. Probabilmente lo avevo anche intimorito, ma non mi interessava più di tanto. Non mi andava di fare quello che stavo per fare, ma non avevo molta scelta. Se non gli avessi spiegato la situazione mi avrebbe tormentata e una persona in mezzo ai piedi era l’ultima cosa che avrei voluto.
Per essere fine aprile la temperatura non era eccessivamente bassa.
La mia mente cominciò di nuovo a chiedersi perché gli avessi permesso di seguirmi, dato che non lo conoscevo nemmeno. Non avevo mai parlato con Gabriel ed ora lo stavo accompagnando a casa mia, nel cuore della notte, pronta a raccontargli dell’esistenza di vampiri e a fargli capire che io ero nata per ucciderli.
Mi resi conto che, a parte questa sera, non mi ero mai soffermata a osservare Gabriel attentamente: i suoi occhi blu avevano delle sfumature celesti che partivano dalla pupilla, il suo naso era dritto e delle giuste proporzioni, le labbra serrate in un’unica linea né troppo carnosa né troppo sottile. I capelli sbarazzini gli davano l’aria da ragazzino, ma dai suoi lineamenti si capiva perfettamente che era un ragazzo maturo.
Era così spaventato e preoccupato allo stesso tempo quando mi aveva trovata nascosta dietro la colonna del locale, eppure non si era tirato indietro e mi aveva offerto il suo aiuto. Osservai la mia mano ancora fasciata e notai che anche lui spostò lo sguardo per scrutarla, probabilmente chiedendosi come mi fossi fatta male.
Arrivammo davanti alla facciata in mattoni della mia casa e mi soffermai un attimo, per fargli capire che eravamo giunti a destinazione.
Gabriel osservò prima la casa, poi il giardino che si trovava alla nostra destra e si estendeva dietro le mura. Mi avvicinai la porta e la tenni aperta per farlo entrare. Rimase imbambolato ad osservare l’arredamento e i particolari della sala e della cucina: tutto era in legno e marmo, che aiutavano a dar l’idea di una chiesa sconsacrata, fredda e buia. In realtà non era così sgradevole abitarci, anche se dava l’aspetto di un luogo così monotono e privo di attività.
Posai la balestra sul ripiano della sala e mi avvicinai al frigorifero per prendere da bere sia per me che per il mio ospite. Quando mi voltai lo vidi vicino alla libreria della sala, mentre osservava gli infiniti volumi che la riempivano. Stava leggendo i titoli della sezione dedicata alle leggende antiche e alle creature mitologiche. Mia madre era ossessionata dai libri, ne leggeva a valanghe, e pretendeva che anche la sua libreria avesse un certo ordine. Ogni libro si trovava in quella determinata posizione per un motivo preciso.
Mi avvicinai a lui e gli offrii la lattina di Coca Cola. «I tuoi genitori sono archeologi?», domandò aprendola e continuando a leggere i titoli sulle copertine.
«Qualcosa del genere», risposi, sorridendo al ricordo di mia madre.
Il suo sguardo, però, sembrava confuso. «In che senso?».
«Ci sono molti tipi di storia e di archeologia».
Fece una pausa, distogliendo lo sguardo. «E te li sei letti tutti?».
«Sì, quasi», risposi ridacchiando. «Vieni», continuai incamminandomi verso il corridoio. Mi soffermai davanti la porta del laboratorio di mio padre, indecisa di presentargli Gabriel o andare direttamente in camera mia, in silenzio. Alla fine decisi di bussare. «Papà, possiamo entrare?».
«Certo», mi rispose immediatamente.
Aprii la porta e feci entrare prima Gabriel, osservando il suo sguardo sbalordito mentre osservava il laboratorio di mio padre. Era colma di vetrine con fialette e campioni, libri e liquidi colorati. Il mio vecchio stava tenendo con una mano una fiala con del liquido celeste al suo interno, che emanava un evanescente fumo bianco.
I loro occhi si incrociarono e mio padre si soffermò ad osservare Gabriel, leggermente più basso di lui. Il mio compagno sembrò un po’ imbarazzato, mentre mio padre era solamente curioso della persona che avevo portato in casa nostra. L’unica persona nell’arco di un anno.
«Oh hai portato un amico. Finalmente, credo che tu passi troppo tempo da sola in casa», disse mio padre rompendo il ghiaccio, sorridendo.
Incrociai le braccia al petto e feci spallucce. «A me piace star da sola», risposi con tono pacato.
«Un po’ di compagnia non fa mai male».
Inarcai l’angolo delle labbra, nascondendo un sorriso d’intesa. Io e mio padre eravamo così: ci capivamo al volo, con semplici, brevi battute. «Comunque papà, lui è Gabriel», li presentai.
Il mio compagno allungò la mano e, anche se un po’ impacciato, sorrise. «Buonasera signore», disse educatamente. Mio padre ricambiò la stretta, senza togliergli gli occhi di dosso.
Mi avvicinai al tavolino da lavoro e osservai cosa stava facendo. «Scoperto qualcosa?», domandai nonostante sapessi già la risposta.
Ovviamente si rabbuiò. «Non ancora, ma credo di esserci vicino». Non mi soffermai a studiare per l’ennesima volta il suo sguardo stanco e la voce insicura, come invece stava facendo Gabriel. Non volevo far apparire mio padre debole né sconfitto, perciò decisi di levare le tende e lasciarlo in pace.
Misi le mani sui fianchi e sospirai. «Bene, allora noi andiamo a studiare», mentii.
Gabriel aggrottò le sopracciglia, ma non disse niente. Mio padre sapeva perfettamente che avevo appena detto una bugia, ma stesse al mio gioco. «Mi raccomando di non studiare troppo», scherzò.
«Certo papà, a dopo».
«Arrivederci signore», rispose il mio compagno, mentre uscivamo dal laboratorio e ci dirigevamo verso la mia stanza.
Aprii la porta e lo feci entrare in quella che, probabilmente, era la stanza meno accessoriata che si trovava in casa. Era molto spartana: un letto matrimoniale, un armadio nemmeno troppo grande, un piccolo mobile con delle foto accanto alla porta e una scrivania col mio portatile chiuso.
Buttai la giacca sul letto ed aprii l’armadio in cerca della scatola nella quale tenevo le scorte di acqua santa, per portarle poi nell’armeria. Gabriel osservava i miei dischi, sorridendo ogni tanto. «Cosa fa tuo padre in laboratorio in piena notte?», domandò spensierato.
«Cerca una cura», risposi semplicemente, alzando la voce dato che ero ancora con la testa infilata nell’armadio.
«Una cura?».
Tirai fuori la scatola e chiusi le ante. «Vampirismo». Poggiai il tutto sul letto e mi accorsi che stava osservando la foto di mia madre. Ciò mi fece irrigidire.
«Mi dispiace che te lo debba dire proprio io, ma…».
«I vampiri esistono, Gabriel», lo interruppi con tono freddo.
Mi guardò storcendo le labbra, probabilmente pensando che fossi una pazza. «No Kim, sono tutte leggende. Dei vampiri e di lui, il loro capo», cominciò.
«Per tua informazione, Dracula è un personaggio realmente esistito», dissi ancora affilando lo sguardo. «Il voivoda Vlad Tepes III, morto nella seconda metà del 1400».
Scosse la testa, ridendo. «Per favore Kim! Come fai a credere a certe cose?».
Per non irritarmi, alzai le sopracciglia e lo fulminai con lo sguardo. «Mi chiedo come faccia tu a non credermi, dopo averne avuta la piena prova questa sera».
Sbuffò, girando gli occhi all’aria. «Ma chi, Arthur? È solo un pivello che ha soffiato la ragazza ad un altro, niente di più».
La sua ostinazione era veramente snervante. Misi le mani sui fianchi e feci un passo avanti. «Allora spiegami come ha fatto a scomparire così in fretta, senza esser visto da nessuno. Me lo hai detto tu stesso».
Si morse l’interno delle guance in silenzio, studiando la mia espressione. «Okay, poniamo che Arthur sia un vampiro. Perché gli davi la caccia? Non credo sia stato solo perché ha allungato le mani sulla tua migliore amica», ragionò.
Serrai le labbra e mandai giù il nodo alla gola. Pensare al momento in cui mia madre era stata uccisa mia faceva sempre quell’effetto: mi faceva sentire debole e inerme. Mi avvicinai a lui e gli presi dalle mani la foto di mia madre, osservandola in tutta la sua bellezza. «Sheila non sarebbe stata la sua prima vittima», sospirai con un filo di voce. Gabriel guardò prima la foto, poi me, accorgendosi della somiglianza dei lineamenti.
«T-tua madre è…», cominciò balbettando.
Strinsi la presa intorno alla foto e alzai lo sguardo. «È ancora viva», mi affrettai a dire, fissando Gabriel negli occhi. «Se si può davvero considerare vita».
Tornai al letto e presi la giacca, posandola sull’attaccapanni, mentre Gabriel posava la foto al suo posto. Mi lasciai poi cadere sul letto, esausta.
«Per questo gli dai la caccia, vuoi vendicare tua madre uccidendolo», dedusse.
«No», lo corressi, «non è stato Arthur a farla diventare ciò che è».
Si sedette accanto a me e mi tirai su, rimanendo al suo fianco. «E chi è stato?», domandò dolcemente.
Il solo pensare a Victor mi fece affilare lo sguardo e stringere le coperte tra le mie dita. «Suo padre, Victor. Il capostipite della sua razza».
Quando lo guardai mi sembrò confuso. «Ma pensavo che fosse un certo Dracula il capo della baracca».
Annuii. «Victor Blood è l’altro nome che utilizza in questi tempi, da quando ha avuto dei figli. Dracul è il nome del padre, Vlad II, e significa “diavolo”. Lui si chiamava “Draculea”, ossia “figlio del diavolo”. Ha poi deciso di cambiare nome perché lui, più che un diavolo, si sente un dio. Quindi ha optato per una cosa un po’ più moderna, ma che non nasconde il suo essere: Victor Blood».
Mi misi a ridere insieme a lei. «Beh, in effetti Blood lascia ben poco all’immaginazione», scherzò. Ci fu un momento di silenzio totale. «E tuo padre può curare tua madre?».
Sbuffai di nuovo. «Non lo so, lui crede che sia un processo reversibile. Io credo che non ci sia più niente da fare. L’unico modo, secondo me, è uccidere colui che l’ha trasformata».
«Victor…», sussurrò.
«Esattamente», risposi in ,modo meccanico.
«Ma allora perché vuoi occuparti di Arthur? Che male ti ha fatto?».
Mi alzai in piedi e cominciai a camminare su e giù, osservando fuori dalla finestra. «Prima di tutto, è comunque un vampiro e non ha il minimo diritto di esistere. E poi», dissi stringendo i pugni, «voglio che anche Victor provi che cosa significa perdere una persona cara. Me la farà pagare per avermi strappato… la famiglia. E io gli strapperò il suo unico erede rimasto», conclusi brevemente.
«Come unico erede? Non capisco».
«Victor ha avuto due figli biologici, non chiedermi come. Kyle, il più anziano, è stato ucciso da mia madre qualche anno fa. Arthur è il più giovane».
«Quindi li avrà avuti quando era ancora umano, immagino».
Scossi la testa, confusa. «Non lo so, non ti so raccontare la sua storia per filo e per segno. So solo che aveva fatto un patto col diavolo per rimanere in vita. Non ti so dire se ha avuto i suoi figli quando era ancora voivoda della Transilvania o dopo esser stato trasformato. Credo anche che nessuno lo saprà mai e di certo non mi metterò a conversare con Arthur su questo».
«E tu credi che uccidendo Victor tua madre possa tornare… insomma, umana?», chiese.
Lo ritenevo un po’ improbabile, ma non ne avevo la più pallida idea. Mi piaceva però sperare che fosse effettivamente così, anche perché un modo doveva pur esserci. «Non lo so, lo spero. È l’unico modo, altrimenti sarebbe tutto inutile. Ad ogni modo, metterò fine alla vita di quel succhia sangue».
Gabriel annuì, continuando a seguirmi con lo sguardo. «Per questo motivo non volevi che mordesse Sheila, o che si avvicinasse a lei».
Annuii e mi fermai, poggiandomi contro l’armadio e tenendo la testa bassa. «Ho già perso troppe persone, non voglio che mi portino via anche la mia unica amica», mormorai.
Almeno questo lo capiva perfettamente. Intravidi una luce di speranza e di compassione nel suo sguardo, ma non era quello che cercavo. Io non volevo aver qualcuno con cui sfogarmi, o su cui piangere. Io non volevo nessuno per non soffrire ulteriormente.
«L’avrebbe uccisa o trasformata?», continuò poggiandosi coi gomiti sulle ginocchia.
«Uccisa, sicuramente. Cosa se ne farebbe di Sheila? Arthur non ha bisogno del braccio destro né di una damigella al suo fianco per l’eternità. E poi pochi vampiri hanno l’autocontrollo necessario per fermarsi prima che il sangue sia stato prosciugato e non so se lui sia in grado. E poi credo che Victor voglia me».
Gabriel si irrigidì e gli mancò il fiato per colpa delle mie parole. «Ma Sheila era convinta che l’avrebbe trasformata».
«Certo, perché a lui piace giocare col cibo, proprio come a suo padre». Mi sedetti di nuovo accanto a lui e lo guardai negli occhi, sentendomi particolarmente strana.
Il primo a distogliere lo sguardo fu lui, tornando a guardare la foto di mia madre. «Quindi, tua madre che lavoro faceva?».
«L’ammazza vampiri, ma era anche insegnante di storia e archeologia. Aveva un dono».
«Dono?».
Annuii e sorrisi. «Sì, lei era iperattiva, riusciva a conciliare perfettamente il lavoro col dovere. Riteneva che uccidere i vampiri fosse suo compito, ed era anche molto in gamba. Spero di aver ereditato questo dono», finii.
Lasciai che Gabriel riordinasse le idee e tutte le informazioni che gli avevo dato in poco meno di mezz’oretta. Lo vidi pensare e ripensare in silenzio per minuti interi, fino a quando non alzò il suo sguardo su di me. «Ora mi credi?», domandai.
Annuì deciso, senza distogliere lo sguardo. «Sì, ti credo».
Tirai un sospiro di sollievo. «Sarà meglio non raccontare questa storia in giro. Ora vieni con me». Mi alzai e presi la scatola che avevo tirato fuori dall’armadio.
«Dove andiamo?», volle sapere.
«Devo preparare un piano. E non è cortese abbandonare gli ospiti in una stanza da soli, specialmente quando non conosco nemmeno le camere», scherzai sorridendogli.
Indicò la scatola che avevo tra le mani con un cenno del capo. «Cosa c’è dentro?», chiese incuriosito.
«Cose che mi saranno utili».
«Del genere?».
«Lo vedrai».
Tornammo insieme in corridoio percorrendolo fino in fondo e soffermandomi davanti alla porta dell’armeria. Toccai il pulsante di apertura delle porte e davanti a me comparvero tutte le mie armi: pistole, balestre, pugnali, spade, di tutto e di più.
Quando mi voltai verso Gabriel rimasi divertita dalla sua espressione allibita e, al contempo, spaventata. Camminai all’interno della stanza e il ragazzo mi seguì continuando a studiare ciò che lo circondava, mentre la porta si richiudeva automaticamente dietro le nostre spalle.
Mi avvicinai alle pistole e posai accanto a me la scatola, aprendola e tirando fuori alcuni rifornimenti di proiettili che mi ero ordinata e che non avevo ancora sistemato. Aprii la teca di vetro del ripiano e sistemai le pallottole in base al loro materiale: argento, ferro, plastica o, le più gettonate, in frassino.
Gabriel mi affiancò e guardò le pistole davanti a me. «Cosa significano le lettere sotto le armi?», volle sapere, indicando un cartellino. Ve n’era uno sotto ogni pistola, con una K o una H.
«Era per distinguere le mie armi da quelle di mia madre, anche se in realtà ognuna prendeva quella che preferiva», risposi.
«Come si chiamava?».
«Hilda».
«Hilda… bel nome», sorrise. Anche io, automaticamente, inarcai le labbra, poi mi concentrai sulle armi da scegliere. «Cosa stai guardando?».
Tamburellai con le dita sul labbra, passando in rassegna tutte le pistole davanti ai miei occhi. «Quale arma scegliere per ucciderlo», risposi tranquillamente. Ormai sembrava quasi semplice e sensato parlare con una persona sui piani per un omicidio. Beh, non era esattamente un omicidio, ma un vampiro-cidio.
«Ma manca ancora una settimana», mormorò con voce leggermente più bassa e tremante.
«Sì, ma è sempre meglio essere preparati». Presi la Sauer P238, piccola e compatta e facilmente nascondibile. Gabriel nel frattempo si era concentrato sui pugnali. Mi afferrò velocemente il braccio destro, avvicinandolo al suo viso con la fronte aggrottata.
«E questo cos’è?», chiese indicando la cicatrice a semiluna che avevo sull’avambraccio. Accanto, un graffio argenteo andava dal polso fino quasi al gomito. Passò l’indice sopra, facendomi il solletico.
«Ammetto di essere veloce, ma sono pur sempre umana in confronto a quegli essere immortali. Capita a volte di venir feriti», spiegai. Diedi una leggera strattonata e mi lascio andare, catturato questa volta dal polso sinistro sulla quale avevo un piccolo tatuaggio con Ank, la croce egizia.
Rimase in silenzio a meditare per un paio di minuti, mentre io continuavo a passare in rassegna le pistole. Probabilmente non sarebbero state l’ideale per uccidere Arthur al ballo: troppo rumorose.
«Allora, come si uccide un vampiro?», domandò leggermente terrorizzato.
Presi i proiettili in frassino e li osservai da vicino. «Ci sono diversi metodi: paletti o pallottole in frassino sono una delle soluzioni migliori». Posai il proiettile e, dalla scatola, presi le boccette di vetro, facendogliene vedere una. «Poi c’è l’acqua santa, che forse è il metodo più proficuo. Sai, agli essere maledetti non piace tanto entrare in contatto con qualcosa che esca dalla chiesa», ridacchiai.
Prese l’ampolla tra le mani e la osservò. «E non basterebbe ferirli a morte?».
«No, le loro ferite guariscono in men che non si dica. Si rigenerano e tornano intatti come prima, leggermente più deboli. Sono dei non morti, è naturale che ferirli non serva a niente».
«E allora perché le spade e i pugnali, o le frecce?».
Gli sorrisi divertita. «Si possono sempre tagliarli in quanti pezzettini preferisci, se ti va di giocare con loro, ma non sono così sadica. Ad ogni modo, bisogna poi bruciare i resti, per questo l’acqua santa è sempre con me. Le frecce invece sono un metodo più antico e permettono un profilo più basso: non fanno rumore e la loro punta può essere impregnata di acqua santa, così per non dover perdere tempo dopo ad appiccare qualche rogo».
«Li arrostisce?», chiese sorridendo sensualmente.
Ricambiai il suo sguardo. «A puntino».
Presi un pugnale dorato, con la lama centrale lunga e dorata e due lame laterali più corte. Lo guardai meditando se avessi potuto usare una cosa del genere per il ballo, quindi guardai gli altri pugnali davanti a me.
«Quindi», riprese impacciato. «Tu uccidi solo vampiri, no?».
Corrucciai la fronte, divertita da quella domanda. Lo guardai trattenendo una risata, mentre lui sembrava maledettamente serio. «Sì, perché? Credi davvero che sia un’assassina spietata e a sangue freddo?». Alzai velocemente il pugnale che tenevo in mano sotto il suo mento e si irrigidì ulteriormente. Mi scappò una risata e allontanai la lama dalla sua pelle, dandogli poi una gomitata. «Non ti preoccupare», lo rassicurai, «non sono così cattiva». Sembrò non pesare il gesto che avevo appena fatto e rise insieme a me, rilassandosi.
«E se Sheila dovesse dirlo ad Arthur? Non hai paura che lo avverta sul fatto che gli daremo la caccia?».
Rizzai le orecchie a quel “gli”, che non mi piaceva affatto. «Scherzi? Io spero glielo dica, così uscirà allo scoperto molto più facilmente».
Mi fissò incredulo. «Perché?».
Mi strinsi nelle spalle. «Credo sia intrigante per lui uccidere la figlia dell’ammazza vampiri. Lo renderebbe più popolare, mica cosa da niente».
«Più popolare tra chi, i morti come lui?», scherzò.
«Potrebbe anche ricevere una ricompensa dal paparino se mi uccidesse. Sai, Dracula è molto generoso con i suoi simili e non vede l’ora di sbarazzarsi di me. È da un bel po’ di tempo che uccido le sue marionette, credo si sia leggermente incazzato se ha mandato il figlio in persona ad occuparsi di me».
Mise le mani sui fianchi e scosse la testa. «Ma ora che facciamo?», domandò.
Sospirai, stanca. «Beh, mi sa che per questa notte possiamo anche darci un taglio e dormire. Dovrò allenarmi un po’ prima di venerdì prossimo. Sarebbe decisamente meglio, Arthur non è un novellino», risposi.
«Allenamenti?».
«Sì, in questi giorni andrò come al solito a caccia di mostri».
Si schiarì la voce e piegai la testa per guardarlo. «Vuoi dire, andremo», precisò.
Inarcai le sopracciglia, mordendomi l’interno della guancia e poi inumidendomi le labbra. «Gabriel», cominciai con tono ragionevole, «non credo sia una buona idea».
«Che cosa?».
«Che tu venga con me», dissi risoluta. Finii di sistemare le armi che avevo tirato fuori, tornando poi ad osservare il mio compagno di scuola.
Il suo sguardo era serio e deciso. «Non penserai mica che io ti lasci andare da sola?», alzò la voce.
Scossi la testa, facendo un lungo respiro per contenere la rabbia. «È troppo pericoloso…».
«Potrei dirti la stessa cosa».
Mi avvicinai a lui, indurendo lo sguardo. «La differenza è che io ho un bel po’ di esperienza e cicatrici alle spalle, mentre tu no. Se riuscirò a uccidere Arthut…».
«Quando ucciderai Arthur», mi corresse.
Cercai di non badare alle sue parole, chiudendo per un secondo gli occhi e riprendendo il discorso. «… probabilmente Victor verrà allo scoperto per vendicarlo».
«Beh, facciamo fuori anche lui», rispose alzando le spalle. Come se fosse stato così semplice.
Persi le staffe e sentii il sangue scorrere all’impazzata. «Ma non capisci?», stridetti, afferrandogli il colletto e tirandolo verso di me. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio, sentivo il suo buonissimo profumo e i suoi respiri mozzati sulle mie guance. «Victor è il capo della dinastia, il più potente di tutti. Ho già poche possibilità io di sconfiggerlo e svolgo questo mestiere da anni ormai. Come credi di riuscirci tu? Potrei infilarti un paletto nel cuore in questo momento e non te ne accorgeresti nemmeno, come credi di avere qualche possibilità contro un vampiro? Ti metteresti solo nei guai, complicandomi le cose».
Ripresi il controllo di me stessa non appena finii la sfuriata. Lo lasciai andare e strizzai gli occhi, dandogli le spalle. «Scusami Gabriel, ma… sul serio. Non riuscirei a difendere anche te. Non voglio essere responsabile di nessuno, non voglio sentirmi in colpa per non essere riuscita a proteggerti».
Mi mise una mano sulla spalla e mi fece voltare, scrutandomi con quegli occhi maledettamente attraenti, l’espressione comprensiva. «Abbiamo una settimana prima che arrivi il ballo. Sei sicura che Arthur non farà niente a Sheila prima di allora?», domandò con voce pacata.
Annuii decisa. «Certo, al cento per cento. Te l’ho detto, non è un novellino, adora giocare col cibo».
«Bene, quindi hai tempo per insegnarmi», disse senza quasi lasciarmi finire di parlare.
Spalancai gli occhi, basita dalla sua proposta. Stava scherzando? «Come, prego?», chiesi confusa e incredula.
«Insegnami tutto quello che sai. Come ucciderli, come usare una pistola e una balestra. Non me ne starò dietro le quinte a vedere mentre tenterai di uccidere Arthur Blood. Se tu dovessi sbagliare qualcosa accidentalmente, anche se credo e spero che non accadrà nulla, potrò intervenire io».
I miei muscoli si irrigidirono decisamente più di prima. «Non credo sia una buona idea», decisi.
Mi venne incontro improvvisamente, mettendomi alle strette contro la parete delle pistole. Poggiò una mano sulla teca di vetro dietro le mie spalle, sfiorandomi l’avambraccio e respirandomi di nuovo addosso. «Ci sono dentro ormai. Non posso tirarmi indietro, non ti lascerò andare da sola».
Non avevo la più pallida idea di cosa dire. Primo, la mia mente era completamente distratta dalla sua vicinanza e dal contatto fisico che si era ripetuto nell’arco di pochi minuti. Secondo, non volevo affatto avere un compagno di avventure, una persona in più di cui preoccuparmi e a cui avrei rischiato di affezionarmi.
La parte razionale del mio cervello, per un istante, prevalse su tutto. «Ho detto no Gabriel», sentenziai insicura. «Non so nemmeno il perché ti abbia permesso di venire qui e dirti tutto, non rendermi le cose più difficili di quanto siano già».
«Perché non vuoi nemmeno il mio aiuto?».
«Perché non voglio soffrire!», sbottai senza nemmeno rendermene conto. Cercai di riprendere l’autocontrollo con dei lunghi respiri a bocca chiusa. «Ho già sofferto quando ho perso mia madre per colpa mia, non voglio avere anche te sulla mia coscienza. È abbastanza dura così».
Le sue mani strinsero le mie spalle e cominciò a massaggiarmi delicatamente. Odiavo essere così fragile in quel momento, era passato troppo tempo da quando mi ero sentita così l’ultima volta. E odiavo ancora di più l’apparire così debole di fronte a lui.
La verità era che, per una volta, ero davvero preoccupata. Non per me, ma per lui.
«Dammi la possibilità di aiutarti. Se riterrai che sono solo un impiccio mi leverò dai giochi e non mi intrometterò più in questa faccenda. Ma sta di fatto che se dovesse succederti qualcosa e io sono presente non esiterò a mettere la mia vita in pericolo per cercare di salvarti».
Incassai il colpo e strinsi i pugni, chiudendo gli occhi. «Va bene», fiatai.
Gabriel, stranamente, sorrise. «E dopo aver sterminato Arthur e Victor cosa farai?».
«Continuerò ad uccidere tutti i vampiri, se ne esisteranno ancora. Devono cessare di esistere su questo pianeta».
Aggrottò le sopracciglia, leggermente confuso. «Aspetta un momento», mi fermò. «fammi capire bene. Hai intenzione di uccidere tutti i vampiri della Terra?».
«Certo», risposi automaticamente.
«Ma ciò significherebbe uccidere… Hilda», mormorò.
Abbassai lo sguardo e presi tempo. Anche lui ci aveva pensato, a quanto pareva. Non ero l’unica ad essermi posta il problema. «Ci sto lavorando», dissi infine. «Infondo, credo ancora nella mia teoria che morto Victor mamma potrà tornare umana».
Gli sorrisi, prendendo qualche boccetta d’acqua santa e aprendo la porta dell’armeria, invitandolo ad uscire.
«Zona top secret?», chiese alle mie spalle.
Annuii. «Solo io e mia mamma possiamo entrare. Certo, anche mio padre, ma lui non aveva mai bisogno di venirci. Solo noi due ci preparavamo ad uscire per missioni del genere».
«Quindi io sono l’unico oltre a voi tre che è entrato», ridacchiò.
Mi voltai verso di lui con un sorriso sardonico dipinto in volto. «Già. Forse ora dovrei ucciderti».
Strinse le labbra. «Ma so che non lo farai». Scossi la testa e cominciai a ridere di nuovo.
«Per ora direi di no. Non mi hai fatto nulla di male, non ne avrei motivo. Ma se tu dovessi mai raccontare tutto quello che hai saputo o visto questa notte, potrei diventare l’assassina che ti eri immaginato».
Fece finta di serrarsi la bocca con una cerniera. «Sarò muto come una tomba».
Inarcai le labbra, divertita. «Interessante paragone».
«Perché, è vero che i vampiri dormono nelle tombe?».
Feci spallucce. «Questo non lo so, non sono mai stata vampira per poterlo dire. Spero anche che tu non lo scopra mai attraverso me», scherzai.
«Lo spero anche io», rispose.
Dopo lo scambio di battute lo accompagnai alla porta, lanciando un’occhiata fugace all’orologio appeso in sala: erano le due e mezza passate.
«È necessario fare gli, come dire?, allenamenti la sera?», chiese.
«Di notte, più precisamente», lo corressi.
Lo vidi sbuffare silenziosamente. «Ma non dormi mai?», si lasciò scappare.
Misi le mani sui fianchi e piegai la testa. «Ci si fa l’abitudine. Preferisco uccidere nemici piuttosto che dormire e sapere che qualcuno sta morendo perché io non mi trovavo lì». Le mie stesse parole mi fecero tornare alla mente brutti ricordi riguardo la notte in cui mia madre era stata uccisa.
Gabriel, ovviamente, lo notò subito. «Tua madre…».
«Ti spiegherò, prima o poi», dissi frettolosamente.
Tese le labbra, ma non disse altro a riguardo. «Allora, ci vediamo domani per il primo allenamento?».
«Certo», risposi sorridendo.
Mi lanciò un’ultima occhiata estremamente dolce, che mi fece quasi girare la testa. «Buonanotte Kim», sussurrò.
Poggiai la mano contro la porta e l’accompagnai, mentre rispondevo: «Notte Gabriel».
  
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