Capitolo
4: “Mother?”.
Quando
riaprii
gli occhi, fu come svegliarmi da un sonno durato cent’anni:
tutto il mio corpo
era inturgidito e pesante; con lenti movimenti cercai di scuotermi,
senza però
riuscire a spostarmi. La mia mente era del tutto annebbiata, i miei
occhi non
riuscivano a connettersi con il cervello.
Stanza
bianca,
lenzuola bianche, comodino bianco, camice bianco: eppure
mi avevano raccontato che l’inferno era rosso.
Dove
ero finito?
Posai
i miei occhi sul polso: completamente fasciato e medicato. La
ferita coperta, la prova della mia vita superficialmente scomparsa. Ma io lo sapevo, che c’era.
Ospedale;
ecco dov’ero stato rinchiuso.
Rabbrividii.
Quella stanza emanava solo del freddo tagliente.
“Perché
l’
hai fatto?”
girai di un poco la testa, trovandomi faccia a faccia con mia madre.
Non
mi ero accorto della sua presenza. Dovevo
essere completamente fatto di farmaci.
Il suo
respiro
era lento e pesante, proprio diretto sul mio braccio. Prendeva lente
espirazioni, per poi rilasciare calda sostanza vaporosa sulla pelle
nuda vicino
al mio appuntito gomito. Teneva la testa bassa, appoggiando il mento
sul duro
materasso di bassa categoria dove io ero steso.
I suoi
occhi vacui
e spenti puntavano su di me, attenti ad ogni minima mossa.
“Rispondi,
Tooru.” continuò,
apparentemente calma e autoritaria.
La
guardai. Sorrisi.
La
realtà era che avevo sempre avuto paura di mia
madre: quando mi
guardava, quando mi parlava, il mio
corpo era spesso percorso da brividi. Brividi gelidi, che partivano dal
mio cervello
e che andavano a finire il loro percorso sotto le piante dei miei
piedi. Brividi, sì:
mia madre era riuscita a
donarmi solo quelli.
In
quel
preciso istante decisi che non avrei mai
avuto dei figli e, in quello stesso momento,
sorrisi.
Perché non avevo più
paura.
I suoi
occhi,
per quanto quelli di un giapponese possano, si assottigliarono di
colpo. Si
portò una candida mano alla bocca, cercando di coprire
piccoli singhiozzi che
si stavano facendo strada dalle sue rosee labbra. Goffe lacrime si
affacciarono
in prossimità delle sue nere pupille, per poi venire
rilasciate sulle sue
guance scavate. Minuziosi corsi d’acqua che scavavano solchi
nella sua pelle
già vecchia. Piangeva; non l’avevo mai vista
piangere. Era veramente bella.
“Perché
piangi?” la mia bocca
non parlò né per stupore, né per pena.
Fu un sussurro atono, senza emozione. Una piccola
speranza, forse.
Le minime
convulsioni dovute al pianto si
arrestarono. Il suo respiro ritornò in pochi attimi regolare
e le lacrime
sparirono grazie ad un leggero tocco di stoffa della manica della sua
pallida
camicetta.
Spostò
alternativamente il suo sguardo dalla
mia figura all’ambiente circostante, soffermandosi poi di
nuovo sulla
fasciatura. Scostò di poco la poltroncina su cui risiedeva,
posizionandosi
stancamente e molto lentamente in piedi. Prolungando
l’estensione della sua
schiena sul letto, si avvicinò gradualmente al mio viso, per
poi lasciare con
le sue labbra gelide un leggero e umido tocco sulla mia guancia.
Un bacio. La guardai,
interrogativo, ed allora le sue labbra fredde si avvicinarono al mio
orecchio. Tanto,
tanto fredde.
“La
verità è che non sono
mai riuscita ad amarti ed adesso mi sono
resa conto che, per quanto possa provarci, mai ci
riuscirò.” sussurrò,
piano. Sorrise.
Labbra
fredde. Tanto, tanto fredde. Fredde come
lei.
Si
allontanò da me, per poi percorrere
lentamente l’area della camera e uscire definitivamente dalla
stanza - dalla
mia vita.
L’avevo
uccisa con la mia nascita e lei si era
finalmente vendicata.
Sorrisi
anch’io, per l’ennesima volta: mia madre se ne era
andata, portandosi via ciò
che ero stato.
Se ne era
andata, regalandomi finalmente vita
nuova. Io ormai non
c’ero
più.
Dentro
di
me, però, una voce piccola e flebile di bambino sussurrava
ancora il nome di
sua madre.