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Autore: Nightshade_04    30/08/2013    10 recensioni
“Hai fegato, piccola. Mi piaci. Potresti anche esserci utile nella società.”
“Stai scherzando spero! Io non entrerei mai, e ripeto mai, a far parte della vostra banda!” Esclamai.
“Peccato, tanto talento sprecato.” Sussurrò, poggiandomi la mano sulla guancia e accarezzandomela con il pollice, prima di voltarsi ed andarsene.
Rimasi immobile sul posto, vedendolo allontanarsi. Prima che girasse l’angolo e sparisse in un altro corridoio però, si girò indietro “Comunque, stai bene con questo nuovo look.” E mi fece l’ occhiolino, sorridendomi. Ero confusa, ma non capivo il perché.
Genere: Azione, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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†  CAPITOLO SECONDO †





 
 
“Allora, mi vuoi dire che cosa ci facevi qui, mocciosa?” Mi chiese nuovamente Jakob spazientito, sbuffando.
Ero seduta con le mani legate dietro la schiena e da ormai una decina di minuti venivo tartassata di domande, alle quali però, persistevo a non dare risposte. Quando poco prima stavo tentando di fuggire di lì e le braccia di Jakob mi avevano bloccata, avevo provato a ribellarmi e sfuggire alla sua presa, ma era stato tutto inutile: la sua superiorità fisica era notevole. Inoltre, se anche ce l’avessi fatta, non sarei riuscita lo stesso ad andarmene via, dato che insieme a lui c’erano anche altri membri della sua banda, i quali mi avevano circondata quasi a formare una barriera infrangibile. Dopodiché il moro mi aveva sollevata di peso e mi aveva portata di nuovo dentro, legandomi con delle spesse corde, alla sedia dove mi trovavo ora.
“No, non te lo dico adesso e non te lo dirò mai.” Affermai, mostrandomi sicura di me. In realtà non lo ero per niente, ero tutt’ al più preoccupata, perché se non fossi riuscita ad evadere di lì in tempo per questo pomeriggio, mio fratello avrebbe sicuramente chiesto ad Ellen dove fossi e molto probabilmente lei gli avrebbe raccontato tutta la verità, cosa che non sarebbe dovuta succedere per nulla al mondo.
“Stammi a sentire, non costringermi ad usare le maniere forti, perché potresti pentirtene!” Proruppe, alzando il tono di voce ed avvicinandosi minacciosamente a me. Lo ammetto, avevo paura. Sì, io, Alexa Jersey, ero spaventata. Ma solo un po’, eh.
“Perché non risolviamo la questione davanti ad una bella tazza di thè caldo?” Sdrammatizzai, cercando di prendere del tempo per farmi venire un’ idea.
Mi ricordai della valigetta e guardai nell’ angolino a fianco della porta dove poco prima la avevo gettata. Fortunatamente non se ne erano accorti: quei bestioni erano troppi intenti a guardare cosa stesse succedendo tra me e il loro capo, per farci caso. E dovevo fare in modo che non la vedessero, ma soprattutto, non la prendessero. In tal caso sarebbe stato un casino bello e buono, perché sarebbero venuti a conoscenza delle mie vere intenzioni, e Dio solo sa, come avrebbero reagito poi.
“Ehi, ma mi stai ascoltando?!” Mi richiamò dai miei pensieri Jakob, passandomi più volte una mano davanti alla faccia.
Mi ripresi immediatamente e tornai ‘sul pianeta Terra ’, per così dire.
“Oh, ehm… dicevi?” Dissi imbarazzata, non avendo seguito nemmeno una parola del suo discorso.
Per tutta risposta, lui si girò nella direzione in cui mi ero incantata con lo sguardo poco prima, e la vide.
‘No, BIP, BIP, BIP’  Imprecai mentalmente, iniziando a muovermi sulla sedia, sperando di distrarlo. Nonostante ciò, non mi degnò di uno sguardo e subito andò a prenderla. Ma prima che potesse afferrare la sua maniglia, diedi un’altra spinta alla sedia, urlando: “No, BIP! Non prenderla!” E per la forza che ci avevo messo, mi ribaltai all’indietro, causando un forte tonfo.
“Ahia!” Mi lamentai per la botta che avevo preso, mentre Jakob stava tornando ora da me, sorridendo. Teneva fra le mani quell’ oggetto che avevo provato in tutti i modi di tenergli fuori portata e sentii di aver fallito.
“BIP?” Mi guardò dall’ alto con un sopracciglio alzato, confuso e divertito allo stesso tempo.
“È il mio modo per evitare di usare termini volgari, se proprio devo, dico un BIP al loro posto.” Lui scoppiò in una sonora e fragorosa risata, così come gli altri ragazzi lì vicini.
“Certo che sei proprio buffa. Una come te, la sorella del capo di una delle bande di delinquenti più potenti della città, che usa la parola BIP al posto delle parolacce!” Esclamò deridendomi e facendomi arrossire.
Era una cosa che avevo sempre fatto fin da bambina, quando non mi piaceva sentir dire quelle parole uscire dalla bocca di mio padre o mio fratello e li incitavo a sostituirle con un’ altra parolina “più gentile”, come la definivo io, quale ‘BIP’, appunto. Crescendo, il vizio era rimasto. Ora non facevo più osservazioni sullo stile di linguaggio altrui, ma preferivo comunque tenere il mio in questo modo. In effetti aveva ragione a dire che questo comportamento non si addiceva al tipo di persona che ero, ma era più forte di me, che ci potevo fare?
“Senti, invece di continuare a ridere come un deficiente, perché non mi aiuti a risollevarmi da terra, che mi sto facendo male ed è tutto sporco?! Ah, e poi magari non mi sleghi anche?!” Lo provocai, guardandolo dritto negli occhi. Annuì e con poco sforzo tirò su la sedia, con me sopra. Non ero ancora libera, ma per lo meno non stavo più sdraiata su quel pavimento sudicio e polveroso.
“Grazie…”
“Figurati. E ora guardiamo cosa nascondi qui dentro, piccola.”
Si avvicinò al tavolo e ci posò sopra la valigetta, facendo pressione sulla serratura per aprirla. C’era un codice da inserire per far scattare la sicura e, fortunatamente, lui non lo conosceva. Ci armeggiò ancora per qualche minuto, poi si arrese e si girò verso di me.
“Dimmelo.” Mi ordinò freddo e distaccato.
“Che cosa?” Feci la finta tonta. Non gli avrei mai rivelato i numeri.
“Sai benissimo di cosa sto parlando, avanti.”
“Invece non lo so.”
Insistetti. Finché non avesse saputo la combinazione, non avrebbe scoperto il nostro piano e non mi avrebbe nemmeno potuta uccidere, perché gli servivo, giusto?
“Perché devi sempre fare la ragazzina testarda?!” Mi prese il mento con una mano, sollevandolo fino ad incatenare i miei occhi nei suoi. Sostenni il suo sguardo coraggiosamente, prima di rispondergli: “Perché lo sono.”
“Invece adesso tu mi dirai quali sono i numeri per aprirla.”
Soffiò sulle mie labbra, scandendo bene parola per parola. Il battito del mio cuore aumentava ogni secondo di più, ma non potevo permettermi di perdere il controllo. Cercai di spostare il mio sguardo in un'altra direzione, ma lui parve accorgersene. “Guardami!” Disse autoritariamente. “E parla!”.
“Non lo farò, perché a quel punto non vi sarò più utile e potrete tranquillamente sbarazzarvi di me.”
Diedi voce ai miei pensieri.
“Allora è questo il problema, hai paura di morire.” Un sorrisetto, come di chi avesse il dominio del mondo, incurvò le sue carnose labbra rosse. Si risollevò eretto e parlò ai suoi compagni. “Uscite tutti di qui, ora.”
Non riuscivo a capire perché lo avesse fatto e un oceano di dubbi mi assaliva. Gli Skulls obbedirono senza proferire parola e ben presto ci ritrovammo soli. Deglutii rumorosamente quando Jakob tornò da me, con quell’ espressione malefica e perversa.
“Lasciami andare, ti prego.” Lo supplicai.
“Non ancora, piccola. Prima devi farmi un favore e sai già di cosa si tratta.” Non avrei ceduto tanto facilmente, non era nella mia natura e non sarei cambiata proprio ora. “Mai.” Sputai sprezzante. Lui continuava a sorridermi, quasi si divertisse delle mie reazioni, e rimasi sconcertata quando mi sfiorò dolcemente la guancia con la mano destra, sussurrandomi “Allora facciamo un accordo.”
“Che genere di accordo?”
Domandai, incuriosita dalla proposta. Solitamente non mi riducevo mai a scendere a patti con i nemici, ma in casi come questi, in cui ti ritrovi con le spalle al muro, tutto è lecito.
“Facciamo così, tu mi dici come aprirla ed io mantengo il segreto su ciò che all’ interno.” Credeva davvero che avrei accettato? Non ci avrei guadagnato niente, che senso aveva?
“Se davvero pensi che potrei accontentarmi del fatto che tu mantenga il segreto, ti sbagli di grosso. Io pretendo di essere liberata e lasciata andare.” Feci convinta. Lui mi sorrise. “Vedo che sai contrattare. Peccato che non abbia la minima intenzione di stare al tuo gioco.” Dichiarò.
“Peggio per te, vorrà dire che dovrai arrangiarti.” Sapevo che era un osso duro, ma non l’avrebbe avuta vinta tanto facilmente. Digrignò i denti: evidentemente era stato sempre abituato ad ottenere quello che voleva, subito, senza troppi sforzi.
“Ragazzina, qui non sei proprio nelle condizioni di dettare regole o condizioni. È meglio per te se collabori, fidati.”
“Finché non sarò libera, non sentirai più alcun suono uscire dalle mie labbra.”
E con questo, tagliai ogni conversazione. Avrebbe avuto il mio silenzio eterno.
“Vedremo se riuscirai davvero a mantenere quello che hai appena detto.” Infilò una mano in tasca e vi sfilò un coltellino. Si posizionò alle mie spalle e avvicinò l’oggetto metallico alla mia gola. Potevo sentire la lama fredda ed affilata sulla pelle. Non era certo la prima volta che mi ritrovavo in una situazione del genere, quindi mantenni la calma.
“Se non parli ora, sarà l’ultima cosa che farai, e potrai dire addio a tuo fratello ed ai tuoi amichetti.” Niente. Ero impassibile davanti a lui. Sapevo benissimo che non mi avrebbe mai uccisa. Forse si era scordato che anch’ io facevo la sua stessa vita e perciò sapevo bene che le torture non avevano mai lo scopo di portare alla morte, ma semplicemente farlo credere alla vittima, fino ad indurla a compiere ciò che si vuole.
“Persisti, eh!” Fece scorrere la lama sulla carne, tagliandola e facendo sgorgare il sangue. Era solo una ferita superficiale, niente di cui preoccuparsi. Mantenni la mia postura salda e non lasciai trapelare alcuna emozione dalla mia faccia. Vedendo che non demordevo, iniziò a passarci sopra le sue dita. Faceva male e bruciava, ma dovevo resistere. Premette forte ed anche se ci misi tutto il mio impegno per impedirlo, mi scappò un gemito di dolore.
“Vedi che allora qualcosa la senti.” Era malefico e spietato; lo detestavo.
“Puoi fare quello che vuoi, tanto non mi convincerai mai!” Non rimase molto sorpreso dalla mia reazione: evidentemente se l’aspettava.
“Come sospettavo. È difficile gestire persone con un carattere come il tuo, sai?”
“In che senso?”
Mi ricordavo di aver detto che non avrei più parlato, ma me ne fregai altamente.
“Beh, sei forte, non ti fai intimorire da nessuno e mascheri bene i tuoi sentimenti. Pochi hanno queste capacità e la maggior parte di essi ha poco autocontrollo. Tu ci riesci?” Così, da una semplice affermazione, stava nascendo un discorso. Non ci avevo mai pensato. In effetti, molte volte perdevo la pazienza ed agivo d’impulso senza riflettere.
“Si.” Mentii.
“Più convincente.”
“Come, scusa?”
“Se devi raccontare una balla, sii almeno più convincente.”
Come era riuscito a capirlo? Soltanto mio fratello riusciva a leggere la veridicità nelle mie parole.
“Come ne sei capace?” Domandai, allibita.
“È una delle mie tante doti. Potrei insegnarti come si fa, un giorno.” Si capiva che non diceva sul serio.
“Tra le tue infinite doti, c’è anche quella di slegare le persone?” Ormai mi era chiaro che, se avessi continuato ad essergli ostile, non avrei ottenuto niente, perciò optai per un approccio momentaneo.
“Apprezzo lo sforzo, comunque è un ‘NO’.”
Infine, tentai un’ ultima, folle, idea.
“Ascolta Jakob, non sono solita dire queste cose a tutti, ma è davvero importante. Devo tornare da mio fratello per pranzo, altrimenti scoppierà la terza guerra mondiale. Quello che io e la mia amica stavamo facendo era segreto, capisci? Se lo scoprisse, per me sarebbe la fine, e, nonostante io sappia che tu ne trarresti grande vantaggio e ne saresti felice, per piacere, ti chiedo di aiutarmi.” Avevo abbassato ogni difesa dicendogli la verità. Speravo con tutta l’ anima che provasse almeno un po’ di pietà nei miei confronti e mi capisse.
I secondi scorrevano in silenzio. Sembrava riflettere sulle varie possibilità e dentro di me si diffondeva un’ ansia terribile.
Mi ero già pentita di quello che avevo fatto, ero stata stupida.
“Mi hai sorpreso. Davvero, non me lo sarei mai aspettata una cosa simile da te. Ti rendi conto vero, che con quella rivelazione, hai messo la tua vita nelle mie mani?” Sembrava davvero appagato. Ecco, lo sapevo, non avrei dovuto fidarmi. 
“Tuttavia, anche io ho un cuore, nonostante non voglia dimostrarlo. Perciò ti permetterò di andare via, ma ad un’altra condizione.” Ancora…!
“E sarebbe?” Ero davvero stanca, non ne potevo più.
“Ogni pomeriggio dovrai passare almeno un’ora con me.” Disse fiero.
“Stai scherzando spero!” Lo guardai scioccata. Ma che cavolo gli prendeva? Per quale assurdo motivo voleva trascorrere del tempo in mia compagnia? Gli era dato di volta il cervello?
“No.”
“Perché?”
Volevo delle risposte.
“Lo scoprirai quando verrai.”
Non avrei mai, e sottolineo mai, voluto farlo, ma avevo altra scelta? No.
Feci un cenno di consenso con il capo, frustrata.
“Eh brava la mia piccola mocciosa!” Sghignazzò soddisfatto.
“Però… Cosa mi assicura che mi lascerai andare davvero, una volta che avrai ottenuto ciò che vuoi?” Chiesi, diffidente.
“Ti do la mia parola, questo non ti basta?” Paf, patetico. Come se contasse davvero qualcosa per me, ciò che diceva.
“No, non mi basta per niente. Non mi fido di te, voglio essere sicura, prima di commettere un altro passo falso.” Era un atteggiamento prudente ed intelligente: avrebbero dovuto farmi una statua per la mia saggezza. ‘Ma ti sembrano cose da pensare in questo momento?!’ rimproverai me stessa. ‘Oh, no, adesso mi ritrovo anche a parlare da sola, come mi sto riducendo, per carità!’ continuai il mio monologo interiore. ‘Basta!’, e tornai coi piedi per terra.
“E come dovrei dimostrarti che non mento?” Cosa avrei dovuto rispondergli?
“Non lo so, fai qualcosa che me lo provi.” Era troppo scontata come richiesta? Boh, non sapevo che altro avrei potuto dirgli. Dal canto suo, Jakob fece una risatina di chi ha in mente qualcosa, e mi si avvicinò.
Sentii una leggera pressione e solo a quel punto mi resi conto di avere le sue labbra sulle mie. Fu un bacio molto casto, ma che mi lasciò comunque scombussolata.
“Questa come dimostrazione è abbastanza convincente?” Rimasi in silenzio, ancora intontita per quello che era appena successo. “Che c’è, adesso sei tornata di nuovo muta?”
Niente, le parole non ne volevano sapere di uscire dalla mia bocca ed io continuavo a guardarlo, seguendo ogni suo minimo movimento. Tornò al tavolo. “Avanti, ora che ti puoi fidare, dimmelo.” Risposi quasi come una ragazza ipnotizzata, alla sua domanda: “45-59-98-84”
“Che fantasia!” Mi schernì per la scelta dei numeri.
“Dovevo pur scegliere qualcosa che mi sarebbe rimasto in mente e la tecnico delle coppie di numeri mi sembrava perfetta.” Il mio tono tentava di apparire duro, per quanto possibile. Non volevo fargli capire quanto quel contatto, aveva scatenato dentro me un caos inconcepibile, lasciandomi totalmente sotto-sopra. La serratura scattò. Ora anche lui avrebbe saputo.
Decisi che non dire niente sarebbe stata la cosa migliore da fare in quel momento: magari non avrebbe nemmeno capito cosa fossero gli oggetti che teneva tra le mani, oppure non gliene sarebbe importato minimamente ed avrebbe rimesso tutto al suo posto.
Quando però mi guardò, tenendo tra le mani il progetto, sembrava addirittura stupito. “Davvero stavate lavorando a questo?” Indicò gli schemi, disegnati con l’inchiostro nero sulla carta bianca.
“Si… E questa cosa deve restare tra noi, intesi?” Faticavo a credere che avrebbe rispettato i patti, ma dovevo provarci, se volevo che tutto andasse per il verso giusto.
“Ma sei impazzita? È una cosa formidabile, devo assolutamente dirlo agli altri!” E ti pareva!
“No! Abbiamo fatto un accordo, perciò tu adesso slegami e poi non azzardarti a dire niente a nessuno, o io…”
“O tu…?” Era proprio una bella faccia tosta. Dovevo intimorirlo, quindi optai per la conclusione più famosa.
“O io ti uccido.” Come se ne fossi stata realmente capace. Jakob rise, ancora, ed io non potei far altro se non roteare gli occhi al cielo, -anche se eravamo al chiuso-, e sbuffare. “Dico sul serio, Jak” E per la prima volta usai un nomignolo con lui.
“Non ci riusciresti mai.”
“Sei troppo pieno di te. Datti meno arie, amico.”
Ed ecco tornare la Alexa combattente.
“Si, si, come no.”
Che brutta giornata era stata quella: io non ero per niente abituata a sottomettermi al volere altrui, ero una che faceva sempre e solo quello che voleva e non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno. Se Mason avesse saputo…
Venne verso di me ed agì. Finalmente i miei polsi potevano muoversi liberamente. Mi alzai, il mio corpo era indolenzito e mi faceva male la spalla, forse per la caduta di prima. Corsi verso la mia valigetta, ma Jakob mi si parò davanti. “Non la porterai via ora, la considererò come un pegno per stimolarti a presentarti agli incontri.” Sorrise furbo. A che scopo vedermi? Non riuscivo a capire, seriamente. Eravamo nemici, dunque, perché quell’assurda richiesta?
“Ora vattene, prima che cambi idea.” Lo guardai sghembo, ma poi feci come mi aveva detto.
Una volta abbastanza lontana da quell’ orrendo posto, presi dalla tasca della felpa il mio telefono cellulare, che per tutto il tempo se ne era rimasto lì, e composi il numero di Ellen.
Tu… Tu… Tu…
“Alexa!” Trillò, quasi rompendomi un timpano.
“Si, sono io.”
“Che diamine di fine hai fatto?! Credevo fossi morta!”
Come sempre saltava a conclusioni drastiche.
“Che esagerata! Sono solo stata presa da Jakob e dai suoi, poi però…” Avrei dovuto dirglielo? Meglio di no.
“Però…?” Continuò, alludendo alla frase che avevo lasciato in sospeso.
“Però sono riuscita a liberarmi e sono scappata.” Bugia.
“Wow, te l’ho già detto che sei grande?” Disse entusiasmata.
“Si, almeno un centinaio di volte!” Risi, contagiandola.
“Adesso però muoviti e torna alla base, è tardi, e tra poco tuo fratello mi domanderà che fine hai fatto!”
“Che ore sono scusa?”
“L’una e mezza. Veloce, ti aspettiamo per pranzare.”
Accipicchia, quante ore erano trascorse?!
Agganciai il telefono, senza neanche terminare la conversazione, e mi misi a correre. Dovevo arrivare in tempo o Mason avrebbe potuto insospettirsi. Chiamai subito un taxi e nel giro di un quarto d’ora stavo già percorrendo il corridoio che conduceva alla sala in cui avrei dovuto pranzare. Ero anche passata a casa a prendere una sciarpa, per coprire i segni sul collo, che sarebbero stati senza dubbio, una prova degli avvenimenti della mattina. Spalancai la porta e gli occhi di tutti i presenti, seduti attorno alla lunga tavolata, furono su di me. Cercai di non prestarvi attenzione e mi incamminai verso mio fratello e la mia amica.
“Alla buon’ ora! Dov’ era finita?!” Mason era visibilmente irritato.
“Ehm, la professoressa mi ha trattenuta in classe di più del previsto dopo la fine della lezione, quindi ho fatto tardi. Scusa.” Come giustificazione era un po’ banale, ma soprattutto surreale, ed infatti dal suo sguardo capii che non era molto convinto.
“Mi stai nascondendo qualcosa?” Ed ecco la domanda che non avrei mai voluto sentire. Mentire al capo era un’ infrazione punita gravemente. Cercai aiuto negli occhi di Ellen, dove lessi titubanza, e alla fine feci quello che non avrei mai dovuto fare.
“Chi, io? Perché mai dovrei nasconderti qualcosa, sai tutto di me, sono tua sorella!”
“E allora perché stai iniziando a sudare?”
Riusciva sempre a capirmi troppo bene. Mi concentrai ed alla fine decisi.
“Hai ragione, c’è una cosa che non ti ho detto…” Iniziai. La mia migliore amica s’ irrigidì sulla sedia e continuò a mandarmi occhiatacce ammonitrici. Mason invece diventò all’ improvviso serio.
“Vedi, ti ho tenuto all’ oscuro di un fatto… Ho preso un impreparato in algebra e la professoressa ha detto che se continuo così, mi boccia!” Come reagirono? Beh, si misero tutti a ridere, e mi sentii un po’ in imbarazzo. Ellen tornò a rilassarsi e si mise a sua volta a ridere, anche se il motivo per cui lei lo faceva era più che altro perché, secondo me, aveva davvero pensato che avrei confessato il nostro segreto.
Pranzammo e passammo l’intero pomeriggio nella palestra, allenandoci nella lotta. Verso le sei mio fratello ci disse che poteva bastare, e finalmente, me ne tornai a casa. Ero stanchissima e completamente sudata, perciò optai subito per una bella doccia rigenerante. Quando uscii dal bagno della mia camera, ancora avvolta nell’ accappatoio, guardai il mio cellulare poggiato sul letto e notai che la lucina bianca che indicava l’arrivo o meno di qualche messaggio, lampeggiava. Allora mi avvicinai e dopo aver sbloccato lo schermo, aprii e lessi.
Da: Sconosciuto
“Ricordati che domani pomeriggio dopo la scuola devi venire da me. ;) J.”

Rimasi perplessa. Da chi sarei dovuta andare domani? Non mi ricordavo di avere qualche appuntam-… Jakob! Ecco per cosa stava quella ‘J’ finale. Me ne ero scordata! Come avrei fatto, adesso? Non potevo essere da lui e alla base contemporaneamente. Già, perché alla fine avevo deciso di andarci sul serio. Conoscevo i rischi, ma dovevo pur in qualche modo riprendermi i miei insetti microchip, no? Avevo pensato che magari avrei potuto trafugarli senza farmi vedere, così non sarei più dovuta tornare lì. Come idea non era niente male. Mi venne un altro dubbio: come aveva ottenuto il mio numero di cellulare? Lasciai perdere e invece salvai il suo in rubrica, sotto il nome di “Imbecille”, giusto per essere gentile, e dopo di ché risposi.
Ad: Imbecille
“Grazie per avermelo ricordato, mi hai rovinato la serata. Come diamine hai ottenuto il mio numero?! E poi, come faccio a venire da te, se non so nemmeno dove si trova la vostra sede?”

Anche la posizione del luogo era un ulteriore problema. Che vita incasinata!
Pochissimi secondi ed il mio cellulare vibrò.
Da: Imbecille
“ Mocciosa, io posso avere tutto quello che voglio, il tuo numero è niente in confronto al mio potere. Tranquilla, non dovrai venire alla nostra sede principale, dato che sarà una cosa segreta e verrai a casa mia. ;)”

Casa mia.
Casa mia.
Casa mia.
Aveva davvero scritto “Casa mia”? No, non avrei mai messo piede nella dimora del mio acerrimo nemico. Era come se un topo andasse a vivere nella stessa stanza di un gatto, impensabile.
Decisi di non rispondere più e me ne andai a letto.
La mattina seguente fui svegliata dal suono ad intermittenza della mia sveglia. Anche se controvoglia, mi alzai ed andai in bagno a prepararmi. Una volta sistemata, presi il cellulare e scesi in cucina a far colazione. In casa c’ero soltanto io: mio fratello era sicuramente già uscito, per andare nel suo ufficio alla base ed i miei genitori… beh, i miei genitori non c’erano già più da parecchi anni. Se ne erano volati via quando avevo tredici anni, in un incidente d’auto. Così avevo continuato a vivere nella nostra casa con mio fratello, che cercava di fare da madre e padre allo stesso tempo. Purtroppo però, era sempre pieno di lavoro, ed avevo imparato a cavarmela da sola, durante la sua assenza. A volte pensavo ancora a Calla e Ray, quando mi capitava sotto mano una foto della nostra famiglia, ma per il resto del tempo, cercavo di tenerli lontani dai miei pensieri. Soprattutto in azione, perché sarebbero significati una debolezza per me.
Posai la tazza del latte nel lavello e riposi negli scaffali i sacchetti di biscotti e cereali. Andai a lavarmi i denti e scesi sotto casa, dove George mi stava aspettando, nella sua Ferrari nera.
Chi era George? Un amico di mio fratello; lavorava anche lui nella società ed era ricco sfondato. Era più piccolo di Mason di due anni, perciò ne aveva diciannove, ed avevo sempre avuto un debole per lui.
Biondo e con gli occhi azzurri, dolce, simpatico, disponibile e carino. Penso che anch’io per lui fossi importante. Ogni mattina mi accompagnava a scuola, anche se lui era già all’ ultimo anno, e avrebbe potuto esser ritenuto uno sfigato facendosi vendere in giro con una di terza. Tuttavia non ci faceva caso e non si disinteressava di ciò che gli altri potessero dire sul suo conto. Gli volevo un sacco di bene per questo.
Salii in auto e lo salutai con un buffetto sulla guancia. “Buongiorno.”
“Ciao, principessa!”
Gli battei un pugno sul petto, in segno di protesta.
“Ehi. Stavo scherzando, non te la prendere!” Sorrideva per come avevo reagito. Non sopportavo quei soprannomi sdolcinati, io ero una dura, non mi si addicevano proprio. Comunque con lui non riuscivo mai ad arrabbiarmi seriamente, quindi misi solo un finto broncio. Il suono della sua risata cristallina riempi l’aria.
“Ah, volevo dirti che oggi finisco lezione al tuo stesso orario. Se vuoi, ti porto io al centro per pranzo.” La risposta era sempre ‘si’, ma apprezzavo il fatto che ogni volta, lui me lo chiedesse.
“Avrei altra scelta?” dissi, felice.
“Beh, in realtà no.”
“Allora è deciso.”

Arrivati a scuola, George parcheggiò l’auto e subito tutti gli occhi furono puntati su di noi. Non perché pensassero ci fosse una relazione tra di noi o altro, piuttosto perché sapevano chi fossimo. Si avvicinò per lasciarmi un leggero bacio sulla guancia in segno di saluto, quando si ritrasse confuso.
“E quello cos’è?” Chiese.
“Quello, cosa?”
“Quel segno che hai sul collo, vicino alla gola.”
Era serio, fin troppo. Mi accorsi che la stoffa della sciarpa era involontariamente scesa, così la rialzai.
“Niente che ti riguardi.” Risposi, andandomene.
Mi prese per un polso, facendomi girare. “Dimmi cos’è, o dovrò riferirlo a tuo fratello.” Perché dovevano sempre tirare in ballo Mason? Non riuscivano a concludere niente senza minacciarmi?
“Niente, sono caduta ed ho sbattuto contro il tavolo! Oggi me ne torno da sola, non mi aspettare.” Urlai, in preda all’ ira, liberandomi della sua presa.
Mi diressi in classe, dove la professoressa mi fece notare di essere in ritardo. Purtroppo ero ancora agitata per ciò che era appena successo e la mandai a quel paese, con parole davvero poco educate. Come potrete immaginarvi, mi spedì dritta nell’ ufficio del preside. Dovetti anche aspettare fuori perché c’era già qualcun altro dentro. Penso che un giorno o l’altro, non poi così lontano, avrei fatto saltare in aria quell’ edificio sprezzante chiamato ‘Scuola’. In quei momenti, si impossessava di me un odio profondo verso ogni forma di vita della Terra.
La porta si aprì ed alzai lo sguardo.
“Qual buon vento ti porta qui, tesoro?” Sempre il solito sbruffone.
“Ho soltanto risposto  male alla Smith.” Confessai, per niente pentita del gesto. Rise, come al solito. “Lo trovi così divertente?” Chiesi infastidita.
“Tu, quella dal linguaggio educato, che si fa spedire dal preside per questo?” Non riusciva a trattenersi ed a momenti gli avrei mollato uno schiaffo. Alzai la mano, ma lui capì all’ istante le mie intenzioni, infatti la bloccò con la sua.
“Calmati, bellezza. Non avevi detto che sapevi controllarti? Non mi pare. Comunque tranquilla, ci lavoreremo. Ti aspetto nel parcheggio dietro la scuola, al termine delle lezioni.” Finì, indicandomi la segretaria che mi faceva cenno di entrare nella stanza.
“Ciao.” Lo salutai con la mano. 













Spazio Autrice!

Eccovi il secondo capitolo, che ne pensate? Ditemelo in una recensione, mi farebbe piacere!
Ringrazio le 13 persone che hanno recensito lo scorso capitolo, le 8 persone che hanno messo la storia tra le preferite, le 3 nelle ricordate e le 12 nelle seguite. Vi voglio bene :)
Aggiorno presto,
 A presto. Jess Xx

 
  
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