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Autore: Ivola    02/09/2013    3 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: *balla la conga* *salta* *brinda*
Salve! E' da quasi un mese che ho questo capitolo pronto, ma per vari impedimenti non l'avevo ancora pubblicato. E in due settimane di vacanza ne ho scritti anche altri due, quindi sarò un pochino più veloce. Sono appena tornata e il mare mi ha ispirata da morire.
Sarò veloce perché muoio dalla voglia di premere il tasto "aggiungi capitolo" - dopotutto è uno di quelli che forse mi è riuscito meglio, oltre al fatto che per ora è il più lungo.
Dunque: nello scorso capitolo si è conclusa la prima parte di Blur, infatti in questo comincia la seconda - ma va? - che durerà circa fino al capitolo venti (in tutto dovrebbero essere trentuno, se tutto va bene).
Poi. Non cominciate a guardare Frantz come "il padre padrone e cattivo" che ha un brutto rapporto con il figlio e via dicendo, perché non voglio che Klaus passi per quello che è per colpa del padre. Cioè, vorrei che non lo guardaste come il solito cliché, perché Frantz è veramente uno squilibrato, e c'è un motivo di fondo se è così (un po' di suspance non guasta mai (y))
Poi, again. Amate la domestica di Klaus e London, Mara. Me la immagino un misto tra Big Mama e Mrs Doubtfire, non so se mi spiego :')
Ultima cosa velocissima: "In fear, in sorrow" viene da una canzone dei Muse (giuro......) che cito sotto, e l'ho messa qui perché in primis è molto azzeccata e in secundis questo verso mi ricorda un po' la formula matrimoniale, come quando dice "in salute e in malattia", cosa che è inerente a ciò che sta scritto nell'ultimo paragrafo.
Adess- COTOLETTEEEEE.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Con-science" dei Muse.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ















 












Blur

(Tied to a Railroad)






008. Eighth Chapter – In fear, in sorrow.




Era raro che facesse innocenti sonnellini placidi dopo una lunga nottataccia, ma quella mattina era riuscito ad assopirsi sul divano di pelle del salotto dopo un misero bicchiere di brandy. Non stava sognando nulla, a dire il vero, a parte il solito vuoto che gli annebbiava il cervello una volta sveglio, eppure non si sarebbe voluto alzare per niente al mondo. Momenti di pace così erano da incorniciare, secondo la sua opinione. 
Peccato che, come ogni momento di pace cristallina che si rispetti, fu interrotto bruscamente e spiacevolmente da una familiare voce femminile.

« Avanti, alzati » gli disse quella in tono scocciato, nel frattempo che un abbagliante fascio di luce si insinuava nel suo campo visivo. London, una ad una, scostò tutte le tende della stanza per fare entrare la luce del sole, dopodiché aprì le finestre per far passare aria.
Klaus si trattenne dall’imprecare sonoramente, mentre si alzava a sedere e si stropicciava gli occhi. 
« Che vuoi, a quest’ora? »
« Sapevo che fossi rincoglionito » sbottò la ragazza, « ma non fino a questo punto. »
Giusto il tempo di domandarsi a cosa diavolo si stesse riferendo sua moglie che un’altra donna entrò nel salotto con delle buste della spesa, probabilmente reduce dal mercato mattutino. « Buon compleanno, signor Klaus! » trillò allegra la paffuta domestica.
Klaus alzò gli occhi al cielo. 
« Solo Klaus, Mara » le ricordò, fregandosene altamente del fatto che quel giorno sarebbe diventato un anno più vecchio. Non gli era mai importato dei suoi compleanni, d’altronde, considerando che era costretto a passarli in compagnia della sua amata famigliola.
La domestica lo ignorò bellamente. 
« Ventun’anni si compiono una volta sola nella vita! » continuò con un bonario sorriso sulle labbra. « Magari potessi tornare alla vostra età, ah. Solo il cielo sa quanto mi piacerebbe! »
London sbuffò, stizzita, e incrociò le braccia. « Ti ricordi almeno del pranzo dai tuoi, vero?  » domandò al marito.
Klaus reclinò la testa sulla spalliera del divano, annoiato. 
« E chi se lo scorda. Un ottimo modo per festeggiare, non trovi? »
« Direi il migliore » borbottò la ragazza. « Faresti meglio a prepararti; prima finiamo, meglio è. »
« Mai stato più d’accordo con te » rispose, alzando gli angoli delle labbra in una sottospecie di sorriso.

 
*
 

Da quando era diventata la nuova signora Wreisht aveva visitato il maniero di famiglia molte volte, ed era fiera di affermare che quello dei suoi genitori – ovvero la casa in cui era cresciuta fino ai suoi diciotto anni – fosse di gran lunga più fine ed elegante.
Aveva sempre disprezzato lo stile barocco, ed entrare in quella casa a sua detta molto pacchiana la faceva sentire a disagio, come se di lì a breve potesse essere inghiottita dalle mura decorate con la costosa carta da parati.
Quel giorno questa sensazione di disagio si fece sentire più del solito, insinuandole strani pensieri in testa.
London non li aveva mai capiti, i suoi suoceri – oramai doveva chiamarli così, no?
Shyvonne era la più normale tra i tre, nonostante sembrasse psicologicamente debole… Era materna, in qualche modo. Eppure sentiva di non potersi fidare di lei, perché era pur sempre una Wreisht. Il nemico.
Frantz era una tra le persone più insopportabili che conoscesse, precisamente dopo il figlio, e proprio per questo le sembrava paradossale che i due non andassero d’accordo, anche se, visto il carattere di Klaus, c’era da aspettarselo. Per qualche assurda ragione quell’uomo le metteva ansia, con il suo volto sempre duro e mai amichevole, i capelli neri sempre pettinati all’indietro e la voce sempre scostante e autorevole. Freddo come il marmo, ecco come avrebbe descritto Frantz in poche parole.
Quando rivide i due coniugi a pranzo i pensieri su di loro si confermarono: lui non sorrideva affatto, lei cercava di essere gentile nonostante l’atteggiamento nervoso.

« Avanti, entrate » li invitò Shyvonne, dando l’esempio per prima e sedendosi all’ampio tavolo apparecchiato sontuosamente per l’evento.
London cercò di trattenere una smorfia di insofferenza si accomodò di fronte a lei, tentando di mostrare un sorriso cordiale. Scoperchiò la portata che aveva avanti a sé, rivelando una succulenta aragosta ornata da verdure varie.

« Vi aspettavamo mezz’ora fa » disse Frantz, sorseggiando del vino e guardando di sottecchi il figlio. Non gli aveva neanche fatto gli auguri.
London non seppe cosa dire e si limitò a fissare Klaus in segno d’attesa.

« E allora? » se ne uscì lui, scompostamente seduto sulla sedia rivestita di velluto.
La ragazza lo avrebbe volentieri preso a schiaffi. Non aveva certo voglia di assistere a una discussione colossale tra i due Wreisht; piuttosto se ne sarebbe tornata a casa.
Frantz indurì lo sguardo. 
« E allora avete fatto tardi. »
« Non vedo dove sia il problema » ribatté Klaus, versandosi a sua volta del vino. « Dopotutto non credo che mi stesse aspettando con impazienza. »
London vide il suocero stringere la presa sul bicchiere e forse riusciva ad immaginare perché. Klaus metteva a dura prova i nervi di chiunque.
In due anni e un mese di matrimonio aveva cercato di calcolarlo il meno possibile, nonostante vivessero sotto lo stesso tetto e lui cercasse quasi quotidianamente di provocarla con le sue solite stronzate; quando aveva potuto si era rifugiata da Ben. Ben c’era sempre stato quando tutto sembrava troppo e c’era sempre stato quando si sentiva soffocare e quando, ancora, avrebbe voluto distruggere tutto. Era la sua spalla, il suo cuscino, l’unico che poteva capirla e davvero non riusciva ad immaginare cosa avrebbe fatto senza di lui.
Ci fu qualche istante di silenzio.

« L’ho capito che questa farsa non c’entra niente con il mio compleanno » continuò il ragazzo, fissando intensamente i genitori, come a volerli mettere a nudo. « Cosa volete? »
« In effetti hai ragione, Klaus » replicò il padre, continuando a stringere saldamente il bicchiere di cristallo. « Io e tua madre dobbiamo parlarti di una questione… »
« Frantz » lo bloccò la moglie, con sguardo quasi allarmato. « Non sarebbe meglio se prima mangiassimo e-? »
« No » la interruppe Frantz. « Non vedo il motivo per cui dovremmo rimandare ancora. »
London guardò i presenti con un’espressione interrogativa dipinta in volto; detestava che gli altri la tenessero all’oscuro di qualcosa.
« Sono tutt’orecchi » li incitò a continuare Klaus con tono beffardo.
« Vedete » cominciò il padre, mentre Shyvonne teneva lo sguardo puntato sulla porta, impaurita da chissà cosa. London si voltò nella sua stessa direzione, ma non vide niente e si domandò ancora una volta cosa ci fosse di sbagliato in quella situazione che, se lo sentiva, avrebbe preso una brutta piega. « C’è un motivo se noi e i Bridge abbiamo deciso di unire le nostre famiglie » disse, scegliendo accuratamente le parole – questo, secondo London, non faceva altro che rendere il discorso ancora più falso e fastidioso.
La ragazza vide Klaus alzare un sopracciglio e forse cominciò a intuire a che cosa volessero andare a parare.

« Motivo facilmente intuibile, tra l’altro, ma vedrò di rinfrescarvi le idee.
Sono passati poco più di due anni dal matrimonio… Due anni che temo siano stati sprecati a comportarvi come vostro solito, invece di vivere la vostra vita matrimoniale come avreste dovuto, dando alla luce un degno erede con il sangue di entrambe le famiglie…
E, non so perché, ho come il sospetto che non vi sia neanche balzata in mente l’idea di dover adempire al vostro compito. 
»
Klaus si alzò in piedi di scatto, facendo tremare le stoviglie sulla tavola. « Ma neanche per sogno! » protestò, a dir poco scioccato. Non avrebbe potuto sopportare anche quello. « Io non voglio un figlio con lei » precisò, inoltre, incalcando nel pronome una buona dose d’acido.
London si sentì giustamente chiamata in causa e si alzò a sua volta, indignata almeno quanto il marito. 
« E nemmeno io, se è per questo. »
« Visto? » rincarò Klaus, come a voler sottolineare l’assurdità della richiesta. « Se davvero tutto ciò che volevate era un erede, avreste dovuto abbinare altre due persone! »
Frantz fu il terzo ad alzarsi a ruota. « Non starai dicendo che non hai neanche intenzione di provarci… »
« Cazzo, io non ho neanche intenzione di pensarci lontanamente! » gridò con sdegno.
« Allora ho come l’impressione che dovrò ricorrere alle maniere forti. »
A London morì in gola quello che stava per ribattere. Maniere forti?
Shyvonne gemette piano. 
« Frantz, non farli entrare ancora, Klaus stava solo- »
« Silenzio! » urlò l’uomo, infrangendo per un istante la sua aura di autocontrollo. Dopodiché, schioccò le dita e, dalla stessa porta che qualche istante prima la donna fissava terrorizzata, entrarono due Pacificatori, uno dei quali era munito di… frusta.
Prima che London potesse dire qualcosa, anche una misera esclamazione, Shyvonne la prese per un braccio e la portò in un angolo, tremante da capo a piedi.

« Ma che cosa-? » provò a domandare, ma quella si mise un dito davanti alle labbra pregandole di rimanere in silenzio.
I Pacificatori trascinarono Klaus di fronte a una parete spoglia e, benché quello si dimenasse sconvolto, non lo lasciarono andare, bloccandogli le braccia.

« Quanto li hai pagati, eh? » gridò rabbiosamente. « Quanto li hai pagati, figlio di puttana?! »
A quella provocazione, Frantz sottrasse personalmente la frusta dalle mani del Pacificatore più anziano.
« Lasciate fare a me » disse in tono vellutato e carezzevole, completamente diverso a quello duro che aveva usato prima. « E’ tempo che mio figlio impari l’educazione, per una buona volta. »
London continuò a fissare immobile la scena, mentre al marito veniva praticamente strappata la camicia di dosso, lasciando scoperta la schiena contratta e facendole salire un groppo in gola. L’istinto le diceva che avrebbe dovuto fare qualcosa o almeno protestare contro quell’atteggiamento barbaro e quasi arcaico; eppure tutto ciò che riusciva a fare era stare ferma, imbambolata e con un braccio stretto tra le dita esili e tremanti di quella che per forza dei fatti era diventata sua suocera.
Quando il supplizio cominciò per davvero, ovvero quando la sottile striscia di cuoio della frusta lacerò la pelle di Klaus, le sue spalle sobbalzarono per lei.
Non aveva la capacità di pensare a niente mentre guardava turbata Frantz calare una seconda volta la frusta sulla schiena del figlio con espressione folle, mentre i Pacificatori lo tenevano stretto per le braccia per non farlo scappare.
Klaus, dal canto suo, continuava a dimenarsi, ma già dopo la seconda frustata sembrava più debole, come se sapesse che tentare di fuggire non sarebbe servito a niente – cosa che in effetti era vera. Tuttavia, era palese che non volesse dare soddisfazione al padre e perciò si sforzava di non emettere nemmeno un suono che sottolineasse il dolore di quella rudimentale tortura. London lo vide mordersi le labbra a sangue dopo la terza frustata, quando gli cominciarono a tremare le gambe.
La ragazza si chiese per quanto ancora Klaus avrebbe retto; per quanto ancora Shyvonne sarebbe stata capace di guardare la scena senza proferire parola e piangere in silenzio; per quanto ancora lei stessa sarebbe rimasta lì a fissare i rivoli di sangue scivolare sulla schiena del suo odiato marito; e, anche, per quanto ancora Frantz avrebbe avuto intenzione di continuare.
Strinse i pugni per darsi forza e reagire, ma quando fu pronta ad opporsi, finalmente, era già passato qualche minuto abbondante e il corpo di Klaus era steso a terra esanime, mentre suo padre e i Pacificatori abbandonavano la stanza probabilmente soddisfatti.
Si domandò sconvolta perché il tempo fosse volato così velocemente sotto i suoi stessi occhi e perché cominciasse a sentire una brutta sensazione allo stomaco, qualcosa di simile al senso di colpa, dal momento che quel ragazzo or ora svenuto sul pavimento impersonava il suo peggior nemico e la causa di tutti i suoi problemi.
Shyvonne la trascinò accanto al figlio ed entrambe gli si accucciarono ai lati, voltandolo in una posizione più comoda. London ascoltò in silenzio i singhiozzi della donna, che accarezzava i capelli del ragazzo dopo essersi appoggiata la sua testa in grembo.

« E’ un mostro » pianse Shyvonne. « Prima o poi lo ucciderà. Non l’ha mai voluto, mai»
London non faticò a crederci. Era assurdo che un padre volesse così male al proprio figlio… sì, anche se si trattava di Klaus, la persona più insopportabile del pianeta.
London si ripeteva di odiarlo con tutte le sue forze per tutto quello che le aveva fatto passare, ma in quel momento sentì la rabbia venirle meno e qualcosa di più umano salire a galla. Compassione, pietà? Non sapeva cosa fosse e non voleva saperlo. Piuttosto, fece quella che riteneva la cosa più giusta da fare in una situazione del genere.

« Chiamo Benjamin, così mi aiuta a riportarlo a casa » disse a Shyvonne col tono fermo di chi ha deciso finalmente cosa fare dopo essersi schiarito le idee.
La donna annuì e sorrise tristemente in un muto ringraziamento.


 
*
 

La prima cosa che percepì nel tornare cosciente fu la sensazione più simile e contemporaneamente più differente al dolore che si potesse immaginare. Non aveva ancora aperto gli occhi soltanto perché preferiva tenerli serrati; non aveva esattamente voglia di scoprire cosa lo aspettava al di là delle proprie palpebre categoricamente abbassate. Forse un incubo, un incubo tramutatosi in realtà.
Cercò di regolarizzare il respiro, ma anche il più piccolo movimento dei muscoli gli provocava fitte lancianti alla schiena seguite da un bruciore acuto e sconosciuto, che lo scuoteva vertebra per vertebra.
Tentò di focalizzarsi su altro o, se avesse continuato a pensare a quella sensazione di sofferenza pungente, sarebbe decisamente impazzito. Gli sembrava di essere steso su un divanetto, a pancia in giù, con il volto poggiato su un cuscino di stoffa vellutata; non aveva ancora intenzione di aprire gli occhi, per cui si concentrò sui pochi suoni attutiti che riusciva a distinguere.

« E’ assurdo » bisbigliò una voce fine e maschile. « Non ci posso credere. Papà non farebbe mai una cosa simile. »
« Esatto! » sbottò un’altra, femminile, con il tono leggermente più elevato. « Ancora mi domando con che genere di persone ci siamo imparentati. Insomma, se Frantz mi avesse messo le mani addosso… »
« Non l’avrebbe fatto. »
« Cosa te lo fa pensare? »
« Prima hai detto che Shyvonne ti ha rivelato che Frantz non l’ha mai voluto, Klaus, no? Il suo accanimento è verso di lui, non verso te. »
« Può darsi, ma ciò non toglie che quell’uomo sia completamente pazzo. Il viso di Shyvonne era sconvolto… sembrava sottomessa al volere del marito. Ecco perché non diventerò mai come lei. »
Ci fu qualche istante di silenzio e Klaus cominciò a comprendere che il centro della conversazione fossero gli avvenimenti precedenti al suo svenimento, che tuttora gli balzavano in testa ancora sfocati e privi di senso.
« A cosa stai pensando? » domandò di nuovo la ragazza che, Klaus non aveva più dubbi, fosse London in compagnia del gemello.
« In realtà non lo so, ma… non ti sembra un po’ strano che Frantz vi abbia praticamente ordinato di avere un figlio quando in realtà anche lui non ne aveva mai voluto uno? » considerò Benjamin.
London probabilmente rimase a riflettere qualche istante. 
« Forse vuole scaricare su di noi tutto ciò che ha passato lui stesso in prima persona. »
« Non credo » ribatté lui. « Se fosse stato così non avrebbe di certo preso Klaus a frustate. Anzi, avrebbe dovuto rendergli la vita migliore. »
Frustate. Ecco di cosa si trattava. Klaus cominciò a ricordare lucidamente poco a poco, mentre il bruciore si faceva sempre più insistente, premendo per rigettarlo nel mondo del suo subconscio. Socchiuse gli occhi a fatica, scoprendo che era già sera e che la stanza in cui si trovava – era il salotto della sua nuova casa, quello? – era immersa nel buio, tranne per uno spicchio di luce artificiale che illuminava i volti tesi dei due Bridge intenti a discutere intorno al tavolino di mogano appoggiato alla parete opposta.
« Ah, non saprei » borbottò la ragazza. « Quell’uomo mi sembra l’ultima persona capace di rendere la vita migliore a qualcuno. Forse gli interessano solo i soldi e il potere… forse aveva capito sin dall’inizio che noi Bridge siamo più influenti di loro e che gli conveniva organizzare il matrimonio ed il resto invece di contrastarci. »
Klaus normalmente non sopportava che i Bridge ostentassero ai quattro venti la propria superiorità e in genere avrebbe preferito insultarli sarcasticamente o mandarli direttamente a farsi fottere, ma tutto ciò che uscì dalle sue corde vocali fu un mugolio indistinto, al che i due gemelli si voltarono di scatto verso di lui.
« E’ sveglio? » mormorò London, scrutandolo nel buio.
Ben si alzò dalla sedia, si avvicinò circospetto al divanetto e, quando lo raggiunse, gli scostò una ciocca di capelli scuri dalla fronte imperlata di sudore, per osservare meglio il suo viso. 
« Oh, ben svegliato » disse con tono allegro.
Klaus rintanò il volto nel cuscino, incapace di muovere altre zone del corpo immediatamente vicine alla schiena. 
« Dove sono? » mugugnò, stizzito.
« A casa. »
Il ragazzo non si mosse, ma continuò: « E come ci sono finito? »
« Io e London ti ci abbiamo portato di peso, dovresti esserci grato » rispose Ben con un sorriso gentile. « Oh, e ti abbiamo anche pulito le ferite. »
Klaus borbottò qualche altra cosa nel cuscino, poi si voltò di poco verso di lui, in piedi accanto al divanetto. « Beh, grazie tante. »
« E’ stato un piacere. »
Qualche altro istante di silenzio, poi il moro chiese a bassa voce, come se sapesse che la risposta l’avrebbe umiliato parecchio: « Quante? »
Non aveva precisato quante cosa, ma Ben colse al volo il significato di quella domanda. « Ne ho contate tredici » replicò l’albino in un soffio, sfiorandogli una delle ferite lunghe e dritte con la punta delle dita e provocando un gemito soffocato dell’altro, che sentiva ancora l’aria umidiccia estiva penetrargli nelle piaghe ancora aperte ed esposte. Klaus rimase steso a bocconi e spostò lo sguardo sulla moglie, ancora seduta al tavolino. Non riuscì a decifrare la sua espressione seria, tutt’altro che gentile come quella di Ben.
Rimasero zitti per qualche minuto, con l’unica compagnia del ticchettare dell’orologio a pendolo in sottofondo.

« Ti fanno ancora male? » chiese il gemello, accucciandoglisi accanto alla schiena per osservare meglio la portata delle ferite con occhio critico e attento.
« Sto benissimo » biascicò Klaus. « Potete anche andarvene. »
Ben lo ignorò e prese tra le mani candide la pezza inumidita appoggiata precedentemente sulla spalliera del divano. « Alcune sanguinano ancora » esaminò, poggiandogli quel pezzo di stoffa fredda e bagnata sul fianco sinistro. « Forse ti rimarranno le cicatrici. »
Klaus fece un movimento brusco – che inoltre gli provocò delle fitte lancianti lungo tutta la colonna vertebrale – e tentò di allontanare Ben con un braccio, farfugliando frasi sconnesse come « Cazzo, lasciatemi in pace! » « Non ho bisogno di voi! »
Trovava estremamente frustrante essere nelle mani dei due Bridge e dover affermare la loro supremazia momentanea, senza neanche potersi alzare per andarsi a prendere una boccata d’aria e riflettere in santa pace. Non provava neanche senso di gratitudine per loro, solo una rabbia a stento trattenuta per quello che era accaduto o che sarebbe accaduto da quel momento in poi.
Ben si decise a lasciarlo perdere, tornando a rivolgersi a London. 
« Va bene. Io torno a casa, si è fatto tardi » le disse, alzandosi e andando a posarle un bacio sulla fronte. « Cercami, se hai bisogno di me. »
« D’accordo » disse flebilmente lei, accompagnandolo alla porta.

Quando London tornò nel salotto, Klaus aveva la mente altrove e non vide neanche che la ragazza aveva trascinato una sedia per sedersi di fronte a lui e parlargli a quattr’occhi.
Poiché lei non aveva ancora accennato a proferire parola, però, soppesò lo sguardo sul suo volto alzando un sopracciglio. 
« Te ne vai? » le chiese acidamente.
London non sembrò neanche far caso alla sua consueta insolenza, ma si limitò a fissarlo con sguardo serio. 
« Senti, Klaus, dobbiamo parlare. »
« Adesso? »
«
 Adesso. »
Klaus sbuffò e tentò di girarsi in una posizione più comoda, ma abbandonò presto l’intento. « Cosa vuoi fare? Umiliarmi un altro po’, magari? »
« Mi piacerebbe tanto » ribatté velocemente London, gonfiando le guance, indispettita. L’aveva aiutato, medicato e lui così la ripagava? « Ma in realtà volevo dirti ben altro. »
« Ti ascolto; dopotutto non ho scelta » replicò il ragazzo con un sospiro grave.
London non aspettò altro per riversare su di lui quel fiume di pensieri che le aveva corroso la mente per tutto il pomeriggio. 
« Quello che è successo oggi è inammissibile » spiegò in fretta. « Non appena i miei lo verranno a sapere s’incazzeranno di brutto, e mi sembra anche normale! Tuo padre è un pazzo, non può fustigare le persone a proprio piacimento, né ordinarmi di concepire un figlio con te, perché è l’ultima delle mie intenzioni » continuò, alzando il tono di voce senza neanche accorgersene. « Vuoi sapere cosa ha detto tua madre? Che Frantz ti ucciderà, prima o poi! E non faccio fatica a crederci, non dopo quello che i miei occhi sono stati costretti a vedere oggi. »
« E quindi? » la interruppe Klaus bruscamente, afferrandole un polso per avvicinarla di più a sé e permetterle di guardarlo bene negli occhi. « Credi che non lo sappia? Combatto con mio padre da ventun’anni, forse posso permettermi di immaginare a cosa sarebbe capace di arrivare. »
« E di cosa è capace? » urlò London, scattando in piedi e liberandosi della presa dell’altro. « Sentiamo » lo incitò, incrociando saldamente le braccia sotto al seno.
« Di molte cose » rispose Klaus. « Tu non lo conosci. »
« Per fortuna » sibilò la ragazza.
« Benvenuta in casa Wreisht, Londie. I tuoi amati genitori avrebbero dovuto sapere che stavano consegnando la loro preziosa figliola in pasto ai serpenti » ribatté lui sarcasticamente.
« Allora perché non proponi una soluzione, genio? » sbottò London. « E muoviti, perché io non ho assolutamente intenzione di continuare la nostra fantastica vita matrimoniale in questo modo, tra frustate e medicazioni. »
Klaus avrebbe voluto arrabbiarsi di più con lei, ma la sua momentanea debolezza a stento gli permetteva di parlare. « Parli come se le ripercussioni le avessi tu, poi » mormorò seriamente.
London si bloccò per un istante, ma poi proseguì: 
« E chi mi garantisce che tuo padre non se la prenda anche con me, un giorno? Oh, ci avrei scommesso che questo fottuto matrimonio non avrebbe portato a niente. » Cominciò a girare per la stanza nervosamente, alternando insulti vari a imprecazioni contro tutte e dodici le generazioni dei Wreisht.
Klaus le avrebbe volentieri tappato la bocca, se solo avesse avuto la capacità di muoversi, ma i pensieri cominciarono a vorticare veloci nella sua testa. Serviva una soluzione, una soluzione fattibile. O nessuno sapeva come tutta la faccenda si sarebbe conclusa.
Se avessero deciso di annullare il matrimonio – come si erano detti di fare almeno un migliaio di volte – avrebbero soltanto alimentato l’ira di Frantz e fermarlo era impossibile, considerando che deteneva il controllo di un bel drappello di Pacificatori per giunta pagati profumatamente.
Se avessero deciso di non fare assolutamente nulla l’effetto sarebbe stato lo stesso.
Sembrava non esserci esito positivo in nessuno dei casi.
Nessuno?, gli sussurrò una vocina insidiosa nella sua testa.
Sembrava non esserci esito positivo in nessuno dei casi, a meno che…
London parve giungere alla stessa conclusione dopo qualche minuto e solo allora si voltò a guardarlo con un’espressione sconvolta, completamente diversa da quella seria e infuriata di qualche istante prima.

« Di soluzione ce n’è solo una » disse Klaus piano. « E non credo ti piacerà. »
London annuì, per fargli capire che ci era arrivata da sola.
E così… se entrambi desideravano una vita priva di intoppi e problemi come quello, avrebbero dovuto avere un figlio. Un erede. Una piccola creatura che mettesse le cose a posto.
Klaus scacciò quell’idea dalla mente con una risata fredda e amara.
 
 
*

 

London guardò l’orologio a pendolo sopra al caminetto, che segnava le due e mezza del mattino. Era in camicia da notte – una di quelle fini e di seta che qualche sua prozia lontana le aveva regalato per il matrimonio insieme ad un corredo di biancheria – e non era riuscita a prendere sonno nonostante la stanchezza e le palpebre pesanti.
Dopo minuti interi passati a girovagare per la casa, era ritornata in salotto e aveva controllato che Klaus stesse dormendo placidamente, prima di sedersi accanto a lui con uno sbuffo.
Si era detta che l’indomani sarebbe tornato tutto normale: si sarebbe svegliata di buon’ora, avrebbe fatto colazione con la sua adorata marmellata di lamponi, si sarebbe fatta una doccia rinfrescante, avrebbe salutato Mara e l’avrebbe aiutata a riassettare la casa come tutti i giorni. Poi sarebbe andata da Ben e avrebbe seppellito Klaus in un angolino della sua testa.
E invece aveva la spiacevole sensazione che quel pomeriggio maledetto avesse fatto prendere alla sua vita una strada diversa, una strada che ora l’aveva posta di fronte ad un bivio pericoloso: avere un figlio con Klaus oppure vedere la vita di entrambi andare a rotoli – o peggio.
London considerava entrambe le opzioni insopportabili. Per nulla al mondo avrebbe voluto partorire un bambino con il proprio sangue misto a quello del suo peggior nemico. Eppure per nulla al mondo, anche, avrebbe voluto vedere Klaus morto.
Perché era di quello che si trattava. Se Frantz si fosse permesso di fare del male alla sua famiglia, allora i Bridge si sarebbero difesi da soli… ma Klaus non poteva essere difeso da nessuno, nemmeno da Shyvonne, che era l’esatto opposto di una donna forte e con potere decisionale. E suo padre l’avrebbe ucciso, prima o poi, come era immaginabile, se non avesse dato ai Wreisht un erede di sangue nobile.
Il pensiero la colpì veramente per la prima volta in quella giornata. Si era sempre ritrovata a credere che la propria vita senza Klaus sarebbe stata infinitamente migliore… eppure tutte le volte che si era trovato in pericolo – gli Hunger Games ne erano un esempio lampante – London aveva sperato che ne uscisse vivo.
Non sapeva come spiegarselo, né aveva intenzione di pensarci, però quella situazione l’aveva messa davvero alle strette, come se quella scelta le sarebbe stata fatale per sempre e da questa sarebbe dipeso il suo futuro.
Una vita senza Klaus o una vita definitivamente legata a Klaus.
Lo osservò di sottecchi imbronciata, prendendo poi, per uno strano e irrefrenabile impulso, a passargli con delicatezza le dita sul volto, esplorando la fronte, gli zigomi, l’arcata nasale e la mandibola.
Klaus non era perfetto, a differenza di Ben: aveva una piccola gobba sul naso, la bocca troppo sottile e il mento troppo squadrato – senza contare quell’insopportabile accenno di barba che proprio non decideva a rasarsi.
Gli passò, stavolta, l’indice sulle labbra lentamente, disegnandone il contorno e osservando la sua reazione. Klaus sembrò rilassarsi a quel contatto, perché assunse un’espressione più serena, come se avesse accantonato l’angoscia in un angolo.
London, involontariamente, ricordò di quando era stata a letto con lui – dopotutto tentava sempre di dimenticarlo o fare finta di averlo dimenticato –, e indugiò con il polpastrello sul labbro inferiore, pensando che non era stato affatto un cattivo baciatore.
S’indignò da sola per quella considerazione, staccando la mano dal suo viso, nonostante un languido calore le avesse invaso il basso ventre.
Ti odio, stronzo, sospirò indispettita, ricordando come tutte le volte si divertisse a schernirla per quel maledetto sbaglio che aveva commesso in passato, durante la prima notte di nozze.
Forse non ne valeva la pena, di salvarlo da quella tortura. Non ne valeva la pena di sacrificarsi così tanto solo per fargli un favore.
Osservò le tredici strisce rosse sulla sua schiena, rabbrividendo, e rammentò di quando aveva stretto lei stessa quella schiena con le unghie per aggrapparvisi con forza, reazione dovuta a quel piacere così estraneo di cui ancora si vergognava. Scostò lo sguardo, scacciando quei ricordi.
No, se scegliere l’erede significava adempire al proprio ruolo di sposa come citava la formula matrimoniale – in salute e in malattia –, non ne valeva la pena.
O forse sì.













   
 
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