Capitolo 2
Non
credo di aver mai sentito il
tempo scorrere così lentamente. I miei documenti sembrano
non finire mai e la
lancetta dell’orologio pare abbia timore del mio sguardo.
Ogni qual volta alzi
il capo e mi ritrovi ad osservare il quadrante bianco
dell’orologio sulla parete
difronte a me, la lancetta dei minuti risulta ferma: completamente
immobile.
Quasi qualcuno avesse deciso di togliere le pile all’orologio
al solo scopo di
farmi dispetto. Almeno un paio di volte ho avvertito
l’impulso e la curiosità
di alzarmi, spostare la sedia contro la parete dove
l’orologio è posizionato
(questo poiché sono troppo bassa per poterci arrivare
altrimenti) e sollevarlo
dal gancio sul quale è appeso per controllare se
effettivamente le batterie non
siano state rimosse o se invece siano semplicemente esaurite.
Mentre
mi arrovello su questo
dilemma Andrew entra nel mio ufficio. Non appena il suo sguardo
incrocia il mio
capisco il motivo della sua visita.
-È
qui, non è vero?
Chiedo
fingendo di essere
occupata in mansioni di ufficio quali: allineare dei fogli, sistemare
delle graffette o
semplicemente tenere impegnate le mani in qualche modo.
-Non
essere nervosa Jennifer.
Sarà pure un pescecane sulla carta ma noi ancora non lo
conosciamo.
Preferisco
non ripetere ad Andrew
quanto poco tolleri i procuratori distrettuali o gli avvocati, in
generale.
Detesto quando, per forza di cose, ci tocca lavorare con i penalisti:
fanno
parte della peggior specie. Sono senza pietà, non hanno
interesse se non il
proprio e, perlomeno quelli che ho avuto modo di conoscere, non sono a
coscienza di un piccolo codice comportamentale chiamato
“buone maniere”.
-Lo
so che detesti dover trattare
con questa gente ma non abbiamo scelta. È il nostro lavoro,
Jen.
Sospiro.
Andrew mi osserva da dietro
le lenti dei suoi occhiali, mi riserva uno di quei suoi sguardi severi
ma allo
stesso tempo bisognosi di comprensione. Annuisco, senza commentare
ulteriormente ciò che ha appena detto.
-Si
presenterà qui in ufficio o
dobbiamo andare a conoscerlo in tribunale?
Chiedo,
cercando di nascondere la
mia insofferenza.
-Qui.
Sta parlando adesso con
Katherine, le ho detto di preparare la sala che di solito usiamo per
gli
incontri.
Mi
alzo, sistemando adeguatamente
la sedia contro la scrivania. Nell’alzarmi dò
un’ultima occhiata alla finestra
e ancora non ha smesso di piovere. Penso tra me e me che non potrebbe
esserci
tempo peggiore per incontrare un avvocato, se non questo.
Rapidamente
seguo Andrew e mi
dirigo verso la sala degli incontri, che nulla è se non un
ufficio più grande
degli altri nel quale è stato posizionato un vecchio tavolo
piuttosto lungo e
al quale sono state aggiunte sei seggiole. Quando arriviamo sulla porta
della
stanza, di spalle, scorgo la figura buia della persona che ci
apprestiamo conoscere.
Sta parlando con Katherine, una
delle segretarie.
-Mi
fa piacere sia arrivato così
presto, avvocato Becks.
Esordisce
Andrew, tendendogli la
mano. Immediatamente l’uomo si gira, dandomi modo di
osservarlo attentamente.
Dopo avergli rivolto uno sguardo da capo a piedi mi ritrovo costretta a
confermare la mia ipotetica ed ironica descrizione fatta ad Ellie,
qualche ora
prima. L’avvocato è piuttosto alto e magro. Non
è eccessivamente brutto.
Ritengo anzi che possa avere il suo fascino per quelle donne che
sappiano
apprezzare gli uomini rasati, con il naso aquilino e con una perenne
aria di
sufficienza.
-Piacere.
Si
limita a dire, stringendo
rapidamente la mano di Andrew.
-Vogliamo
entrare?
Invita
allora il capo, indicando
la porta aperta della stanza. Tutti i presenti, ad eccezione di
Katherine che
si allontana chiudendo la porta, prendono posto. Io e Andrew ci sediamo
sullo
stesso lato del tavolo, mentre l’avvocato si siede sulla
sedia opposta alle
nostre e senza darci troppa importanza appoggia la sua valigetta, che
fino a pochi
istanti prima reggeva in mano, sul tavolo. Gesto abbastanza maleducato,
poiché
la valigetta inzuppata dalla pioggia crea immediatamente una chiazza
d’acqua
sul tavolo. Sogghigno, pensando a quanto siano azzeccate le mie
supposizioni
sugli avvocati. Naturalmente Andrew se ne accorge e mi rivolge uno dei
suoi sguardi severi, questa volta vuole semplicemente rimproverarmi.
-La
ragazza… sarebbe?
Chiede
l’avvocato, senza
rivolgere lo sguardo verso nessuno di noi. Se ne sta semplicemente con
la testa
infilata nella valigetta, alla ricerca di chissà quale
documento. Ad ogni modo
io ed Andrew ci guardiamo per capire cosa intenda con “la
ragazza”, conveniamo
si stesse riferendo a me. In effetti non si è dato la pena
di salutarmi poco prima,
sul ciglio della porta. D’altro canto nemmeno io ci ho
pensato troppo. Tutto
ciò non può che presagire l’inizio di
una terribile collaborazione. Andrew mi
precede nella risposta, probabilmente temeva uscissi con qualche frase
tagliente.
-Jennifer
Ricci: assistente
sociale. Lavoriamo insieme a questo caso.
L’avvocato
alza la testa e mi
indirizza nuovamente uno sguardo di sufficienza.
-C’è
veramente bisogno di due
persone, per questo caso?
Faccio
un respiro profondo e
cerco di tenere la bocca chiusa, se l’aprissi probabilmente
non sarei in grado
di risparmiarmi qualcosa di offensivo.
-Questo
è il modo in cui
lavoriamo nel mio ufficio.
Risponde
rapidamente Andrew, con
diplomazia. Questa volta evita di rimproverarmi, evidentemente la
domanda
dell’avvocato deve aver infastidito anche lui.
-Contenti
voi… Dunque, prima di
chiedervi il parere riguardo al caso Goldman, vorrei leggere il referto
medico
di Margareth Goldman Jones.
Andrew
annuisce. Conosciamo
entrambi a memoria quel referto, ce l’hanno letto diverse
volte nel corso degli
ultimi mesi. Andrew si mette comodo, gomiti poggiati sul tavolo e mento
tra il
palmo delle mani. Sta osservando l’avvocato, per questo non
riesco a scorgere
la sua espressione. Io, al contrario, preferisco non ascoltare per
l’ennesima
volta quel documento e la mia attenzione è rivolta
all’ambiente circostante. Si
tratta di un altro “antro” buio. Non
c’è nessuna finestra, solo una bocchetta
per l’aria posizionata in alto, tra la parte finale del muro
e il soffitto.
L’illuminazione dell’ambiente è
piuttosto scarsa, benché sul soffitto siano
installati dei faretti, presumo al led, a giudicare dal colore
azzurrognolo
della luce che emanano. La porta è chiusa e la finestra
più vicina è al di là
del corridoio, ragion per cui non riesco a capire se stia ancora
piovendo o se
invece quel temporale che ci tormenta da due giorni abbia deciso di
lasciar
posto al sole. A giudicare dal mio umore il temporale deve essere ben
lontano
dalla fine.
Osservo
l’avvocato, che ancora
sta leggendo il documento. Di tanto in tanto alza gli occhi dal foglio
e
osserva Andrew che si limita ad asserire col capo. Posso
tranquillamente
affermare di non aver ascoltato una parola di quanto ha detto
quell’uomo. Lo
vedo leggere, sogghignare e scrutare Andrew ma il mio cervello non mi
da’
l’attenzione necessaria
per ascoltarlo.
-Vede
avvocato, quel referto
risale a due settimane prima della dimissione della signora Jones. I
medici
sono stati concordi a
dire che, una
volta rilasciato il paziente, sono pressoché sicure le sue
condizioni.
Riesco
a captare il discorso di
Andrew e capisco di dover tornare a seguire quanto sta accadendo.
-Vi
è anche stato detto che
potrebbero verificarsi altri episodi di alterazione.
Ribatte
l’avvocato.
-Questo
non è possibile
prevederlo.
Intervengo
io, intromettendomi
nel discorso. L’avvocato sogghigna.
-Vedo
che ha anche una voce,
signorina. Ho quasi pensato fosse un ornamento, dal momento che non in
solo istante
ha prestato attenzione a ciò che ho appena letto. Mi sbaglio?
Abbasso
lo sguardo. Non posso
contraddirlo ma al tempo stesso una grande rabbia mi monta in corpo,
facendomi
desiderare di alzarmi e di tornare nel mio ufficio.
-Conosciamo
bene il documento,
avvocato. In ogni caso gradirei continuassimo a parlare del nostro
lavoro, la
signorina Ricci le ha appena risposto.
Andrew
interviene in mio aiuto.
Lo fa sempre quando mi vede in difficoltà, credo che abbia
imparato a conoscere
i segnali d’ira sul mio viso.
-Ma
certo, signorina, nessuno è
in grado di prevederlo. Proprio per questo motivo l’idea
migliore sarebbe
quella di affidare il ragazzo ad una istituzione neutrale, che sappia
prendersi
cura di lui in modo adeguato.
Quel
“signorina” pronunciato in
tono di disprezzo per un attimo mi fa uscire di senno. Ad ogni modo
cerco di
respingere i miei personali risentimenti e rispondo.
-Tyler
ha solo nove anni. È un
bambino, non un ragazzo. Inoltre, quale istituzione potrebbe crescerlo
meglio
di quanto farebbe una madre, sua madre?
L’avvocato
scoppia in un risatina
isterica. Questa sua reazione infastidisce anche Andrew, lo capisco dai
suoi gesti:
inizia a sfregarsi nervosamente le mani e spinge, in modo piuttosto
seccato,
gli occhiali sulla gobba del naso, nel frattempo scivolatigli verso la
punta.
-Questo
è esattamente il motivo
per cui le donne non dovrebbero occupare certe posizioni lavorative. Le
consiglio, signor Greene, di rivedere le mansioni delle sue
collaboratrici.
Andrew
sbatte un pugno sul
tavolo. Non credo di averlo mai visto così irritato.
-Se
la sua intenzione, avvocato
Becks, è quella di offendere il mio organico e di scaldare
inutilmente gli
animi la invito a ripresentarsi solo quando sarà veramente
intenzionato a trattare di lavoro.
L’avvocato
annuisce.
-Non
era affatto mia intenzione scaldare
gli animi. Comunque, vi ho oltremodo esposto il mio parere. Non
c’è bisogno di
andare oltre. Il prossimo nostro incontro è fissato tra due
settimane, con il
giudice.
Rapidamente
raccoglie i documenti
posati sul tavolo e li ripone nella valigetta che poi chiude. Senza
rivolgerci
ulteriori sguardi si alza, passa accanto ad Andrew bofonchiando un
sommesso “Arrivederci”
ed esce dalla stanza dimenticandosi, oppure non importandosi, di
chiudere la
porta.
-Vedo
che la misoginia è ancora
di moda, eh?
Commento,
cercando di essere
sarcastica. Andrew non risponde. Sta ancora fissando la sedia che fino
a pochi
istanti prima era occupata dall’avvocato.
-Non
credo andrà a finire bene questa
faccenda. Lo capisci, Jennifer?
Afferma
poi, senza però
guardarmi.
-Sì,
di sicuro questa persona ci
darà filo da torcere ma ancora non sappiamo chi
sarà il giudice. Forse saremo
fortunati e potremmo lavorare di nuovo con il giudice May!
Il
giudice May, Monica May, è una
signora di circa cinquant’anni, molto intelligente e
pragmatica con la quale lo
studio di Andrew ha avuto modo di lavorare più volte. Una
persona molto
riflessiva che ci tiene ad ascoltare ogni singolo parere prima di
prendere una
decisione. Più volte siamo riusciti a ottenere il nostro
intento in situazioni
critiche, grazie al suo aiuto.
-Abbiamo
lavorato con lei
nell’ultimo caso Jennifer, non ci faranno la grazia di
affidarcela di nuovo.
Commenta
Andrew, questa volta
rivolgendomi uno sguardo che deduco preoccupato.
-Ce
la faremo anche questa volta
Andrew, vedrai.
Accarezzo
la mano di Andrew che
immediatamente afferra la mia, stringendola.
-Sai
che ora dovrai dire del
nostro incontro alla Jones, non è vero?
Annuisco.
Il primo pensiero
balenatomi in testa, vedendo l’avvocato uscire dalla stanza,
l’avevo rivolto a
Margareth con la quale avevo parlato solo qualche ora prima. Dopo
averle detto di
non perdere la speranza e di avere fiducia mi sento malissimo al sol
pensiero
di doverla portare di nuovo nello sconforto.
-Le
ho già parlato qualche ora
fa. Le ho telefonato per avvisarla dell’arrivo del
procuratore. Rimanderò a
domani la telefonata.
Andrew
mi lascia la mano e si
alza.
-Credo
sia il caso di tornare in
ufficio. Puoi tornare a casa se vuoi, Jen.
Mi
sporgo verso il ciglio della
porta per cercare di scorgere l’orologio nell’atrio
delle segretarie e noto che
è da poco passato mezzogiorno.
-Così
presto?
Chiedo,
sorpresa dalla sua
affermazione. Andrew mi sorride, un sorriso quasi malinconico.
-Si,
non credo che riusciremmo a
fare molto altro oggi. Io finirò di compilare le mie
scartoffie e poi andrò a
casa. Ellie e Adam hanno l’incontro con il giudice alle due,
quindi l’ufficio
sarà vuoto. Non voglio impegnarti la giornata inutilmente.
Senza
pensarci troppo accetto,
forse a casa riuscirò a trovare qualcosa di più
interessante da fare. Decido di
salire nell’ufficio per salutare Ellie e comunicarle che non
ci sarò per l’ora
di pranzo.
-Cosa?
No! È tantissimo che non
pranziamo insieme!
Si
lamenta, in modo bambinesco.
-Abbiamo
pranzato insieme la
settimana scorsa, Ellie.
Commento
io, sorridendo.
-Beh
vorrà dire che una di queste
sere verrò da te e mi cucinerai qualcosa di speciale!
Scoppio
a ridere. A volte
ripiango il giorno in cui invitai per la prima volta Ellie a cenare a
casa mia.
Ci eravamo appena conosciute e ancora non aveva iniziato a frequentare
Adam,
così aveva un sacco di tempo libero che non sapeva
esattamente come impegnare.
Non faceva altro che telefonarmi e chiedermi di uscire con lei in bar,
pub,
discoteche; insomma di fare vita mondana. Mi piace uscire e non
disdegno una
serata in un locale, appena posso, tuttavia dopo una settimana di
follia, con
conseguenti analgesici le mattine successive, per far fronte alle
peggiori
sbornie della mia vita, avevo deciso di fare una tregua e avevo
proposto una serata tranquilla, in casa. Ellie dopo aver storto il naso
aveva accettato e si rivelò essere,
credo, la miglior serata mai passata con lei. Fu proprio in quella sera
che mi
resi conto di aver trovato l’amica del liceo che non avevo
mai avuto occasione
di conoscere. Non so per quale motivo Ellie continui a ritenermi una
cuoca
favolosa. Potrebbe essere dovuto al fatto che lei ai fornelli sia una
frana e
che buona parte dei suoi pasti siano quei terribili vassoi pre-cotti da
infilare nel microonde. Si era letteralmente commossa davanti alla mia
semplicissima pasta con il ragù di carne, per non parlare
dell’arrosticino con
le patate al forno! A me non era costata più di un paio
d’ore la preparazione,
mentre a lei era parso chissà quale pasto faraonico. Il
risultato è che sempre
più spesso mi chieda di invitarla a cena, tante volte a
spese del povero Adam,
abbandonato e ritenuto meno interessante di un cibo cotto
adeguatamente.
-D’accordo
ma portati dietro
anche Adam. Mi spiace che se ne rimanga solo.
Ellie
scuote il capo.
-No
no cara! Adam verrà solo
quando ci sarà un altro uomo in casa tua. Quindi se ti
dispiace tanto per lui
sbrigati a trovarne uno!
Non
si smentisce mai, Ellie.
Decido di non darle ulteriormente corda e mi dirigo verso il mio
ufficio per prendere
le mie cose.
-Buona giornata Ellie! In bocca al lupo per l’incontro con il giudice.
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Secondo capitolo. Ho deciso di pubblicarli quasi ogni giorno,
finché riesco. Spero anche prima o poi di trovare una
recensione, un commento o una critica. Ci terrei ad avere un parere
esterno. Alla prossima :) --