Capitolo 1
-Jennifer
questa mattina arriva
il nuovo procuratore, mi raccomando.
È
il mio capo a pronunciare
queste parole, alle quali rispondo con uno sbuffo e un leggero accenno
col
capo. Questa mattina sono stanca, le carte da compilare sembrano non
finire mai
e il tempo, che ho modo di osservare dalla finestra accanto alla mia
scrivania,
non fa che peggiorare il mio umore. Cosa terribile la meteoropatia:
rende le
giornate piovose un vero e proprio inferno. Quando piove, quando il
cielo è
grigio e cupo, mi sembra quasi che l’intero mondo mi abbia
puntato il dito
contro. In un attimo o in un lampo, come sarebbe poetico dire, anche la
più
insignificante nota negativa della mia vita inizia
pesare e sento un grandissimo macigno che mi
schiaccia e mi lascia solo un grosso nodo alla gola, un desiderio
infinito di
scoppiare in lacrime. E dire che l’ho tanto desiderata quella
scrivania accanto
alla finestra! Dopo circa tre anni chiusa in un cubicolo buio e cieco
anche
l’idea di un pallido raggio di sole che riscaldasse il mio
viso mi sembrava una
svolta. Ma quale svolta! Ho ventisei anni, mi sono laureata a
ventiquattro con
voti non altissimi ma rispettabili e lavoro
in questo misero ufficio a William’s
County, in California, da ben quattro anni di cui due da apprendista.
Sono un
assistente sociale, perlomeno è quello che sta scritto sul
mio pezzo di carta.
-Sai
Andrew, credo che peggio di
Jakobson non potrebbe esserci nessuno!
Esclamo,
rispondendo al mio capo
che si gira improvvisamente verso di me. Stava tornando nel suo
ufficio,
probabilmente a compilare carte per l’arrivo del procuratore.
Carte, sempre
carte. Sembra che non si faccia altro di questi tempi.
Andrew,
il mio capo, mi fa cenno
con la mano di aspettare e per un secondo scompare dietro la porta del
suo
ufficio. Quando ritorna mi appoggia una cartelletta, una sorta di
dossier color
caramello sulla scrivania. Gli rivolgo uno
sguardo incuriosito aggrottando la fronte, come sono solita fare quando
non so
cosa aspettarmi. Dopodiché apro la cartelletta e scopro che
all’interno è
contenuta una scheda piuttosto dettagliata , un curriculum
forse. Inizio a leggerlo.
-Nicholas Becks, nato a Bismarck Nord Dakota, 6
gennaio 1954…
William
posa una mano sul
documento che sto leggendo, impedendomi di proseguire.
-Non
mi interessa che tu lo legga
ad alta voce, Jen. Voglio solo che dia un’occhiata ai casi
che ha trattato. Da
pagina sette a nove. Di qualcuno sicuramente ne avrai sentito parlare
per i
restanti casi… beh, puoi affidarti al buon vecchio Google o
dare un’occhiata ai
nostri dossier, giù nelle cantine.
Il
nome da solo non mi suscita
alcun pensiero per cui, senza stare a controllare caso per caso, digito
immediatamente
“Nicholas Becks” nel motore di ricerca del computer
e mi appaiono un sacco di
directory che lo citano, in un modo o nell’altro, in casi che
hanno fatto
scalpore negli ultimi mesi.
-È
uno con le palle, Jen.
Afferma
Andrew, battendomi sul
tempo. Non sarei riuscita ad esprimermi meglio.
-Lo
sai Andrew che gli darò filo
da torcere! Esattamente come ho fatto con i precedenti!
Esclamo,
fingendo una fiducia
estrema in me stessa. In realtà sto bluffando e Andrew lo sa
bene, sa che molte
volte il mio essere spavalda nasconde un paura, spesso irrazionale, di
trovarmi
a fronteggiare situazioni sulle quali potrei non avere pieno controllo.
-Ti
chiedo solo di non fare nulla
di non necessario, va bene?
Annuisco,
permettendogli di
andare finalmente nel suo ufficio a svolgere il suo lavoro. Sono
già le dieci
di mattina e nessuno ha fatto qualcosa di veramente concreto. Adam ed
Ellie, i
miei colleghi negli uffici accanto (quelli senza finestre), sono
bloccati in un
caso di affidamento di minori abbastanza complesso. Io e il capo ci
occupiamo
di qualcosa di più grosso. Tyler, un bambino di appena nove
anni, è
sopravvissuto ad una lite domestica sfociata in un
tentato omicidio e successivo suicidio del
padre. La madre, dopo esser stata ricoverata per circa sei mesi in una
clinica psichiatrica per via dello shock, reclama il suo diritto di
averlo con
sé. Ad opporsi ci sono nonni paterni Tyler che si sono
occupati di lui nei
mesi passati e ritengono che la madre non sia idonea all'affidamento.
Ci
troviamo in un punto morto
perché il procuratore al quale era affidato il caso ha
deciso di andarsene.
Andrew ritiene che la colpa sia stata mia. Secondo gli avvocati il
ragazzo deve
essere affidato ad un istituto per minori, poiché nessuna
delle due parti è ritenuta
in grado di crescerlo adeguatamente. Io ritengo, invece, che la madre
sia
pronta a ricominciare la sua vita e che riavere Tyler con sé
potrebbe essere
non solo un aiuto ma anche uno sprono a lasciarsi quella tragedia alle
spalle.
-Quindi
arriva il nuovo
procuratore, eh?
Mi
giro ed Ellie è sulla porta
del mio ufficio. Ha in mano due bicchieroni di caffè presi
da Starbucks,
gentilmente me ne offre uno.
-Ho
pensato che ne avessi
bisogno.
Sorrido
e annuisco.
-Grazie.
Ellie
si siede su un sedia
accanto alla mia scrivania, di solito occupata dai miei
“clienti”, anche se non
li chiamerei in questo mod, direi più che altro "gli
sfortunati". Inizia a
sorseggiare il suo caffè mentre io ancora giocherello con la
cannuccia del mio.
-Magari
questa volta sarà un bel
giovane aitante che si innamorerà di te.
Scoppio
a ridere. Ellie adora
scherzare e, benché la conosca da poco più di un
anno, è la persona che si
avvicina di più alla figura di amica. Abbiamo la stessa
età, anche se lei è
arrivata soltanto lo scorso anno. “Disastrosa
Ellie” la chiama il mio capo. È una gran
pasticciona, buona parte di ciò che fa riesce adeguatamente
solo per merito di Adam, divenuto da poco tempo il suo ragazzo.
-Stai
ancora cercando un coppia
per fare doppi appuntamenti?
Chiedo,
iniziando a sorseggiare
il mio caffè. Ellie sbuffa e arrossisce, evidentemente ho
centrato il
bersaglio.
-Ma
dai! Come puoi non crederci?
Non conosco nessuno che divori le commedie romantiche come te!
È
una sorta di attacco il suo. Per
non so quale motivo non riesce a capacitarsi del fatto che la mia vita
sentimentale, di recente, sia paragonabile al più arido dei
deserti. Non ho una
relazione vera, una di quelle di cui si può parlare
nostalgicamente o dare consigli tutt'altro che spassionati, da almeno
due anni. Secondo Ellie è qualcosa di inaccettabile.
-Non
è che non ci credo Ellie,
semplicemente so come sono i procuratori distrettuali: magrissimi,
pelati o con
pochi capelli in testa, vestiti sempre come manichini, occhialetti
rotondi e
una grande, grandissima predisposizione a farmi uscire di senno.
Sorride
e spalanca quei suoi
luminosissimi occhi azzurri. È molto bella: alta,
longilinea, lunghi capelli
castani e, appunto, due occhi bellissimi. Non ci è voluto
molto prima che Adam
smettesse di rivolgere le sue attenzioni a me e le indirizzasse verso
di lei. Chi
potrebbe dargli torto? Io stessa, se dovessi scegliere, la preferirei a
me.
-Ti
dirò una cosa, Jen, si tratta
di una mia impressione.
Prima
di proseguire a parlare si
gira per assicurarsi, ho capito poi, che la porta
dell’ufficio di Andrew fosse
chiusa. Si sporge lentamente verso di me e abbassa in modo notevole il
tono
della voce, quasi sussurra.
-Credo
che Andrew abbia un debole
per te.
Porto
gli occhi al cielo. Non
posso credere che sia arrivata a fare queste ipotesi.
-Perché
no?
Chiede,
accortasi della mia
espressione disdegnante.
-Non
dire sciocchezze Ellie. Per
prima cosa è il mio capo, ha circa vent’anni in
più di me, è separato da poco
e… di sicuro non è il mio tipo.
Esclamo.
In quel momento la mia
attenzione viene colta dalla pila di fogli che ancora non ho finito di
compilare. Sopra di essi c’è un post-it con il
nuovo numero di telefono della
madre di Tyler, il ragazzino che ho in custodia. Dovrei chiamarla, se
non altro
per avvisarla dell’arrivo del nuovo procuratore. Ho parlato molto con
quella donna nei mesi
passati, l’ho vista piangere e cadere nello sconforto
più profondo. Vorrei
tanto per una volta telefonarle e dirle che ho trovato la scappatoia,
il modo,
la persona giusta. Insomma vorrei tanto dirle che sono riuscita,
finalmente, a
porre fine alle sue sofferenze.
-Non
ti ho mai chiesto quale sia
il tuo ideale di uomo, Jen.
Le
parole di Ellie mi distolgono
immediatamente dai miei pensieri.
-In
che senso Ellie?
Chiedo,
temendo di essermi persa
una parte del discorso.
-Beh…
fisicamente almeno. Dici
che Andrew non è il tuo tipo, va bene. Allora cosa ti piace?
Mi
sembra una domanda piuttosto
sciocca e infantile, quella di Ellie. Tante volte quando sono con lei
mi sembra
di trovarmi con l’amica d’adolescenza che non ho
mai avuto, per un motivo o per
l’altro. Trovare un’amicizia così a
ventisei anni è piuttosto strano, come lo è
stato essermi ritrovata una domenica pomeriggio
nell’appartamento di Ellie a
vedere metà della prima serie di Sex & the city.
Eppure forse è per questo
motivo che mi trovo tanto bene con lei perché, anche se in
ritardo di almeno
una decina di anni, è riuscita ad ricoprire quella figura
che tanto mi sarebbe
servita. Sorridendo decido di rispondere alla sua domanda, allo stesso
modo in
cui lo farebbe una ragazza in età scolare.
-Allora…
lo voglio alto, moro,
pelle chiara ma non troppo. Insomma io ho la pelle già
abbastanza chiara,
insieme sembreremmo una coppia di cadaveri.
Ellie
sorride.
-E
poi…
Lo
strepitio della pioggia
battere sul vetro della finestra mi distrae e, per un attimo, mi
ritrovo a
fissare le gocce sul vetro, che si infrangono e lentamente si spingono
verso il
basso. Ancora con lo sguardo fisso nel vuoto, completo la mia risposta.
-…
con gli occhi del colore della
pioggia. Vitrei, al punto che ad ogni suo sguardo mi venga alla mente
l’acqua che
scorre e che in qualche modo lavi via tutti i miei pensieri.
Scuoto
il capo, solo dopo essermi
accorta di quanto sia patetico quello che ho appena detto. Al contrario
Ellie
sogghigna e mi osserva con sguardo sognante.
-Da
dove ti escono certi pensieri,
Jen?
Chiede,
quasi esaltata da ciò che
ho appena affermato. Al contrario io me ne vergogno e prendo finalmente
in mano
i documenti e la cornetta del cordless sulla mia scrivania.
-Immagino
da qualche film. Ora
scusami ma devo seriamente iniziare a lavorare.
Ellie
si alza, forse un po’
offesa dal modo in cui l’ho liquidata.
-Ok,
ok! Buon lavoro cara. Ci
vediamo per pranzo?
Chiede.
Io annuisco, mentre
compongo il numero di telefono.
-Senz’altro.
Grazie ancora del
caffè.
Sto
componendo il numero, mi
manca una cifra e mi blocco. Immediatamente schiaccio il tasto
“annulla” ma non
appoggio la cornetta sulla base. Non ho intenzione di rimandare la
telefonata,
solo sto vivendo uno dei miei “momenti di
riflessione”, mi capita spesso. Mi
riferisco a quando il mio cervello si blocca su un pensiero o su di
un’idea in
particolare e non mi permette di fare altro finché non
sviscero quella singola
idea ai minimi termini e ne traggo, in qualche modo, una conclusione.
Sto
pensando a ciò che ho appena detto ad Ellie. Ho descritto in
maniera alquanto
grossolana ed infantile lo stereotipo fisico dell’uomo che,
se lo incontrassi e
se esistesse, potrebbe sconvolgere la mia vita. Non sono stata troppo a
pensarci, ho elencato di getto una lista di caratteristiche fisiche
più o meno
apprezzate, finché non sono arrivata a parlare degli occhi.
Ho affermato di
volere un uomo con occhi come la pioggia e, solo ora, mi rendo conto
della mia
incoerenza. Come potrei desiderare di vedere ogni giorno un uomo il cui
sguardo
mi portasse alla mente qualcosa che mi rende tanto triste? Detesto la
pioggia,
sono sempre malinconica durante i temporali. E allora
perché? Arrivata alla
conclusione di non avere una spiegazione, non per il momento, decido di
tornare
a concentrarmi sul mio lavoro e compongo finalmente il numero della
madre di
Tyler. Il telefono fa diversi squilli prima di permettermi di sentire
la voce
dall’altro capo.
-Margareth?
Questo
è il nome della donna.
Conoscendola da circa tre mesi e avendo parlato con lei quasi ogni
giorno ho
sviluppato una certa confidenza, un certa complicità.
Abbiamo iniziato a
chiamarci per nome e abbiamo deciso di abolire ogni
formalità eccessiva.
-Jennifer!
Ti ho pensata
stamattina, ci sono novità?
Il
suo tono di voce è impaziente,
speranzoso. Ogni volta che le devo comunicare qualche notizia il mio
cuore
sobbalza.
-Direi
di si.
Mi
limito a dire, cercando di
celare in qualche modo la mia preoccupazione.
-Ti
ascolto!
Me
la immagino, dall’altra parte,
seduta composta mentre con una mano accarezza nervosamente il bracciolo
della
poltrona su cui è seduta. La immagino sulla stessa poltrona
sulla quale l’ho
sempre trovata seduta nelle mie visite nel suo appartamento: una reclinabile marrone,
molto anni ’70, con
dei braccioli di legno chiari, piuttosto ampi.
-Stamattina
siamo stati informati
dell’arrivo del nuovo procuratore distrettuale.
Cerco
di non far trapelare nessun
tipo di emozione. Non voglio preoccuparla né crearle
aspettative inesistenti.
-Oh…
immagino fosse imminente. E
dimmi, che tipo è?
A
quella domanda inizio a pensare
a quanto sia inutile la mia telefonata. Avrei sicuramente fatto miglior
cosa a
rimandare la chiamata dopo averlo conosciuto, quel procuratore. In quel
modo
sarei stata in grado di preparare adeguatamente Margareth. Ora non so
proprio
cosa dirle e mi sento un po’ sciocca.
-La
verità è che… ancora non
abbiamo avuto modo di conoscerlo. Ho voluto chiamarti solo per
avvisarti, per
dirti… di non perdere la speranza, ecco tutto.
Pessime
parole, me ne rendo conto.
Tuttavia non sono stata in grado di trovare una motivazione differente.
-Capisco…
Ti ringrazio per avermi
avvisata Jennifer. Ti assicuro che non smetterò mai di
perdere le speranze,
soprattutto finché saprò di avere almeno una
persona al mio fianco. Sei ancora
con me, non è vero?
La
sua voce è insicura, tremante.
Ha bisogno di essere rassicurata e, almeno questo, sono in grado di
farlo.
-Ma
certo Margareth! Io sarò
sempre dalla tua parte e farò di tutto, per il
bene di Tyler.
Sento
Margareth vacillare
dall’altro capo del telefono. Lo avverto dalla sua voce, dal
suo respiro
affannoso.
-Ora
stacco. Ti farò sapere
quanto prima eventuali novità.
Decido
di chiudere la telefonata.
La mia emotività eccessiva a volte è un ostacolo
grande, quasi invalicabile,
nello svolgere il mio mestiere.
-Grazie,
a presto.
Appoggio
velocemente il telefono
sulla base e sospiro, prendendomi poi il capo fra le mani. Ci sono
giorni in
cui mi chiedo cosa mi abbia spinto a scegliere una professione che
coinvolga in
modo così massiccio i sentimenti.
Piove,
piove ancora, piove
sempre.