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Autore: Hatsumi    03/09/2013    0 recensioni
"Vorrei un uomo con gli occhi del colore della pioggia."
Jennifer, assistente sociale, inguaribile romantica e indolente meteoropatica poco o nulla conosce dell'amore. Non è in grado di spiegare le caratteristiche dell'uomo che potrebbe seriamente rapirle il cuore ma sa, è certa, che i suoi occhi dovranno essere: "Vitrei al punto che ad ogni suo sguardo mi venga alla mente l’acqua che scorre e che in qualche modo lavi via tutti i miei pensieri.".
Eppure Jennifer detesta la pioggia. Si tratta di un semplice capriccio o c'è forse qualcosa nel suo animo a suggerirle tale desiderio? Qualcosa di nascosto, dimenticato pronto ad emergere,
sconvolgendo la sua esistenza.
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 1

-Jennifer questa mattina arriva il nuovo procuratore, mi raccomando.

È il mio capo a pronunciare queste parole, alle quali rispondo con uno sbuffo e un leggero accenno col capo. Questa mattina sono stanca, le carte da compilare sembrano non finire mai e il tempo, che ho modo di osservare dalla finestra accanto alla mia scrivania, non fa che peggiorare il mio umore. Cosa terribile la meteoropatia: rende le giornate piovose un vero e proprio inferno. Quando piove, quando il cielo è grigio e cupo, mi sembra quasi che l’intero mondo mi abbia puntato il dito contro. In un attimo o in un lampo, come sarebbe poetico dire, anche la più insignificante nota negativa della mia vita inizia  pesare e sento un grandissimo macigno che mi schiaccia e mi lascia solo un grosso nodo alla gola, un desiderio infinito di scoppiare in lacrime. E dire che l’ho tanto desiderata quella scrivania accanto alla finestra! Dopo circa tre anni chiusa in un cubicolo buio e cieco anche l’idea di un pallido raggio di sole che riscaldasse il mio viso mi sembrava una svolta. Ma quale svolta! Ho ventisei anni, mi sono laureata a ventiquattro con voti non altissimi ma rispettabili e  lavoro in questo misero ufficio a William’s County, in California, da ben quattro anni di cui due da apprendista. Sono un assistente sociale, perlomeno è quello che sta scritto sul mio pezzo di carta.

-Sai Andrew, credo che peggio di Jakobson non potrebbe esserci nessuno!

Esclamo, rispondendo al mio capo che si gira improvvisamente verso di me. Stava tornando nel suo ufficio, probabilmente a compilare carte per l’arrivo del procuratore. Carte, sempre carte. Sembra che non si faccia altro di questi tempi.

Andrew, il mio capo, mi fa cenno con la mano di aspettare e per un secondo scompare dietro la porta del suo ufficio. Quando ritorna mi appoggia una cartelletta, una sorta di dossier color caramello sulla scrivania. Gli rivolgo uno sguardo incuriosito aggrottando la fronte, come sono solita fare quando non so cosa aspettarmi. Dopodiché apro la cartelletta e scopro che all’interno è contenuta una scheda piuttosto dettagliata , un curriculum forse. Inizio a leggerlo.

-Nicholas Becks, nato a Bismarck Nord Dakota, 6 gennaio 1954

William posa una mano sul documento che sto leggendo, impedendomi di proseguire.

-Non mi interessa che tu lo legga ad alta voce, Jen. Voglio solo che dia un’occhiata ai casi che ha trattato. Da pagina sette a nove. Di qualcuno sicuramente ne avrai sentito parlare per i restanti casi… beh, puoi affidarti al buon vecchio Google o dare un’occhiata ai nostri dossier, giù nelle cantine.

Il nome da solo non mi suscita alcun pensiero per cui, senza stare a controllare caso per caso, digito immediatamente “Nicholas Becks” nel motore di ricerca del computer e mi appaiono un sacco di directory che lo citano, in un modo o nell’altro, in casi che hanno fatto scalpore negli ultimi mesi.

-È uno con le palle, Jen.

Afferma Andrew, battendomi sul tempo. Non sarei riuscita ad esprimermi meglio.

-Lo sai Andrew che gli darò filo da torcere! Esattamente come ho fatto con i precedenti!

Esclamo, fingendo una fiducia estrema in me stessa. In realtà sto bluffando e Andrew lo sa bene, sa che molte volte il mio essere spavalda nasconde un paura, spesso irrazionale, di trovarmi a fronteggiare situazioni sulle quali potrei non avere pieno controllo.

-Ti chiedo solo di non fare nulla di non necessario, va bene?

Annuisco, permettendogli di andare finalmente nel suo ufficio a svolgere il suo lavoro. Sono già le dieci di mattina e nessuno ha fatto qualcosa di veramente concreto. Adam ed Ellie, i miei colleghi negli uffici accanto (quelli senza finestre), sono bloccati in un caso di affidamento di minori abbastanza complesso. Io e il capo ci occupiamo di qualcosa di più grosso. Tyler, un bambino di appena nove anni, è sopravvissuto ad una lite domestica sfociata in un  tentato omicidio e successivo suicidio del padre. La madre, dopo esser stata ricoverata per circa sei mesi in una clinica psichiatrica per via dello shock, reclama il suo diritto di averlo con sé. Ad opporsi ci sono nonni paterni Tyler che si sono occupati di lui nei mesi passati e ritengono che la madre non sia idonea all'affidamento.

Ci troviamo in un punto morto perché il procuratore al quale era affidato il caso ha deciso di andarsene. Andrew ritiene che la colpa sia stata mia. Secondo gli avvocati il ragazzo deve essere affidato ad un istituto per minori, poiché nessuna delle due parti è ritenuta in grado di crescerlo adeguatamente. Io ritengo, invece, che la madre sia pronta a ricominciare la sua vita e che riavere Tyler con sé potrebbe essere non solo un aiuto ma anche uno sprono a lasciarsi quella tragedia alle spalle.

-Quindi arriva il nuovo procuratore, eh?

Mi giro ed Ellie è sulla porta del mio ufficio. Ha in mano due bicchieroni di caffè presi da Starbucks, gentilmente me ne offre uno.

-Ho pensato che ne avessi bisogno.

Sorrido e annuisco.

-Grazie.

Ellie si siede su un sedia accanto alla mia scrivania, di solito occupata dai miei “clienti”, anche se non li chiamerei in questo mod, direi più che altro "gli sfortunati". Inizia a sorseggiare il suo caffè mentre io ancora giocherello con la cannuccia del mio.

-Magari questa volta sarà un bel giovane aitante che si innamorerà di te.

Scoppio a ridere. Ellie adora scherzare e, benché la conosca da poco più di un anno, è la persona che si avvicina di più alla figura di amica. Abbiamo la stessa età, anche se lei è arrivata soltanto lo scorso anno. “Disastrosa Ellie” la chiama il mio capo. È una gran pasticciona, buona parte di ciò che fa riesce adeguatamente solo per merito di Adam, divenuto da poco tempo il suo ragazzo.

-Stai ancora cercando un coppia per fare doppi appuntamenti?

Chiedo, iniziando a sorseggiare il mio caffè. Ellie sbuffa e arrossisce, evidentemente ho centrato il bersaglio.

-Ma dai! Come puoi non crederci? Non conosco nessuno che divori le commedie romantiche come te!

È una sorta di attacco il suo. Per non so quale motivo non riesce a capacitarsi del fatto che la mia vita sentimentale, di recente, sia paragonabile al più arido dei deserti. Non ho una relazione vera, una di quelle di cui si può parlare nostalgicamente o dare consigli tutt'altro che spassionati, da almeno due anni. Secondo Ellie è qualcosa di inaccettabile.

-Non è che non ci credo Ellie, semplicemente so come sono i procuratori distrettuali: magrissimi, pelati o con pochi capelli in testa, vestiti sempre come manichini, occhialetti rotondi e una grande, grandissima predisposizione a farmi uscire di senno.

Sorride e spalanca quei suoi luminosissimi occhi azzurri. È molto bella: alta, longilinea, lunghi capelli castani e, appunto, due occhi bellissimi. Non ci è voluto molto prima che Adam smettesse di rivolgere le sue attenzioni a me e le indirizzasse verso di lei. Chi potrebbe dargli torto? Io stessa, se dovessi scegliere, la preferirei a me.

-Ti dirò una cosa, Jen, si tratta di una mia impressione.

Prima di proseguire a parlare si gira per assicurarsi, ho capito poi, che la porta dell’ufficio di Andrew fosse chiusa. Si sporge lentamente verso di me e abbassa in modo notevole il tono della voce, quasi sussurra.

-Credo che Andrew abbia un debole per te.

Porto gli occhi al cielo. Non posso credere che sia arrivata a fare queste ipotesi.

-Perché no?

Chiede, accortasi della mia espressione disdegnante.

-Non dire sciocchezze Ellie. Per prima cosa è il mio capo, ha circa vent’anni in più di me, è separato da poco e… di sicuro non è il mio tipo.

Esclamo. In quel momento la mia attenzione viene colta dalla pila di fogli che ancora non ho finito di compilare. Sopra di essi c’è un post-it con il nuovo numero di telefono della madre di Tyler, il ragazzino che ho in custodia. Dovrei chiamarla, se non altro per avvisarla dell’arrivo del nuovo procuratore.  Ho parlato molto con quella donna nei mesi passati, l’ho vista piangere e cadere nello sconforto più profondo. Vorrei tanto per una volta telefonarle e dirle che ho trovato la scappatoia, il modo, la persona giusta. Insomma vorrei tanto dirle che sono riuscita, finalmente, a porre fine alle sue sofferenze.

-Non ti ho mai chiesto quale sia il tuo ideale di uomo, Jen.

Le parole di Ellie mi distolgono immediatamente dai miei pensieri.

-In che senso Ellie?

Chiedo, temendo di essermi persa una parte del discorso.

-Beh… fisicamente almeno. Dici che Andrew non è il tuo tipo, va bene. Allora cosa ti piace?

Mi sembra una domanda piuttosto sciocca e infantile, quella di Ellie. Tante volte quando sono con lei mi sembra di trovarmi con l’amica d’adolescenza che non ho mai avuto, per un motivo o per l’altro. Trovare un’amicizia così a ventisei anni è piuttosto strano, come lo è stato essermi ritrovata una domenica pomeriggio nell’appartamento di Ellie a vedere metà della prima serie di Sex & the city. Eppure forse è per questo motivo che mi trovo tanto bene con lei perché, anche se in ritardo di almeno una decina di anni, è riuscita ad ricoprire quella figura che tanto mi sarebbe servita. Sorridendo decido di rispondere alla sua domanda, allo stesso modo in cui lo farebbe una ragazza in età scolare.

-Allora… lo voglio alto, moro, pelle chiara ma non troppo. Insomma io ho la pelle già abbastanza chiara, insieme sembreremmo una coppia di cadaveri.

Ellie sorride.

-E poi…

Lo strepitio della pioggia battere sul vetro della finestra mi distrae e, per un attimo, mi ritrovo a fissare le gocce sul vetro, che si infrangono e lentamente si spingono verso il basso. Ancora con lo sguardo fisso nel vuoto, completo la mia risposta.

-… con gli occhi del colore della pioggia. Vitrei, al punto che ad ogni suo sguardo mi venga alla mente l’acqua che scorre e che in qualche modo lavi via tutti i miei pensieri.

Scuoto il capo, solo dopo essermi accorta di quanto sia patetico quello che ho appena detto. Al contrario Ellie sogghigna e mi osserva con sguardo sognante.

-Da dove ti escono certi pensieri, Jen?

Chiede, quasi esaltata da ciò che ho appena affermato. Al contrario io me ne vergogno e prendo finalmente in mano i documenti e la cornetta del cordless sulla mia scrivania.

-Immagino da qualche film. Ora scusami ma devo seriamente iniziare a lavorare.

Ellie si alza, forse un po’ offesa dal modo in cui l’ho liquidata.

-Ok, ok! Buon lavoro cara. Ci vediamo per pranzo?

Chiede. Io annuisco, mentre compongo il numero di telefono.

-Senz’altro. Grazie ancora del caffè.

Sto componendo il numero, mi manca una cifra e mi blocco. Immediatamente schiaccio il tasto “annulla” ma non appoggio la cornetta sulla base. Non ho intenzione di rimandare la telefonata, solo sto vivendo uno dei miei “momenti di riflessione”, mi capita spesso. Mi riferisco a quando il mio cervello si blocca su un pensiero o su di un’idea in particolare e non mi permette di fare altro finché non sviscero quella singola idea ai minimi termini e ne traggo, in qualche modo, una conclusione. Sto pensando a ciò che ho appena detto ad Ellie. Ho descritto in maniera alquanto grossolana ed infantile lo stereotipo fisico dell’uomo che, se lo incontrassi e se esistesse, potrebbe sconvolgere la mia vita. Non sono stata troppo a pensarci, ho elencato di getto una lista di caratteristiche fisiche più o meno apprezzate, finché non sono arrivata a parlare degli occhi. Ho affermato di volere un uomo con occhi come la pioggia e, solo ora, mi rendo conto della mia incoerenza. Come potrei desiderare di vedere ogni giorno un uomo il cui sguardo mi portasse alla mente qualcosa che mi rende tanto triste? Detesto la pioggia, sono sempre malinconica durante i temporali. E allora perché? Arrivata alla conclusione di non avere una spiegazione, non per il momento, decido di tornare a concentrarmi sul mio lavoro e compongo finalmente il numero della madre di Tyler. Il telefono fa diversi squilli prima di permettermi di sentire la voce dall’altro capo.

-Margareth?

Questo è il nome della donna. Conoscendola da circa tre mesi e avendo parlato con lei quasi ogni giorno ho sviluppato una certa confidenza, un certa complicità. Abbiamo iniziato a chiamarci per nome e abbiamo deciso di abolire ogni formalità eccessiva.

-Jennifer! Ti ho pensata stamattina, ci sono novità?

Il suo tono di voce è impaziente, speranzoso. Ogni volta che le devo comunicare qualche notizia il mio cuore sobbalza.

-Direi di si.

Mi limito a dire, cercando di celare in qualche modo la mia preoccupazione.

-Ti ascolto!

Me la immagino, dall’altra parte, seduta composta mentre con una mano accarezza nervosamente il bracciolo della poltrona su cui è seduta. La immagino sulla stessa poltrona sulla quale l’ho sempre trovata seduta nelle mie visite nel suo appartamento:  una reclinabile marrone, molto anni ’70, con dei braccioli di legno chiari, piuttosto ampi.

-Stamattina siamo stati informati dell’arrivo del nuovo procuratore distrettuale.

Cerco di non far trapelare nessun tipo di emozione. Non voglio preoccuparla né crearle aspettative inesistenti.

-Oh… immagino fosse imminente. E dimmi, che tipo è?

A quella domanda inizio a pensare a quanto sia inutile la mia telefonata. Avrei sicuramente fatto miglior cosa a rimandare la chiamata dopo averlo conosciuto, quel procuratore. In quel modo sarei stata in grado di preparare adeguatamente Margareth. Ora non so proprio cosa dirle e mi sento un po’ sciocca.

-La verità è che… ancora non abbiamo avuto modo di conoscerlo. Ho voluto chiamarti solo per avvisarti, per dirti… di non perdere la speranza, ecco tutto.

Pessime parole, me ne rendo conto. Tuttavia non sono stata in grado di trovare una motivazione differente.

-Capisco… Ti ringrazio per avermi avvisata Jennifer. Ti assicuro che non smetterò mai di perdere le speranze, soprattutto finché saprò di avere almeno una persona al mio fianco. Sei ancora con me, non è vero?

La sua voce è insicura, tremante. Ha bisogno di essere rassicurata e, almeno questo, sono in grado di farlo.

-Ma certo Margareth! Io sarò sempre dalla tua parte e farò di tutto,  per il bene di Tyler.

Sento Margareth vacillare dall’altro capo del telefono. Lo avverto dalla sua voce, dal suo respiro affannoso.

-Ora stacco. Ti farò sapere quanto prima eventuali novità.

Decido di chiudere la telefonata. La mia emotività eccessiva a volte è un ostacolo grande, quasi invalicabile, nello svolgere il mio mestiere.

-Grazie, a presto.

Appoggio velocemente il telefono sulla base e sospiro, prendendomi poi il capo fra le mani. Ci sono giorni in cui mi chiedo cosa mi abbia spinto a scegliere una professione che coinvolga in modo così massiccio i sentimenti.

Piove, piove ancora, piove sempre.

 

-- Ciao a tutti e grazie per aver letto questo mio primo capitolo. La storia che state leggendo è un vero e proprio esperimento per me. È tutt'ora in completamento e la sto alternando a quell'altra che già pubblico da diversi anni (e che mi devo decidere a finire, prima o poi) qui su EFP. Questa è la mia PRIMA (e fin'ora unica) storia a tematica NON omosessuale. Si tratta di una sfida, per una volta ho voluto cimentarmi in qualcosa di "diverso". Vedremo cosa ne verrà fuori. Nel frattempo... mi auguro di avere abbastanza compagni di lettura, nonché critici spassionati. A presto ----

  
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