Anime & Manga > Tokyo Mew Mew
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Autore: Bea_chan    17/03/2008    9 recensioni
La guerra. Quella vera, non un gioco... Quella dove si combatte e si muore come foglie nel vento, quella dove non si può più tornare indietro... In una Tokyo ormai invasa e devastata dagli alieni, un gruppo di Ribelli capeggiati dal traditore per eccellenza cerca di contrastare la tirannia di Deep Blue e il suo esercito, aiutando le Mew Mew. Lotte, segreti e tradimenti s'intrecciano nella base aliena, dai Sotterranei ai Piani Alti. Ma solo il temibile Progetto C.DNA potrà decidere l'esito della Guerra. Senza scampo.
Genere: Avventura, Azione, Dark, Drammatico, Guerra, Malinconico, Romantico, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Grazie mille a Danya91, Sakurabell, Kuroneko e Kumiko *-*
Chu a tutte voi * !
Vi lascio con il nuovo capitolo, spero vi piaccia ^.^
Bacioni care.

***

Non è consono per un Generale che si rispetti usare un abbigliamento trasandato. La casacca di velluto blu dev’essere sempre impeccabile, gli stivali lucidi, il collo alto allacciato fino all’ultimo bottone.
E, ovviamente, le coccarde dritte sul petto, segno d’onore e fedeltà alla divisa e al grado di colui che la indossa.
Già, certo…
Come se guardarsi allo specchio servisse a migliorare la situazione.
Iwo Nohara aveva sempre considerato la cura della proprio uniforme come qualcosa di fondamentale: precisione quasi maniacale, i bottoni dorati del doppiopetto brillanti sulla stoffa blu scuro, il cuoio degli stivali lustrato a dovere.
Ma adesso…
Dov’era la precisione, dov’era anche solo la voglia di esserlo, dopo aver subito una seduta di tortura?
Piccoli, meschini particolari che divengono insignificanti.
Com’è fragile la mente, se pensa che attaccarsi a certe manie possa davvero essere di primaria importanza.
Tuttavia, Iwo sentiva che se non si fosse aggrappato strenuamente a questo, almeno a qualcosa, si sarebbe sgretolato su se stesso, inesorabilmente.
La mano destra, le bende sporche di rosso e mezze sfatte, pulì con un tremito la superficie dello specchio, spaccata al centro, in cui l’alieno stava esercitando le sue vecchie abitudini.
Mettersi in ordine.
Razionalizzare, schematizzare, tentare di dare un dannato senso a quello che gli stava capitando.
Dopo avergli malamente ordinato di andarsene, sperando che avesse imparato la lezione, Iwo non bramava altro che rifugiarsi nel posto più lontano possibile da Deep Blue.
Nell’Ala destinata ai Dormitori, la sua camera gli era sembrata il luogo ideale. Dove disperarsi, in silenzio, senza contegno.
Almeno chiuso tra quelle quattro mura.
La superficie infranta di quello specchio che lui stesso aveva rotto gli riflettè la sua immagine, fatta a pezzi, un inquietante puzzle senza espressione.
Oramai, l’alieno si sentiva solo il frammento di quello che era stato un tempo.
Sospiro appena trattenuto, dolore su quella schiena martoriata per la punizione inflitta.
Ma fino a che punto meritata?
Occhi grigi, screziati e dalla pupilla felina, persi su quell’argentea superficie, come un lago increspato, guardando senza riuscire a vedere.
Non era sicuro di volersi soffermare sul labbro spaccato, sugli zigomi tumefatti e sull’occhio pesto. Non voleva la conferma di essere ormai lo spettro di se stesso.
Si riavviò dagli occhi il lungo ciuffo della chioma color zaffiro, sciolta lungo tutta la schiena, arruffata e in disordine.
Tutto il corpo dell’alieno era scosso da un tremito, incessante ma leggero.
Così, le mani tremavano mentre tentavano di rifare la lunga coda bassa, il nastro di raso nero sfuggiva tra le dita, agili ma adesso impacciate nei ciuffi blu.
Tremavano, mentre indossava la camicia lacera, coprendo le piaghe da frusta sulla schiena muscolosa, flessuosa come quella di un felino, con la bianca stoffa strappata.
Emise un ringhio di dolore, soffocato, quasi non avesse nemmeno più la forza di lamentarsi.
”Non ho tempo per passare in Infermeria.” Mugugnò appena, tra sé e sé, mentre allacciava malamente i bottoni.
Già, disse un’irritante ma veritiera vocina nella sua testa, che cosa racconteresti, d’altronde?
I Generali obbediscono.
I Generali si ribellano, continuò quella vocetta.
Iwo strinse gli occhi, ignorando il dolore e afferrando bruscamente la casacca, gettata senza alcun ritegno sulla brandina.
La infilò, furioso, le mani ancora tremanti non riuscirono ad allacciare il collo fino all’ultimo bottone. L’ennesimo errore…
L’urlo frustrato dell’alieno rimbombò tra le mura di quella camera, rimbalzando nei corridoi deserti del Dormitorio.
Si lasciò cadere sulle ginocchia, freddo il pavimento sotto di lui, i palmi aperti sulle mattonelle e il capo chino. Lunghi ciuffi della coda color zaffiro, sfuggiti al nastro legato a malapena, scivolarono dalle spalle di Iwo, ancora in preda a quell’incessante tremore.
Inutile tentare di alzarsi.
Dov’era finita la sua motivazione?
Eppure, Deep Blue gliel’aveva chiesta ripetutamente, durante la tortura. Non una parola era uscita dalla bocca dell’alieno, canini appuntiti a lacerare la rossa carne del labbro inferiore.
Il silenzio dei disperati è profondo come un buco nero e altrettanto insidioso.
Mai.
Mai avrebbe ammesso di aver commesso un errore.
Mai avrebbe ammesso di voler ritornare sui suoi passi…
Una vita per una vita: lui aveva scelto quella da Generale. Senza fiducia, senza amore, senza lei.
Sguardo ancora chino, iridi grigio ferro fisse sulle piastrelle scheggiate.
”Cosa diavolo mi sta succedendo…” sibilò, a metà tra l’incredulo e l’esasperato, guardandosi le mani tremanti, unghie lunghe a grattare la superficie gelata.
Iwo non aveva ancora capito che il passato era arrivato a chiedere il conto.


***


Deep Blue camminava soddisfatto, a passo sostenuto, lungo il largo corridoio che portava dritto dritto alla porta della Sala Progettazioni. Le suole dei lucidi stivali neri battevano ritmicamente a terra, la lunga chioma corvina ondeggiava sulla schiena ad ogni passo.
Tortura, fisica e psicologica, per riportare sotto i fili quell’inutile burattino di Nohara e successivo colloquio con Shirogane per dare finalmente inizio al Progetto C.DNA.
Sospirò, appagato.
Una giornata di normale amministrazione
Le due guardie, in piedi ai due lati del portone di acciaio a doppio battente, scattarono sull’attenti alla vista del Sommo che trotterellava allegramente verso di loro. Il calcio del fucile ad impulsi stretto nella mano sinistra, lungo il fianco, mano destra nel miglior saluto militare possibile.
”Buongiorno, Signore.” Declamarono, decisi, senza guardarlo negli occhi.
Mai fissare quelle iridi di ghiaccio, la prima forma di rispetto verso un tiranno.
Testa china e sguardo basso.
L’alieno sorrise indulgente, agitando una pallida ed affusolata mano, minimizzando il tutto.
”Comodi, comodi…” ridacchiò appena, un luccichio in quello sguardo azzurro, mentre schioccava le dita e il portone si apriva, senza neanche un cigolio.
Deep Blue entrò, senza esitazioni, mentre la porta si richiudeva alle sue spalle.
Le sentinelle fuori dalla Sala Progettazioni rabbrividirono appena.
”Tu lo sai cos’ha fatto al Generale Nohara?” sibilò l’alieno di destra, scrutando il compare con la coda dell’occhio, temendo che li potesse anche solo sentire.
L’altro si rabbuiò appena, stringendo il fucile e socchiudendo gli occhi, scrutando nel lungo corridoio illuminato da flebili lampade al neon, lungo tutto il soffitto.
”Non si parlava d’altro, l’ultima volta che ho cambiato turno… Inoltre…” si voltò appena, ma nessun cenno dalla Sala dietro di loro “Pare che abbia fatto esplodere la Sala Controlli, ma non so per quale motivo.”
Il soldato che aveva posto la domanda rabbrividì al discorso dell’altro, tornando a guardare davanti a sé. Il silenzio del Primo Livello dei Sotterranei era pesante, considerato anche il fatto che la Sala Progettazione era insonorizzata.
”Sai cosa penso?”
L’ultimo alieno che aveva parlato catturò l’attenzione del primo, che si voltò verso di lui, curioso.
”Penso che siano in arrivo guai ancora più grossi di quelli che già sono accaduti…” mormorò, assorto “I Ribelli non se ne staranno tranquilli per molto.” Breve pausa, mentre lo sguardo spaziava in tutto il corridoio, senza finestre “Questa è solo la calma prima della tempesta.”
La sentenza cadde lapidaria, pesante come un macigno nel silenzio del corridoio.
”Inoltre, sono sicuro che Shirogane sta macchinando qualcosa…” continuò quello, velenoso “Non mi fido degli umani, meno che mai di quell’americano con le manie del DNA.”
Il compagno ridacchiò appena, scettico.
”Ah, andiamo… Come se potesse riuscire a fare i suoi giochetti genetici sorvegliato dalla nostra equipe di scienziati.”
L’altro non rispose…
Quel silenzio significava guai.
Bisognava solo aspettare che arrivassero a bussare alla porta di quella Sala.


***


Minto Aizawa era sempre stata una signorina di rispettabile famiglia.
Una vita agiata, un’esistenza dedicata alla danza e allo studio delle buone maniere, il bon ton di cui far sfoggio in società e alle feste ipocrite, ove le figlie di ricchi magnati non facevano altro che criticarsi a vicenda il vestito, sibilando dietro le mani guantate.
Risate che erano come bollicine in un calice di vino, ugualmente fastidiose ma inebrianti.
Aveva sempre pensato che la sua vita si sarebbe fermata lì, in quell’ambiete ristretto luccicante di stoffe ricamate e lezioni di pianoforte.
E invece…
Da quando Ichigo Momiya era prepotentemente entrata nella sua vita, tutto aveva subito una brusca svolta: all’improvviso, si era trovata con un paio di ali tatuate sulla schiena, un potere alquanto bizzarro e una tutina blu elettrico piuttosto succinta, impegnata a combattere strani mostri dai tratti animaleschi e alieni che sembravano tanto degli esseri umani.
Assieme a quella rossina tutto pepe, rozza e volgare secondo il suo modesto parere, aveva conosciuto altre ragazze. Avevano formato un gruppo, erano diventate amiche.
Era una bella sensazione, dopo tutto, per lei che non aveva mai avuto attorno persone che le volessero davvero bene per qualcosa che non fosse il suo patrimonio, la sua posizione sociale, la sua bravura nella danza.
Il mondo ipocrita in cui era cresciuta stava lentamente sparendo, la velenosa bambagia in cui lei stessa si era voluta avvolgere aveva cominciato a soffocarla.
E poi, erano cresciute.
Gli anni dell’adolescenza erano passati, battaglia dopo battaglia, mostro dopo mostro, senza apparente risultato.
Le lotte tutto sommato gestibili che le avevano impegnate in passato erano diventate un conflitto su larga scala, erano arrivati i rinforzi alieni, le armi cambiavano, le battaglie erano sempre più spietate. Era la Guerra.
I Terrestri erano stati costretti a fuggire, a creare barricate, ribellioni intestine e focolai che ancora resistevano nelle Fogne della città di Tokyo, dilaniata dal conflitto tra le forze Aliene e le Mew Mew, affiancate da un manipolo di arruolati volontari per quella Guerra che aveva colto tutti impreparati.
Nessuno poteva prevedere un simile disastro…
L’obiettivo degli Alieni era uno solo, d’altronde: riconquistare il loro Pianeta Azzurro ed epurarlo dalla feccia umana che lo contaminava da secoli e secoli. E sembravano non avere alcuna fretta di farlo.
Si erano impegnate, le Mew Mew, con tenacia e sacrificio.
Avevano sopportato morti e perdite, sconfitte e vittorie, senza mai giungere ad un’effettiva conclusione. Ne avevano passate tante, in quegli anni, erano diventate giovani donne senza neanche rendersene conto.
E adesso…
Chissà, forse l’invertire gli equilibri e allearsi con gli alieni Ribelli poteva davvero servire a qualcosa, ad uscire da quella soffocante situazione di stallo in cui si erano miseramente arenati…
”Minto, ti decidi a riportare la tua vuota testolina su questo pianeta?”
Rozza e volgare, appunto.
Come rozza e volgare era stata l’idea di costringerla a strisciare su per quel tubo polveroso.
Diamine, lei era una signorina di buona famiglia o no?
…Già, era.
La Guerra cambia molte cose, molte priorità.
Minto scrutò d’innanzi a sé, nel buio dello stretto condotto in cui stavano strisciando da almeno mezz’ora accovacciati, rivolgendo un’occhiata di fuoco alla fonte da cui avrebbe dovuto provenire la delicata vocina della Mew Neko.
”La mia testa sarà anche vuota, ma la tua è bacata.” La seccò, lapidaria, alzando il nasetto per aria con fare strafottente e scatenando un ringhio che poco aveva del gatto da parte di Ichigo.
”Come ti permetti, pennuto senza cerv…”
”Silenzio.”
Il sibilo velenoso ed esasperato di Pai giunse da parecchi metri più avanti, nell’oscurità appena rarefatta dalle saltuarie prese d’aria a grate presenti sul lato sinistro di chi ci arrancava dentro.
A vederli così, erano decisamente un quadretto bizzarro: una fila di dieci tra alieni e umane-mezze-animali impegnati a strisciare sul ventre in fila indiana, gomito dopo gomito, ginocchio dopo ginocchio, incastrati in uno stretto e sinuoso condotto d’aerazione, guidati da un tracagnotto alieno, che avevano praticamente dovuto ficcare a forza nel tubo, che reggeva in bocca una torcia e guardava, di tanto in tanto, quella scolorita e vetusta cartina che avevano consultato durante il loro Consiglio dei Ribelli.
Le reazioni erano, ovviamente, le più disparate.
La testa di Deep Blue, la testa di Deep Blue…
La nenia che Kisshu ripeteva ossessivamente tra sé e sé, come un mantra, serviva a tamponare il crescente isterismo che rischiava di fargli perdere il controllo e zompare fuori da quello stramaledetto tubo e irrompere nella Sala Progettazioni a suon di fulmini. Inoltre, sapeva che quel debosciato di Shin Fukazaki, che strisciava proprio davanti a lui, aveva lo sguardo piantato sul grazioso didietro della sorellastra, due posti avanti a lui, impegnata ad imprecare in modo assai fine verso la delicatezza che Pai aveva nell’avanzare.
”Diamine Ikisatashi, mi hai ridotto le mani ad un colabrodo! La vuoi smettere di piantarmi le suole degli stivali sulle nocche?” borbottò furiosa Meiko, rivolta proprio a Pai.
Questo, alzando gli occhi al cielo, o meglio al soffitto del condotto, contò mentalmente fino a trecentosette prima di dire qualsiasi cosa. O di fare qualsiasi cosa, opzione verso cui era vivamente più orientato.
Shin ridacchiò appena, scotendo il capo rassegnato.
”Meiko, non ti conviene urlare…” fece un cenno alla grata posta a qualche metro di distanza “Potrebbero scoprirci.” Mormorò, cauto.
”Io invece ti ho già scoperto, Fukazaki.” Fu il caustico rimprovero di Kisshu, alle spalle di Shin, che si pietrificò “Quindi, togli subito gli occhi da …”
dove?”
”Lo sai benissimo, non costringermi a cavarteli.”
”Kisshu, smettila!” la voce di Ichigo giunse dalle retrovie, indignata.
Meiko sogghignò, infischiandosene delle nuove manie protettive del fratellastro e immaginando il rossore sulle gote del pudico Fukazaki.
Quest’ultimo, in realtà, stava guardando tutt’altro. Anzi, a voler essere veramente precisi, stava ricordando che quel condotto d’aerazione era decisamente familiare.
Occhi blu nel buio, un accordo e una strana alleanza.
Ryo Shirogane.
Doveva la vita a quell’umano, purtroppo, gli doleva ammetterlo. Non amava avere debiti con nessuno, men che meno con uno come quello…
Certo, che l’occhio a volte cadesse era più che comprensibile, che diavolo!
”Ahia! Ma porca…”
C’era qualcun altro che imprecava dalle parti della retroguardia, qualcuno che per la precisione continuava a sbattere la testa contro il soffitto del tubo.
Purin sospirò.
”Taruto-kun, proprio non capisco cosa ci trovi di così divertente nel prendere a craniate il soffitto.” Sembrava seria, come se fosse davvero un passatempo.
Inutile dire che il minore degli Ikisatashi non si prese neanche la briga di risponderle.
Anche perché la risposta sarebbe stata molto vicina ad un insulto.
Zakuro era l’unica, in quella marmaglia, che se ne stava tranquilla e silenziosa, la vista sviluppata da lupo grigio vedeva alla perfezione nel buio, mentre strisciava con grazia dietro Minto.
E l’ultima di quella bizzarra processione era la povera Retasu, sempre piuttosto negata per la fatica fisica, soprattutto di lunga durata.
Prima la corsa, poi la fogna ed ora questo: strisciare in uno stretto tubo.
Un toccasana per chi soffre di claustrofobia e lei non è che andasse a nozze con i posti particolarmente angusti.
Ansimava e sbuffava, tenendo dietro alla comitiva, seguendo la balzellante luce della torcia tenuta un bocca da Mirai Buki, capofila, piuttosto lontana.
Si fermò un attimo, asciugandosi il sudore che le imperlava la fronte e riprendendo fiato.
No, decisamente non era la sua attività preferita.
Poggiò le mani sotto di sì, per issarsi di nuovo quel poco che bastava per avanzare ancora e raggiungere gli altri, quando accadde la catastrofe.
Sfortuna volle che proprio in quel punto ci fosse, guarda caso, una delle botole attraverso cui si accedeva al condotto di aerazione. E sfortuna volle anche che la saldatura di quella lamina di ferro fosse parecchio arrugginita e instabile, inadatta a tenere il peso, seppur leggero, della ragazza, che, senza neanche accorgersene, sparì in un urletto sorpreso dal tubo e capitombolò dritta di fondoschiena sul pavimento di una stanza non ben identificata, in un baccano assordante.
Che tuttavia nessuno udì, proseguendo la loro marcia.
Retasu si guardò attorno, spaesata, tossendo per la polvere che aveva sollevato, mezza sepolta da una quantità non ben precisata di quegli strani fucili ad impulsi che usavano gli alieni.
Scaffali interi traboccanti di armi mai viste, divise, caschetti, stivali.
Sbiancò, sbarrando gli occhi, ancora seduta malamente sulla pila di fucili, nella semi oscurità della camera.
Era piombata dritta dritta nell’Armeria.


…to be continued…

  
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