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Autore: Ivola    14/09/2013    4 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
Capitoli:
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Note: Volevo aspettare lunedì per postare, ma poi mi sono detta che era inutile visto che a) lunedì comincio la scuola; e b) il capitolo era già pronto.
Mi dispiace soltanto che lo scorso capitolo non abbia avuto molto successo, per cui ringrazio la mia adorata Soph per aver recensito. Dedico a te questo capitolo 

In realtà non so bene cosa dire... solo, uhm, che questa è una delle parti più "clou" di Blur, ecco. E, anche, una delle parti per cui provo più odio/amore, anche se sono abbastanza contenta di come è uscita.
Sarei felicissima se mi lasciaste qualche parere, as usual :)
Ah, sappiate che la marmellata di lamponi l'ho assaggiata e fa schifo, lolle.
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo è ispirato a "Clocks" dei Coldplay.

Il banner appartiene a pandamito ♥









 

A Sofia, mia coinquilina per tre mesi.








 


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Blur

(Tied to a Railroad)






009. Ninth Chapter – Cure or disease?

 


« Riesci ad alzarti? »
« Devo riuscirci, sono incollato a questo divano da due giorni. »
« Forse sarebbe meglio aspettare domani… »
« Domani un corno » protestò, scocciato. « Aiutami, invece di stare lì a guardarmi. »
« “Per favore”, magari? » domandò retoricamente l’altro.
« Certo » biascicò Klaus, provando a girarsi su un fianco. « Mi hai mai sentito dire quelle due paroline magiche? »
Ben rise, vagamente divertito dalla situazione. « Direi di no » rispose, avvicinandoglisi e aiutandolo a mettersi a sedere.
Il moro si lasciò sfuggire delle smorfie di dolore, ma non aggiunse altro, aggrappandosi alle spalle del Bridge con un braccio per alzarsi.

« Domani devi cambiarle di nuovo, le bende » precisò Ben, sorreggendolo per quanto gli era possibile – dopotutto Klaus era pur sempre una quindicina di centimetri più alto di lui. 
« Magnifico » bofonchiò, lasciando le spalle del ragazzo per appoggiarsi allo stipite della porta del salotto.
« Come va ora? »
Klaus lo fissò per qualche istante ed evitò di rispondere. Detestava essere visto così debole e inerme. « Perché mi stai aiutando? » gli chiese con un tono abbastanza ambiguo – da un lato gli faceva piacere ricevere aiuto, ma dall’altro lo metteva profondamente a disagio, senza contare il fatto che ciò ferisse il suo orgoglio come l’artigliata di un gatto.
Ben sorrise gentilmente in risposta. 
« Ti rigiro la domanda: perché non dovrei? »
Il ragazzo continuò a guardarlo interdetto. « Uhm… vediamo… forse perché ci siamo sempre odiati sin dall’inizio dei tempi? »
« Oh, no, Klaus » lo contraddisse l’albino, scuotendo la testa. « Quelli siete tu e London, sempre se di odio si possa parlare » – e qui Klaus gli scoccò uno sguardo incapacitato – « Sì, ammetto che delle volte mi piacerebbe tanto fracassarti una sedia in testa, ma non ti detesto a tal punto da negarti il mio aiuto. »
L’altro arricciò le labbra. « Sai bene, vero, che io non ti avrei aiutato in una situazione del genere? »
Il sorriso di Ben sfumò verso l’amarezza, ma non si spense. « Lo so. Ma tu sei tu. »
« E tu sei tu » ribatté Klaus, sospirando. « Il piccolo, dolce, santo Benjamin. »
Il ragazzo fece un veloce gesto con la mano. « Lascia perdere, è inutile starti a spiegare certe cose. »
« Davvero non capisco come tu possa essere così… beh, così » disse lui, riservandogli un’occhiata penetrante e indagatoria. « Tu e London siete gemelli, eppure… »
« Eppure siamo diversi » concluse Ben al posto suo, reggendo il confronto, per niente intimidito da quello sguardo eloquente. « Ce lo dicono tutti. »
« E comunque non vi sopporto lo stesso » specificò. 
« Buono a sapersi » disse l’albino con una scrollata di spalle. 
Klaus alzò gli occhi al cielo, ignorando una fitta bruciante nella zona lombare. 
« Credo che qualche volta ti farebbe bene arrabbiarti. Sai, sono il marito della tua adorata tromba-sorella, dovresti odiarmi sul serio. »
Ben corrugò la fronte. « Pensavo di avertelo spiegato che non sono quel tipo di persona. »
« Esprimevo soltanto i miei dubbi. »
« A me fa piacere che London sia in tua compagnia, Klaus » disse l’altro, che quasi sembrava riuscire a trattenere il risentimento nella sua voce pacata. « … so che tu hai bisogno di lei. »
Klaus sbatté la mano contro lo stipite di fronte a sé, bloccandogli il passaggio. « Che cosa? » sibilò.
« Quanto sei sciocco » ridacchiò mestamente l’albino, infilandosi sotto al braccio teso di Klaus per passare. « Non ti accorgi proprio di nulla. »
Stavolta fu il moro a corrugare la fronte, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Come doveva interpretare quell’affermazione campata in aria? « Ben » soffiò di nuovo, a poche spanne dal suo viso. « Smettila. »
Ben incurvò gli angoli delle labbra verso l’alto, ma quella somigliava più ad una smorfia che a un sorriso gentile come quello di qualche istante prima. « Non ricordi che posso sempre ricattarti? » scherzò, ma l’altro non lo intese come uno scherzo; piuttosto, impallidì a vista d’occhio.
« Ancora con questa storia? » chiese, frustrato. « Dimentica quella notte. Dimenticala. E’ stato un fottuto caso. Un errore, come lo vuoi chiamare? »
Ben capì di averlo punto nel vivo e lasciò perdere, facendo un passo indietro. Effettivamente si era reso conto che la distanza che li separava fosse veramente troppo breve – questione di centimetri – e non capiva come Klaus dovesse per forza alterarsi, parlando con lui, ma finse di non esserne neanche vagamente dispiaciuto. « Un errore, già » rincarò. « Stavo scherzando. »
Klaus lo osservò per qualche istante, notando che la sua voce si era fatta più sottile e la sua testa si era leggermente abbassata. Forse non doveva trattarlo così bruscamente. Lui non era London. Con Ben si poteva parlare.
 
« D’accordo » concesse, passandosi una mano sul volto. « Adesso va’ a casa, me la cavo da solo. »
Ben alzò nuovamente la testa, recuperando la sua espressione disponibile. « Ne sei sicuro? »
« Sicurissimo » ribatté l’altro, muovendo qualche passo incerto. « Non ho bisogno di altre balie. »
L’albino non sorrise, stavolta, ma il suo viso era comunque sereno. « Certo, mister autosufficienza. »
 
 
*


Non stavano pranzando, né avevano toccato cibo da quando London aveva portato i piatti in tavola.
« Cosa sarebbe? » aveva chiesto Klaus, squadrando quella brodaglia con un’espressione più che eloquente.
London aveva fatto spallucce e aveva risposto, sedendosi di fronte a lui: 
« Zuppa di verdure. »
La ragazza non era mai stata una cuoca provetta, a dire il vero – e come poteva esserlo, quando il suo passatempo preferito sin da bambina era fare a botte con i maschi? – ma quel giorno se ne stavano in silenzio per ben altri motivi. Entrambi avevano riflettuto molto sulla questione dell’erede, ma non avevano ancora parlato con l’altro delle proprie conclusioni.
London avrebbe voluto infischiarsene perché, sì, quello non era un problema suo. Però, indirettamente, tutto ciò che riguardava Klaus riguardava anche lei, specialmente adesso che era sua moglie e non più una stupida promessa. 
Era come se si trovasse con delle manette ai polsi ma avesse a pochi centimetri la chiave per liberarsi… Doveva prendere, forse, la decisione più importante della sua vita.
Perché ci sto ancora pensando?, si chiese turbata, osservando il marito con la coda dell’occhio. Devo lasciarlo perdere, non mi interessa.
Eppure, dopo averne anche discusso con suo fratello, la soluzione le sembrava sempre più vicina e, contemporaneamente, intollerabile. London non sapeva se avesse mai desiderato dei figli – questo in generale; con Klaus no di sicuro. Non si sentiva adatta a fare la madre, né moriva dalla voglia di partorire un essere vivente dal proprio grembo… però forse, in fondo, le avrebbe fatto piacere prendersi cura di un bambino, anche se non l’avrebbe mai ammesso.
Ad ogni modo, il cavillo che più la metteva in crisi non era il parto. Prima di quello, prima della gravidanza, veniva altro.
Le ritornarono in mente le parole di Frantz. “Vivere la vostra vita matrimoniale come avreste dovuto.”
Istintivamente iniziarono a pruderle le mani: in primo luogo perché il suo beneamato suocero non poteva assolutamente permettersi di darle ordini del genere, in secondo perché non avrebbe mai sopportato di vedere la faccia compiaciuta, irrisoria e presuntuosa di Klaus dopo un’altra notte insieme. 
Lo osservò mentre giocherellava con un lembo del tovagliolo di stoffa, sovrappensiero esattamente come lei. E se non fosse bastata solo un’altra notte? Se ci fossero voluti più tentativi per dare alla luce quell’erede che entrambi neanche volevano? 
London si figurò la scena, dando vita a due reazioni opposte. La mente, la ragione, le fece rigettare il pensiero, convincendola che fosse una pessima idea lanciarsi di nuovo e, per di più, volontariamente nelle braccia del nemico. L’istinto, invece – perché era dell’istinto che doveva trattarsi – le sussurrò che forse non le sarebbe dispiaciuto così tanto come voleva far credere. 
Una strana sensazione sottopelle, qualcosa di molto simile ad un formicolio fastidioso, le percorse le braccia.

« Klaus » lo chiamò a bassa voce, attirando la sua attenzione. 
Il ragazzo alzò gli occhi dal piatto, riversandoli in quelli grigioverdi di lei, che sembravano avere un’aria decisamente seria. 
« Che c’è? » le domandò. « Hai deciso di cedermi la tua zuppa perché fa troppo schifo? »
Alzò gli occhi al cielo e sbuffò irritata. « No. Stavo pensando ad una cosa. »
« Oh » esclamò Klaus, fingendosi ammirato. « Non sapevo avessi la capacità di pensare. » London sbatté violentemente le mani sulla tavola, facendolo sobbalzare. Solo allora il marito si decise ad ascoltare. « Avanti, parla » la esortò, scartando il piatto di lato e incrociando le braccia per invitarla a cominciare chissà quale discorso.
Lei socchiuse gli occhi come per darsi forza e inspirò piano. 
« Credo che dovremmo provarci. » L’aveva detto di slancio, come un fulmine a ciel sereno, quasi senza riflettere sulle conseguenze – o sì? 
Vedendo che Klaus, però, continuava a fissarla con la fronte aggrottata e non intuendo se il ragazzo non avesse capito o fingesse di non capire, aggiunse velocemente: 
« A fare un figlio. »
La reazione dell’altro non fu istantanea. Sembrò assorbire le parole lentamente, facendo scorrere secondi densi di silenzio e tensione. Poi scoppiò in una risata fredda e pungente, quasi umiliante.
London spalancò gli occhi, sconcertata. Che c’era di divertente in tutto quel casino?

« Non esiste neanche » decretò allora Klaus, avvicinando di più il volto a lei, quasi come se quello fosse stato un felice pranzetto e lui stesse per dirle qualcosa di estremamente romantico. La sua voce era calda e sprezzante come al solito, ma non c’era nulla di felice in quelle parole. « Io non voglio un figlio da una puttana. »
London lo schiaffeggiò con tutta la forza che aveva, approfittando della vicinanza e reprimendo un ringhio di rabbia, dopodiché si alzò in piedi di scatto. « Stavo solo cercando di aiutarti » gridò, più offesa di quanto volesse apparire. L’aveva insultata molte, interminabili volte… ma adesso era come se l’avesse ferita doppiamente.
Stava rifiutando il suo aiuto, la stava rifiutando come donna. E forse era il secondo punto a bruciarle di più. 
Klaus si alzò a ruota, tastandosi lievemente la guancia colpita. Per un attimo London sperò di avergli fatto veramente male, ma forse ci voleva ben altro per farlo soffrire. Quasi si sentì di comprendere Frantz per averlo preso a frustate qualche giorno prima.
L’espressione del ragazzo mutò dopo qualche secondo, diventando quasi esasperata. 
« Senti, io lo so che neanche tu vuoi un figlio con me » disse, serio. « Perché vuoi complicarti la vita solo per farmi un favore? »
« Io non sto facendo un favore a te » ribatté London, ancora furiosa. Se non ci fosse stato quel tavolo a separarli lo avrebbe già preso a calci negli stinchi. « Sto facendo un favore a noi»
« Noi? » ripeté Klaus, esterrefatto. « Non è mai esistito un “noi”, London, mi stupisco che tu non ci sia ancora arrivata. »
« Guarda che lo so benissimo! Sto solo dicendo che per una volta dovremmo collaborare per il bene di entrambi. Io non voglio il tuo bene, chiariamo, ma il mio sì. E purtroppo in questo momento sono strettamente collegati. »
London tentò di calmarsi, ma le mani le tremavano dalla frustrazione e non riusciva a farle smettere. 
Klaus assottigliò lo sguardo, quasi specchiandosi in quello accecato dalla collera della moglie. Lei detestava fissarlo così a lungo negli occhi, ma non poteva mostrarsi intimidita.

« Tu non capisci » continuò il ventunenne. « Un figlio non migliorerà le cose. »
« Ma è un inizio » protestò London. « Io non volevo nemmeno sposarti, cazzo; adesso almeno lascia che la mia – e la nostra – vita sia normale. »
« E credi che avere un moccioso urlante per casa renderà la nostra vita normale? » sibilò con enfasi. « Non lo è mai stata, mettitelo bene in testa. »
London avrebbe voluto ribattere ancora con acidità, ma aveva finito le repliche a tono, perché su quel punto Klaus non aveva tutti i torti. « Quindi preferisci essere fustigato o magari anche ucciso da tuo padre? » chiese piano. Le risultava difficile crederci.
« Certo che no » rispose lui. « Ma troverò un modo perché mi lasci in pace. E tu non rientri nei miei programmi. »
La ragazza si sentì ferita nuovamente nell’orgoglio e gonfiò le guance come una bambina. « Oh, va’ al diavolo. »
« Solo se mi accompagni. »
London sospirò stizzita e uscì dalla sala da pranzo lasciando Klaus con le proprie convinzioni.


La sera calò abbastanza velocemente, colorando il Distretto Sei di ombre scure e lugubri. Quell’area di Panem non era mai stata particolarmente vivace o felice neanche di giorno, ma di notte appariva tutto più cupo e, da un lato, affascinante.
London era rimasta quasi tutto il pomeriggio a oziare nella sua stanza, dopo esservisi chiusa dentro a chiave perché non aveva voglia di vedere il volto di Klaus in giro.
Quando un brontolio dello stomaco, però, la riscosse dai suoi pensieri, fu costretta a scendere al piano di sotto. Raggiunse la cucina velocemente e recuperò delle fette di pane ai cereali dalla dispensa, insieme a un barattolo di marmellata fatta in casa – manna del cielo gentilmente inviata da sua madre. London e Ben avevano sempre avuto un debole per i dolci e la ragazza in particolare non sapeva resistere davanti a marmellata, cioccolato o qualsiasi altro tipo di squisitezza.
Prese un coltello da un cassetto e, dopo aver disposto ordinatamente due fette di pane sul tavolo, aprì il barattolo e cominciò a spalmare la confettura.
Immaginò che quelle fette di pane fossero la faccia di Klaus e a quel pensiero premette con più forza la lama sulla mollica, con le sopracciglia aggrottate. Tuttavia, si accorse appena che suo marito in persona era entrato nella stanza, che se lo ritrovò alle spalle, preso ad osservare la sua opera con un cipiglio fintamente ammirato.
London si voltò di scatto verso di lui, puntandogli il coltello sporco di marmellata in direzione del viso. 
« Che vuoi? » gli domandò bruscamente.
« Osservavo rapito la tua cena » rispose Klaus alzando le mani come in segno di resa. « E’ sicuramente meglio di quello schifo di zuppa. »
« E’ la mia cena » precisò lei. « La tua preparatela da solo. »
« Neanche un assaggio? »
« No! » esclamò, prima che Klaus intingesse un dito nella marmellata e se lo portasse alla bocca, con un’espressione soddisfatta e malandrina. London gli ringhiò contro quando lui affermò compiaciuto: « Mmh… lamponi. »
Avrebbe tanto voluto che quella marmellata fosse avvelenata, però poi le venne un’idea. Combattendo con l’impulso di conficcargli per davvero la punta nella carne, spalmò il residuo di marmellata che era rimasto sul coltello sulla sua guancia. Si sentiva una ragazzina dispettosa, ma forse lo era sempre stata, quindi mise a tacere quel pensiero con un’espressione soddisfatta.
Klaus, tuttavia, non sembrò arrabbiarsi e ridacchiò sommessamente. 
« Sei contenta adesso? »
London avrebbe voluto rispondere che, sì, era contenta, ma forse non abbastanza. Così gli spalmò un altro strato sulla punta del naso e sulle labbra, scoppiando a ridere di fronte alla faccia del ragazzo sporca di confettura. 
« Smettila » protestò blandamente lui, continuando a sghignazzare. Recuperò con l’indice un po’ di marmellata dalla propria guancia e la stese sulla sua con il polpastrello, proprio sullo zigomo sinistro, dove i capelli le incorniciavano delicatamente il viso.
London non provò nemmeno a reprimere il brivido che le attraversò la schiena con forza, perché arrivò totalmente estraneo e inaspettato. Che cosa stava a significare?
Smise presto di ridere, prendendo a fissare il volto di Klaus che, per qualche strano motivo, adesso si trovava a pochi centimetri dal proprio. I loro respiri quasi si contaminavano a vicenda, tanta era ridotta – e insopportabile – la distanza che li separava.
Klaus la stava guardando insistentemente negli occhi, tentando di cogliere ogni lampo che le attraversava le iridi, cercando di capire se quello strano luccichio che le pervadeva fosse disappunto, scherno, determinazione o… altro. Di certo non sembrava contrariata, visto che anche lei stava osservando senza discrezione le macchie di marmellata sulla sua guancia e sulle sue labbra.
Forse era facile riuscire ad intuire cosa sarebbe successo di lì a poco, perché in fondo entrambi erano persone impulsive che non riuscivano a controllare i propri sentimenti. 
Litigavano, si prendevano a parole, si menavano quasi ogni giorno e per cosa? Per poi ritrovarsi l’uno di fronte all’altra ad ammettere silenziosamente i propri errori, accantonarli in un angolo e non pensare alle proprie azioni.
London avvicinò le labbra alla guancia di lui, raccogliendo la marmellata che rimaneva con la punta della lingua. Aveva un gusto strano. Lamponi misti al sapore di Klaus. Tracciò un percorso con le labbra lentamente, sino ad arrivare alla sua bocca.
Il ragazzo sorrise lievemente, ma aspettò che facesse lei, perché una parte del suo orgoglio desiderava che si arrendesse e ammettesse di essere attratta da lui.
London pensò che fosse una mossa stupida, soprattutto dopo la sfuriata di quel pomeriggio, ma se ne infischiò perché lei in quel momento voleva baciarlo. Voleva assaggiare ancora quel sapore agrodolce sulle sue labbra, sentirle premute sulle proprie e stringersi forte contro il suo petto. Senza motivo, senza pensarci.
Lo baciò quasi con forza e senza delicatezza, come se ne avesse strettamente bisogno, prendendogli il volto tra le mani. Klaus, dal canto suo, non esitò a rispondere e strinse le braccia intorno alla sua vita, attirandola ancora più a sé, fino a farle inarcare la schiena. London intuì che quel movimento così brusco gli dovesse aver provocato qualche sorta di fitta alla schiena bendata, ma lui sembrava non curarsene.
Non era la prima volta che si ritrovavano così avvinghiati, ma c’era qualcosa di diverso in quella situazione… forse qualcosa di sbagliato, sempre se un desiderio così strano e improvviso si potesse definire tale.
Klaus fece qualche passo, pur tenendola stretta, facendole sbattere il fondo della schiena contro il tavolo su cui prima aveva preparato pane e marmellata – che giaceva ancora lì ignorato e indisturbato. London mugugnò qualcosa contro le sue labbra, ma continuò a baciarlo, anche quando, prendendola per le cosce, non la fece sedere sul ripiano del tavolo, che traballò per qualche istante.
Il ragazzo si staccò per un momento, con il fiato corto, nonostante i loro nasi si sfiorassero ancora, quasi come se fosse impossibile separare i loro visi del tutto. London si ritrovò a pensare che il suo respiro caldo sulla propria pelle fosse una sensazione decisamente appagante.
Klaus fece scorrere le dita sulla sua schiena e poi si chinò sul suo collo, percorrendo con le labbra il tratto dal lobo dell’orecchio alla mandibola. Lei, in reazione, inclinò la testa di lato e si morse le labbra. Doveva saperlo, doveva averlo capito che il collo era il suo punto debole, quel bastardo.
Eppure la allettava da morire l’idea che potesse tormentarla in quel modo. E la allettava da morire l’idea di poterlo tormentare egualmente, con le stesse armi.
Il ragazzo scese con la bocca sulla sua giugulare, lasciando una scia rovente e provocandole un gemito soffocato. La morse leggermente e London strinse le dita intorno ai suoi capelli.
Klaus alzò il viso di poco, strofinando il naso contro il suo mento. 
« Questo non c’entra niente con l’erede, d’accordo? » le disse in tono persuasivo, per poi riprendere a baciarla con trasporto, tanto che lei dovette reclinare la testa per far combaciare meglio le loro labbra.
« D’accordo » sospirò London tra un bacio e un altro, troppo presa dal momento per ragionare. Si sentiva sopraffatta dal desiderio ed era una sensazione così strana perché non l’aveva mai provata prima d’ora.
Lo maledisse per l’ennesima volta nella sua testa, perché era solo colpa sua se le aveva sconvolto l’esistenza, facendola dubitare persino dei propri sentimenti.


 
*


Klaus si domandò brevemente cosa fosse cambiato da un momento all’altro. Fu un istante davvero molto breve, tuttavia, perché abbandonò quel quesito in un anfratto remoto della sua mente. 
London lo aiutò a sfilarsi la maglietta e lui represse una smorfia di dolore. Nonostante cercasse di ignorarle, le ferite erano ancora lì, pulsanti e irrisorie, coperte da alcune bende bianche che gli fasciavano il busto. La ragazza cercò di essere delicata e gli passò le mani sulle spalle, accarezzando la sua pelle rovente. Forse, a differenza di quel pomeriggio, non voleva ferirlo fisicamente.
E Klaus stava apprezzando quel tentativo, perché al posto suo anche lui si sarebbe preso a schiaffi per quello che aveva detto. Si sentiva sporco, un bugiardo: lui desiderava London come si desidera un bicchier d’acqua in mezzo al deserto, ma non l’avrebbe ammesso neanche sotto tortura. Dopotutto combatteva con il suo orgoglio da ventun’anni, non l’avrebbe sbandierato ai quattro venti, né ora né mai.
London non sapeva quanto lui bramasse il suo corpo, e forse era anche meglio così, perché in caso contrario si sarebbe sentita davvero potente, permettendogli di odiarla e al contempo desiderarla ancora di più. Si trovava in un circolo vizioso. Ma ora che poteva averla – in tutti i modi in cui si possa avere una persona – non si sarebbe tirato indietro. L’orgoglio, una volta tanto, poteva anche andare a farsi fottere, perché per nulla al mondo adesso avrebbe rifiutato di poterla portare a letto, quasi ne avesse un bisogno fisiologico.
Per lui in quel momento London sarebbe stata parte della cura, come una medicina, o forse non avrebbe fatto altro che alimentare la malattia, come una droga. 
La sua pelle morbida e liscia era una medicina; i suoi baci e il suo viso erano una droga.
I suoi capelli candidi tra le dita erano una medicina; i suoi occhi sfuggenti e seducenti erano una droga.
Era assuefatto.
Klaus, pur tenendo le mani poggiate saldamente sui suoi fianchi morbidi, la lasciò stendersi sul tavolo.
Il petto della ragazza si alzava e abbassava ad un ritmo costante e, dopo che lui la aiutò a sfilarsi i jeans, London strinse di più le cosce intorno alla sua vita, come se potesse scappare da un momento all’altro e lei non glielo volesse permettere.
Quel pensiero gli lasciò un profondo senso di soddisfazione, perché significava che anche London, tra le sue braccia, stava escludendo il resto del mondo fuori dalla sua testa.
Scese con le mani ad accarezzarle le gambe, facendola sospirare di piacere, e quei suoni soavi non facevano altro che accrescere il proprio desiderio.
Le alzò di poco il bordo della maglietta e si abbassò a sfiorarle la pancia con le labbra.

« Klaus? » mormorò London, chiudendo gli occhi.
« Mmh? » biascicò lui, strofinando la guancia accanto al suo ombelico, al che lei, al contatto con il filo di barba del ragazzo, ridacchiò.
« Mi fai il solletico, stupido! »
« Ah, soffri il solletico? » chiese retorico, prendendo a passarle lentamente i polpastrelli sull’addome, proprio sotto al seno.
London rise, prendendogli le mani e portandosele di nuovo ai fianchi, esattamente nel punto in cui si trovava l’anca. 
« Qui va meglio » gli disse, cercando di trattenere un fremito. Klaus adorava vederla così vulnerabile.
L’aiutò ad alzarsi a sedere e ne approfittò per baciarla di nuovo, unendo le proprie labbra alle sue. Amava la sua bocca: era carnosa al punto giusto e particolarmente invitante, senza contare la presenza di quel raro sapore che la caratterizzava. 
Una bocca così diversa dalla propria, che era invece sottile e irrisoria. Stava cominciando a pensare che le loro labbra si incastrassero veramente bene; poi estese quel ragionamento, giungendo alla conclusione che forse erano i loro corpi che sembravano congiungersi come se fossero fatti da sempre per bramarsi ed incontrarsi.
Che pensiero stupido, si disse, autoconvincendosi. Si tratta di sesso e basta.

« Andiamo di sopra » disse in quel momento, bloccandosi per un attimo. 
London si scostò, accaldata, una ciocca di capelli dal viso e scese dal tavolo. Osservò suo marito per qualche istante di sottecchi, poi si lasciò trascinare sino alla stanza da letto che era rimasta inutilizzata per più di due anni.
Klaus, prendendola nuovamente tra le braccia, cominciò a credere che forse quella dell’erede non era poi una così cattiva idea. 


 
 













   
 
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