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Autore: Angie Mars Halen    15/09/2013    2 recensioni
Nikki sta attraversando il periodo più buio della sua vita e ha l’occasione di incontrare Grace. Dopo il loro primo e burrascoso incontro, tra i due nasce una profonda amicizia e Grace decide di fare del suo meglio per aiutare e sostenere il bassista. Inizialmente Nikki è felice del solido rapporto che si è creato tra lui e questa diciassettenne sconosciuta, ma subentrerà la gelosia nel momento in cui lei inizierà a frequentare uno dei suoi compagni di band. Mentre dovrà fare i conti con questo, Grace, che è molto affezionata a lui e quindi non vuole abbandonarlo, dovrà fare il possibile per non essere trascinata nell’abisso oscuro di Sikki.
[1987]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mick Mars, Nikki Sixx, Nuovo personaggio, Tommy Lee, Vince Neil
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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2) NIKKI

Mocciosi di merda. Sempre a rompere, voi, eh? “Uuuh, il lupo cattivo!”. Ma fatela finita, ché io a quindici anni non andavo a tormentare la gente in questo modo. O forse sì? Boh, non ricordo più niente di quegli anni. A momenti mi sono dimenticato anche in quale decennio siamo.

Quella sera, dopo aver passato il pomeriggio in trance sul divano a guardare MTV senza prestare attenzione e mentre giravo per casa pensando solo a farmi una pista, sentii uno scalpiccio nel giardino, poi dei passi felpati nel salotto mentre stavo salendo le scale. Stavo andando in camera a cercare un po’ di cocaina, il che significava che non ero ancora fatto e che, di conseguenza, ero abbastanza lucido da rendermi conto che stavolta non c’erano nani messicani né poliziotti che mi cercavano, come credevo quando ero su di giri e mi venivano le allucinazioni. C’era una persona vera e chissà quali intenzioni aveva. Cominciai a strofinarmi le mani per il panico. Se era venuta per rubare, c’era una sola cosa che potevo fare, ed era una sorta di procedura di sicurezza che avevo stabilito e che rispettavo rigorosamente tutte le volte che era necessario. Anche quella notte non tentennai e la misi in atto: arrancai su per le scale e mi fiondai nella cabina armadio della mia camera, dove custodivo il fucile a doppia canna di mio nonno. Lì nessuno avrebbe potuto trovarmi perché era il mio bunker segreto. Mi sembrava che avesse le pareti spesse un metro in cemento armato e la porta a tenuta stagna, ma in realtà era una normalissima cabina armadio troppo piccola per uno della mia stazza e straripante di cocaina, eroina e alcolici.

Mi abbracciai le ginocchia tenendo una mano sul pavimento, accanto al fucile per raggiungerlo in fretta non appena ne avessi avuto bisogno. Avevo paura di essere aggredito e patire dolore. Forse, però, se fossi morto avrei smesso di soffrire per colpa delle mie stesse maledettissime mani. Pensavo spesso questo genere di cose, ma in realtà non volevo morire, non lì nella San Fernando Valley, non in quella casa di merda a Van Nuys.

I passi si fermarono e con essi anche il mio respiro. Lo trattenni per tutto il tempo possibile per ascoltare ancora meglio i rumori circostanti, ma non riconobbi nemmeno quello dei passi di poco prima. A quanto pareva, l’intruso si era appostato da qualche parte per tendermi un agguato e io ero costretto a stare chiuso in quel buco in eterno, perché se fossi uscito mi avrebbe aggredito, proprio come i fottutissimi nani messicani che si abbarbicavano sugli alberi del giardino per tendermi le imboscate.

Nascosi il viso tra le ginocchia e mi portai le mani nei capelli, accorgendomi che erano talmente sfibrati e ingarbugliati che non riuscivo nemmeno a passarci le dita in mezzo senza strapparli. Sentii qualcosa di caldo e appiccicoso bagnarmi le ginocchia e un attimo dopo mi resi conto che stavo piangendo.

Sollevai il capo quando bastava per vedere la luce, la poca che filtrava dallo spiraglio sotto la porta, poi cominciai a fare un riepilogo mentale delle cose presenti nella cabina armadio nel caso fossi stato costretto a starci dentro in eterno. Giunsi all’amara conclusione che avevo lasciato fuori sia la chitarra che il mio diario.

I passi ripresero e fu tutta questione di un attimo: attraversarono il salone e sentii il rumore sferragliante del cancelletto che veniva chiuso con un colpo, poi di nuovo il silenzio totale. Buttai indietro la testa, urtando il muro alle mie spalle. Inveii e mi alzai goffamente dal pavimento, deciso a tornare al piano terra per controllare se ci fosse ancora la mia chitarra. Era un’acustica che avevo pagato un sacco di soldi, e forse il ladro l’aveva capito e me l’aveva rubata.

Lasciai che le gambe mi portassero giù. Ormai andavano per conto loro, come del resto ogni altra parte del mio corpo. Le gambe, le braccia, la testa – tutto per contro proprio, senza considerare quello che comandava il mio cervello.

Una volta raggiunto il salotto, potei constatare che tutto era come l’avevo lasciato, p almeno così sembrava. C’era talmente tanta confusione che più che in una sala mi sembrava di essere in una discarica. Alzai le spalle e mi lasciai cadere sul divano, esausto e bagnato come se fossi appena tornato a casa dopo aver corso sotto il sole cocente, con la sola differenza che l’umidiccio che mi sentivo addosso erano lacrime e non sudore. Quando piangevo mi asciugavo la faccia con le dita, poi andavo a sfregarmi un braccio, i capelli o una gamba e, a lungo andare, mi ritrovavo con la pelle di tutto il corpo che tirava come quella delle guance dopo che le lacrime si sono seccato.

Stavo pensando se fosse il caso di accendere la televisione o lo stereo quando il campanello suonò, facendomi trasalire. Balzai in piedi e mi avvicinai al citofono quatto come un gatto, poi sollevai il ricevitore con estrema cautela e domandai chi fosse. Rispose una voce allegra e familiare, nonchP l’unica che avevo bisogno di sentire.

“Ciao, bro, sono Tommy!” annunciò il mio migliore amico quasi cantando. “Sono passato a trovarti. Lo so che è tardi, ma da quando siamo tornati dal tour non ho mai un cazzo da fare. Posso entrare?”

Senza nemmeno degnarmi di rispondergli, appoggiai pesantemente una mano sull’apparecchio per premere il bottone che apriva il cancelletto e colpii la porta con la punta del piede. Chissà poi perché li avevo lasciati aperti? Boh. Facevo tanti gesti assurdi dei quali non mi ricordavo mai e, sinceramente, non me ne fregava nemmeno. Avevo altro a cui pensare.

Mi appoggiai allo stipite con tutto il corpo per sorreggermi e osservai T-Bone percorrere il vialetto. Era una comica e riuscì persino a strapparmi un sorriso: camminava con le mani nelle tasche del giubbotto di pelle, faceva passi lunghissimi con le sue gambe magre, e ondeggiava da una parte all’altra come se il vento lo stesse spingendo, il tutto mentre si guardava intorno con fare curioso. Appena mi vide ghignò e accelerò il passo.

“Ehi, Sixxter, cosa ci fai lì fuori in mutande? Stai dando spettacolo?” mi domandò. Quando parlava sembrava sempre allegro come un marmocchio, mentre io volevo solo sprofondare in un buco nero e restarci. Spesso mi domandavo se a uno come Tommy facesse bene stare con una persona che sprigionava negatività da tutti i pori come me.

Alzai le spalle e mi passai una mano sul viso. “Da fuori non si vede l’ingresso principale.”

Tommy raggiunse la porta e mi fece da parte con una lieve e giocosa spallata poi entrò in casa, sempre con quella sua andatura dinoccolata e le mani pesantemente cacciate nelle tasche del chiodo.

“Che puzza, qui dentro,” borbottò tappandosi il naso con le dita. “Le apri mai le finestre?”

Lasciai che si sedesse sul divano, prestando la massima attenzione a scegliere il punto in cui era più pulito. “Oggi ho dimenticato la porta aperta, quindi dovrebbe esserci un po’ meno odore.”

Tommy fece una smorfia per farmi capire che il tanfo non era andato via.

Rimanemmo immobili nelle nostre posizioni senza parlarci per un minuto buono, durante il quale ci studiammo a vicenda come se avessimo trascorso mesi senza vederci. All’improvviso mi ricordai di ciò che era accaduto poco prima e corsi a sedermi accanto a lui, prendendolo per un polso ossuto per costringerlo ad ascoltarmi. “T-Bone, devo raccontarti una cosa.”

Lui mi passò un braccio intorno alle spalle e sospirò, forse convinto che fossi nel bel mezzo di una delle mie crisi. Era il suo modo per dirmi che potevo cominciare a parlare oltre che, chiaramente, farmi capire che a volte ero davvero assillante.

“Prima qui c’era qualcuno,” gli sussurrai nell’orecchio, ma Tommy, come previsto, alzò gli occhi al cielo e sospirò.

“È tutto frutto della tua immaginazione, Sixx, lo sai.”

“No!” esclamai, stavolta più alterato. “L’ho sentito! Avevo lasciato il cancelletto aperto ed è entrato in giardino, poi è entrato in sala, poi è uscito di nuovo.”

Tommy si limitò ad afferrarmi le braccia per controllare se avessi dei buchi freschi. Gli ultimi risalivano al giorno precedente e prudevano da morire perché si stavano già cicatrizzando, allora mi chiese se avessi bevuto o sniffato.

Mi alzai in piedi con uno scatto e gli puntai contro un dito. “Perché pensi che io sia sempre fatto?”

Tommy mi prese gentilmente per una mano e mi costrinse a sedermi di nuovo, come fanno i medici con i pazienti che sbottano all’improvviso e senza motivo. Lo avevo visto comportarsi così solo con me, il che non mi andava affatto bene dal momento che mi faceva sentire più anormale di quanto non fossi già.

“Nikki,” disse cercando di mantenere la calma, “lo sai che quando sei fatto vedi cose che non ci sono e–”

“Sì, ma questo non era un nano o uno sbirro.”

“Bene!” esclamò sarcastico, allargando le braccia e roteando gli occhi. “Abbiamo aggiunto un nuovo personaggio al cast!”

Diedi un pugno alla parete rischiando di farmi male. “Ti dico che non è così. Stavolta ho sentito anche il rumore del cancello. C’era davvero qualcuno là fuori.”

Tommy si alzò dal divano e si avvicinò a me, puntò gli occhi dei miei e sillabò ogni singola parola. “Tu. Devi. Farti. Aiutare.”

“Ma–”

“Non puoi andare avanti così. Fidati di me, se non ti volessi bene non te lo direi,” mi interruppe, stavolta alzando la voce. Odiavo sentirlo gridare e quando succedeva ci rimanevo male perché non volevo che si arrabbiasse a causa mia.

“Nessuno sa cosa sto passando, T-Bone,” volevo piangere, ma non potevo farlo davanti a lui perché non volevo che pensasse che fossi debole.

“Hai ragione, non lo sa nessuno, però là fuori, nel mondo, oltre questo fottuto castello oscuro in cui vivi, c’è qualcuno che sa come fare per tirare fuori dai casini quelli come te,” tuonò, il braccio teso e il dito che puntava fuori dalla finestra e poi oltre il muro di cinta. “Se vuoi farti aiutare, raccogli le tue cose e andiamo. Ti accompagno volentieri, anche domattina stessa.”

Sentii la rabbia bruciare nelle vene e raggiungere le mani, che chiusi a pugno. “Non mi serve l’aiuto di nessuno, okay? Non c’è una sola persona che possa capirmi e io non ne posso più di vivere così. Spero di creparci presto, in questa casa.”

“Ti rendi conto di quello che dici?” stavolta la voce di Tommy era più pacata e avrei anche potuto giurare che stava tremando. Tutto d’un tratto divenne più severa, poi arrabbiata. “Ti rendi conto che non ne vale la pena e che al mondo ci sono cose peggiori? Ogni volta che passo da casa tua spero di riuscire a strapparti un sorriso, invece no, tutte le volte spari le stesse stronzate. Mi sono stancato di questa solfa, stai facendo deprimere anche me.”

Raccolsi dal pavimento ciò che restava di una rivista e gliela lanciai contro, mancandolo. “Allora che cazzo ci fai ancora qui? Vattene! Se non vuoi ascoltarmi un po’ allora sparisci, lasciami da solo come hanno fatto tutti.”

Tommy calciò di lato il numero di Playboy risalente a tre mesi prima che avevo utilizzato per colpirlo e subito dopo girò sui tacchi in direzione della porta. “Ora capisco perché Vince e Mick non passano mai a trovarti. Io me ne torno a casa, ma comunque ricordati che quando hai bisogno di me puoi chiamarmi, anche quando pensi di disturbarmi. Buonanotte.”

Se ne andò sbattendo prima la porta poi il cancelletto esterno. Aspettai con l’orecchio appoggiato contro il vetro sporco della finestra finché non sentii il rombo della sua motocicletta scomparire in fondo al viale, poi mi lasciai scivolare per terra, strisciando il viso sulla vetrata sudicia e una mano sull’intonaco color ocra del muro. Adesso neanche T-Bone mi voleva più. Mi sentii un peso in gola e cominciai a tremare mentre un forte desiderio di spaccare tutto stava iniziando a impossessarsi di me. Utilizzai le ultime forze che avevo per arrancare fino al telefono, sollevai il ricevitore e composi un numero, l’unico che mi ricordavo a memoria e che avevo anche scritto su un foglietto appeso sopra la cornetta nel caso me lo fossi dimenticato – con tutte quelle crisi che mi prendevano, non si poteva mai sapere. Mi sedetti sul divano e mi misi l’apparecchio in grembo.

“Pronto?” rispose una voce assonnata dall’altra parte.

“Jason, sono Sixx,” biascicai mentre mi mordicchiavo le pellicine intorno alle unghie.

Jason borbottò qualcosa di incomprensibile che mi fece fumare il cervello nonostante non avessi afferrato una sola parola. “Arrivo tra un’ora, tu intanto prepara i soldi.”

“Non un’ora. Mezz’ora,” lo corressi prontamente.

“Un’ora,” insisté lui. “Ho da fare.”

“Farai dopo.”

E gli riattaccai in faccia, certo che avrebbe obbedito ai miei ordini.




N.d’A.: Salve a tutti! :) Innanzitutto ringrazio tantissimo chi ha lasciato una recensione e ha inserito la storia tra le preferite e, se ci sono, anche i lettori silenziosi!
Come potete notare, ogni capitolo ha una voce narrante diversa (saranno quasi sempre Grace e Nikki, anche se non mancherà qualche eccezione).
Spero che questo secondo capitolo sia di vostro gradimento, e se così fosse (o non fosse), mi piacerebbe sapere il vostro parere.
Il prossimo capitolo arriverà venerdì. Cercherò di essere il più puntuale possibile visto che mi è venuta la grande idea di cominciare a pubblicare una storia proprio nel momento in cui riprende la scuola. Ma non temete! Se dovesse prendervi (?), è già stata scritta tutta!
Grazie ancora!

Angie

   
 
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