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Autore: nightswimming    21/09/2013    4 recensioni
"Non vuoi la mia versione di quello che Moriarty ha detto?"
Erano stati avvertiti.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Note dell’autrice: non li possiedo, ahimé, e non ci guadagno un bel niente.
Dedicata a tutte le ragazze che volevano vedere Sherlock saccagnato di botte in versione sexy-sanguinolenta. <3
Warning per descrizioni non dettagliatissime, ma molto frequenti, di violenza fisica e psicologica.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
I.
 
Sherlock ha la bocca chiusa dallo scotch e non può rispondergli, ma John gli sussurra lo stesso, frenetico e sincero, mentre lo trascinano via: “Sherlock. Sherlock, andrà tutto bene. Alla fine. Andrà tutto bene. Sherlock, te lo prometto.”
 
*
 
Sherlock mangia quanto lui – poco, e male – ma assume un aspetto malsano molto prima. Basta a malapena una settimana.
E’ sempre stato così magro. Troppo.
Perché, pensa disperato John, dibattendosi nei suoi legacci, perché non l’ha mai ascoltato quando gli diceva di mangiare di più?
 
*
 
Le percosse cominciano sin dal primo giorno di prigionia. A John sembra di trovarsi in un incubo.
Quella violenza, quell’accanimento insensato gli paiono irreali. Ogni calcio nel suo stomaco è una cosa sbagliata perché non può essere vera.
Non possono massacrarlo così. Non avrebbero il diritto neanche di sfiorarlo, non è questo il modo in cui le cose dovrebbero andare. Sherlock nella sua mente è sempre stato altero e bianco e irraggiungibile; così intoccabile, così lontano dall’idea che John ha della “gente”, di tutte le altre persone.
Ma quegli schiaffi, quei pugni e quelle risate di scherno ora lo rendono terribilmente umano, in un modo che John non avrebbe voluto vedere mai.
John si agita sul pavimento e urla loro di smettere, vedendo i suoi occhi riempirsi di lacrime furiose e la sua pelle di lividi.
Nemmeno allora è capace di crederci.
 
*
 
Dopo averlo costretto a guardare, lo slegano sempre in modo che possa correre da lui.
John conosce bene il meccanismo della tortura psicologica. Ogni giorno Sherlock viene riempito di botte e ogni giorno loro lasciano che John gli pulisca i tagli, gli mormori parole di conforto, gli passi dita inorridite su ematomi  e sangue e sudore, lo abbracci cercando di non fargli altro male.
Loro stanno sulla porta a guardarli. Sorridono.
Il giorno dopo succederà esattamente lo stesso.
 
*
 
Sherlock riesce a malapena a formare parole di senso compiuto, tanto è gonfia la sua faccia.
“Il… ‘ane…”
John gli sostiene il viso con una mano ed emette piccoli versi affettuosi che di norma rivolgerebbe agli animali impauriti, “ssh ssh ssh”, i lineamenti contratti dall’angoscia.
“Non affaticarti, Sherlock. Cosa c’è?” sussurra scostandogli dalla fronte i capelli incrostati.
Sherlock deglutisce e sorride tremulo. I suoi denti sono sporchi di sangue.
“Il… pane, John. E’ di ieri. Ci danno pane vecchio.” Batte piano le ciglia e rabbrividisce. Quello splendido, famigliare, sfacciato sorriso però resta al suo posto. “Im… perdonabile, non trovi?”
John emette una risata gracchiante, vagamente isterica, e lo stringe forte.
Sherlock perde i sensi poco dopo.
 
*

La loro cella è minuscola ma pulita, con una piccola finestra in alto e un anello di ferro ad ogni lato dove occasionalmente li legano per non farli stare vicini.
Percosse a parte, vengono trattati sufficientemente bene: mangiano a intervalli regolari, viene dato loro modo di pulirsi ogni due giorni, non sono tenuti svegli contro la loro volontà, e John viene fornito di ogni materiale medico possibile in modo da riuscire a tenere Sherlock in vita.
Gli sono toccati rapitori educatamente crudeli, seviziatori a loro modo premurosi.
 
*
 
Non l’ha mai toccato così tanto come in queste orribili circostanze.
John sa che è un pensiero stupido, ma prima del rapimento non credeva possibile che Sherlock avesse un corpo come tutti gli altri. E’ difficile, pensando a Sherlock, costruire con l’immaginazione qualcosa che integri quegli occhi glaciali, quelle mani affusolate e capaci, quei capelli in disordine, o quel poco che il lenzuolo o la vestaglia gli mostrano di tanto in tanto.
Sherlock trascura con ostinazione il suo fisico e così facendo sembra annullarlo, renderlo quasi impalpabile, totalmente accessorio. Non gli interessa. Non se ne cura. Forse nemmeno gli piace - forse, semplicemente, lo annoia perché necessita di cibo e acqua e di riposo e, a volte, dell’odiato contatto umano.
Come adesso, in cui è costretto a farsi maneggiare ogni giorno da John per non morire dissanguato.
Sherlock ha mantenuto il proprio usuale, sprezzante atteggiamento sia con lui che con i rapitori, ma ormai John lo conosce, riesce a vedere oltre, riesce a sentire l’umiliazione sotto le dita quando gli pulisce le ferite e le benda con delicatezza.
 
*
 
Dopo, a volte, Sherlock lo scosta d’istinto, bruscamente, e si raggomitola su un fianco rifiutando di farsi toccare, tremando e sibilando per il dolore.
John sa che a Sherlock non importa nulla degli altri. E’ una persona egoista, egocentrica, egotica, egoriferita e tutti gli altri possibili aggettivi con il prefisso “ego”. John questo lo sa.
John però sa anche che, incredibilmente, Sherlock ha sempre tenuto a impressionarlo, a fare bella figura con lui, a essere perfetto e geniale e invincibile attorno a lui, per lui, solo per lui, per guadagnarsi il suo esclusivo apprezzamento; e intuisce quanto Sherlock allo stesso tempo ringrazi e maledica il fatto che in questo casino ci sono dentro insieme.
Il solo pensiero che Sherlock possa provare vergogna in sua presenza e sentirsi immeritevole delle sue cure, perché ora non riesce ad essere né perfetto né geniale né invincibile, gli fa venire la pelle d’oca.
 
*
 
John urla spesso di picchiare lui al suo posto.
Non ha mai detto nulla di più vero nella sua vita, ma la sua sincerità non viene mai premiata.
 
*
 
Quando sente di stare per impazzire, e la paura di morire là dentro lo invade, John pensa a piccoli dettagli. Sono stupidi e irrinunciabili allo stesso tempo, tanto da fargli chiedere a sé stesso come abbia mai potuto vivere senza.
I nei sul suo collo.
Il fascio di luce che il microscopio gli proietta sugli occhi.
Il tremito euforico nella sua voce ogni volta che dice: “Un caso, John!”
Capisce che quei minuscoli, insignificanti particolari sono tutto quello che più conta nella sua esistenza, e che finché riuscirà a tenere Sherlock in vita, non impazzirà davvero, e la voglia di riprendere a vivere con lui sarà sempre più forte della paura di morire.
 
*
 
Sherlock ha bisogno di energie per guarire e per questo motivo dorme molto più di quanto si permetterebbe di solito.
John gli dorme di fianco, vicino quanto più può, perché ha paura che si senta male nel sonno. Sherlock non obietta; è l’unica cosa logica da fare per evitare che si strozzi con il suo vomito, come ha già rischiato di fare una volta, dopo aver ricevuto troppi calci nello stomaco.
La mattina, quando apre gli occhi, John spesso si accorge di averlo abbracciato durante la notte.
Si scosta sempre prima che Sherlock si svegli, ma ha il dubbio che lui sappia comunque cosa sia successo, e che non sia mai davvero incosciente.
 
II.
 
“Sta guardando, dottor Watson?”
John si sentì tirare per i capelli. Davanti a lui, Sherlock era nella sua stessa posizione: in ginocchio con le mani legate e la testa tenuta forzatamente su per i ricci.
Un uomo che reggeva una pistola in mano fece un passo avanti.
“No” disse John, scuotendo disperato la testa, un panico mai avvertito prima che gli faceva venir voglia di vomitare. Sherlock aveva un’espressione di spento stoicismo in volto. “No-”
L’uomo alzò il braccio fin quasi sopra la testa, poi lo fece ricaredere e colpì Sherlock in pieno volto con uno schiocco simile a quello di una frusta.
“Figlio di puttana” ringhiò John. “Brutto figlio di puttana.”
Sherlock sputò sangue e quello che sembrava un dente a terra. Non aveva emesso nemmeno un gemito, o almeno, non un gemito udibile. Rialzò lo sguardo sul proprio aggressore con un tale disgusto, con un tale spocchioso disdegno dipinto in faccia che John ebbe voglia di baciarlo sul viso insanguinato. Se prima aveva sospettato di avere il complesso dell’eroe nei suoi confronti, beh, ora ne era assolutamente sicuro.
L’uomo rialzò il braccio. Il calcio della pistola era sporco di sangue.
“Basta” mormorò John, frenetico.
Le spalle di Sherlock si irrigidirono ma a parte questo non diede nessun altro segno di tensione. L’uomo alle sue spalle lo tirò per i capelli per fargli esporre completamente il viso alle percosse.
Il braccio si riabbassò.
“Quanta soddisfazione vi da picchiare un ferito? Eh?” sibilò John disgustato guardando il pasticcio di sangue che era diventato il naso di Sherlock, piegato ad un angolo innaturale. “Picchiare un ferito in ginocchio con le mani legate?”
Uno degli uomini alzò un sopracciglio.
“Crede che trarremmo più soddisfazione nel picchiare un uomo sano inginocchiato e con le mani legate?” chiese con un ghigno. John rise.
“Poco cambia. Rimarreste degli schifosi codardi, ma almeno variereste un po’.”
“Da quando i prigionieri si preoccupano del divertimento dei loro aguzzini, dottor Watson?” proseguì l’uomo con un’espressione di educato interesse sul volto.
A John quella leggerezza superficiale che sotto covava la peggiore delle crudeltà ricordò qualcuno.
“Aguzzini? Ma per favore. Siete soltanto dei galoppini di mezza tacca che eseguono goffamente degli ordini. Non fareste paura a un bambino.”
“John, smettila” sbottò Sherlock lanciandogli un’occhiata furente.
“Mmmh. Sì, il mio capo mi aveva parlato di questa sua… verve, capitano Watson”  disse l’uomo con un sorriso. “Purtroppo per lei so dove mira. Gli ordini che noi eseguiamo – goffamente, a suo parere, e la prego di scusarmi: cercheremo di migliorare – riguardano solamente il suo amico. Non lei.”
“Si fottano i vostri ordini” disse John.
“Sta’ zitto!” urlò Sherlock, che sembrava aver genuinamente perso il controllo per la prima volta dall’inizio della loro prigionia. “Smetti di provocarli, razza di imbecille!”
“Commovente” disse l’uomo in tono morbido. “La vostra volontà di sacrificio per l’altro è semplicemente commovente.”
Fece un gesto col mento. L’uomo alle spalle di Sherlock gli slegò le mani e lasciò la presa sui suoi capelli: Sherlock cadde in avanti come una bambola di pezza. Senza nemmeno accorgersi di essere stato liberato a propria volta John si slanciò in avanti e in un attimo gli fu al fianco.
“Ora vi lasciamo un po’ di… intimità. Dopotutto” sentì dire, prima che la porta della cella si chiudesse alle loro spalle, “quello che avete appena fatto è stato molto romantico.”
 
*
 
“Sono uomini di Moriarty” disse John passando in un gesto delicato indice e medio sul suo naso. Sherlock fece una smorfia. “Male?”
“No” fu la secca risposta. “Sì alla tua affermazione su Moriarty.”
“Il naso è rotto” disse John voce grave. Sherlock deglutì e guardò fisso davanti a sé, nel vuoto.
“Provvedi.”
John spalancò gli occhi.
“Sherlock-”
“Non riesco nemmeno a pensare all’espressione soddisfatta di Mycroft quando vedrà che il mio naso è diventato persino più brutto del suo. Rimettilo a posto.”
John sospirò.
“Farà un male atroce.”
Sherlock sollevò un angolo delle labbra in un ghigno.
“Per essere belli bisogna soffrire.”
John ridacchiò.
“Come?”
“E’ una frase che diceva sempre mia madre quando la cameriera le conficcava delle forcine nel cranio, in occasioni di avvenimenti importanti che richiedevano acconciature elaborate.”
John gioì dentro di sé davanti all’eloquio coerente e fluido di Sherlock. Significava che non aveva subito traumi cranici particolarmente forti.
“Tu non hai bisogno di soffrire” mormorò. Sentì il peso dello sguardo intenso e penetrante di Sherlock ma non ebbe il coraggio di guardarlo a sua volta. “Non dovresti mai soffrire.” Si schiarì la voce, imbarazzato. Che cosa stava dicendo? “Non ti facevo così vanitoso, comunque.”
“Lo sono immensamente” fu la quieta e divertita risposta di Sherlock.
“Non credevo.”
“E’ perché sorvoli su troppi dei miei difetti.”
John deglutì e si alzò per inginocchiarsi davanti a Sherlock. Il suo volto ora era pulito; solo i lividi spiccavano sulla sua pelle pallida, non più il sangue. I suoi occhi erano incredibilmente azzurri, limpidi, onesti.
“Fallo” sussurrò. Vedendo che John esitava, disse: “Ero serio riguardo a Mycroft. Non potrei davvero sopportarlo.”
John gli raccolse le guance nei palmi delle mani. Istintivamente, i suoi pollici si mossero ad accarezzargli gli zigomi.
“Non c’è modo che il tuo naso possa essere brutto” disse. Avrebbe voluto usare un tono scherzoso per alleggerire in qualche modo la sua affermazione, ma stava parlando con un genio – era semplicemente impossibile che Sherlock non capisse. Sherlock che lo stava fissando senza dire una parola, silenzioso, così silenzioso. “Non c’è modo che tu possa essere brutto.”
Non c’è modo che io non ti voglia, avrebbe voluto aggiungere poi, ma invece disse: “Perdonami” e diede un colpo secco.
 
*
 
“Sappi, John, che qualsiasi altro tentativo di interferire con quello che sta succendo non sarà gradito.”
Mezzo addormentato, John si rovesciò sulla schiena e gli lanciò uno sguardo confuso. Sherlock aveva le mani incrociate dietro la testa e stava guardando il soffitto con aria indecifrabile.
“Eh?” biascicò.
“E’ me che vogliono. Quindi non sprecarti a ripetere i tuoi slanci eroici. Non avranno effetto.”
John si sentì invadere dalla rabbia.
“Scusami se mi importa” disse, sforzandosi di non mostrare quanto le sue parole l’avessero offeso e ferito. Si rigirò su un fianco con un movimento brusco e chiuse gli occhi.
Non lo sentì alzarsi, non lo sentì avvicinarsi – forse si era assopito di nuovo – sentì solo le sue parole all’orecchio e il suo fiato caldo sul collo.
“Posso sopportare di essere picchiato fino a essere ridotto in fin di vita” disse Sherlock, e John voleva disperatamente vederlo in faccia, ma era notte, la cella era buia, e c’era qualcosa di vulnerabile e urgente nel suo tono di voce che lo spaventava, “ma non posso sopportare che tu venga coinvolto in tutto questo.” Lo sentì deglutire. “Mi servi sano e salvo, senza un solo graffio. Ho bisogno che tu ne rimanga fuori” scandì. “Ne ho bisogno per riuscire a pensare e trovare un modo per uscire da questa situazione.”
Non parlò né si mosse per quella che a John sembrò un’eternità. Percepiva la sua figura chinata su di sé, il respiro leggermente veloce e irregolare per la foga delle sue parole. Un brivido che lo riempì di vergogna lo percorse da capo a piedi e si concentrò in mezzo alle sue gambe.
“Confido che tu abbia capito. Ora puoi tornare a fingere di dormire.”
John non riuscì più a chiudere occhio per il resto della notte.
 
*
 
Il giorno dopo li legarono agli anelli ai lati opposti della cella e fecero partire un registratore, che appoggiarono sul pavimento in mezzo a loro.
“Buonasera, pic-piccioncini” disse la voce tremante di una donna sull’orlo del pianto, “vi… vi state divertendo?”
Si lanciarono un’occhiata tesa e ripresero ad ascoltare.
“Ho pensato di offrirvi questa romantica vacanza via dal solito tran-tran quotidiano prima dell’atto finale. Non sono f-forse premuroso? Spero che gli animatori siano stati all’altezza del compito.”
“Bastardo” sibilò John.
“Zitto” disse Sherlock. La registrazione non era finita.
“Ma forse avrete trovato le attività ricreative un po’ troppo insistenti. Non vi preoccupate, ho pensato a tutto. Presto verrete lasciati soli. Confido che il tuo spassoso fratello ti abbia quasi localizzato, Sherlock. Dovrebbero venire a prendervi nel giro di pochi giorni – forse a malapena di ore.
Vi starete forse chiedendo perché io mi sia tanto prodigato in questo, alla fin fine, inutile gioco di potere. Avrei potuto facilmente farvi mutilare, stuprare, uccidere, entrambi, ma il mio obiettivo non è mai stato questo. No, Sherlock: io ti brucerò il cuore. Ma prima era mia intenzione scoprire dove sei disposto a spingerti pur di mantenere il tuo cuore in salvo. Inutile dire che non mi hai deluso. Nemmeno stavolta.”
John guardò Sherlock: la sua mascella era tesa, il suo sguardo duro.
“Per quanto la tua sentimentale testardaggine mi diverta, te lo dirò una volta per tutte: rinuncia al tuo cuore. Non c’è modo di salvarlo e di salvare anche te stesso. Non sei nato per queste melensaggini, Sherlock. Vedila come una terapia d’urto. Spero capirai presto che la stupida infatuazione che un povero vecchio infermo prova per te non ti renderà migliore: non farà altro che appesantirti, rallentarti, istupidirti.
Riguardo a te, Johnny-boy… Come ci si sente ad aver ridotto una delle menti più brillanti del pianeta a un patetico corpo sanguinolento e tumefatto? Quanto lo ami ora, senza risorse, senza colpi di genio, umiliato e sconfitto e in silenzio? E’ per colpa tua se adesso non ti guarda negli occhi, sai.”
John si voltò verso Sherlock. Stava guardando a terra.
“Sherlock” disse, furioso. “Sherlock, non ascoltare una sola parola di quello che-”
“Ma ho parlato anche troppo. Vi lascio soli. A presto, piccioncini.”
John si accorse a malapena che lo stavano slegando. Tutto quello a cui riusciva a pensare era la testa china di Sherlock, i suoi ricci davanti al viso, le sue spalle flosce.
Non appena gli uomini di Moriarty furono usciti si alzò in piedi e fece un passo nella sua direzione.
“No!” urlò Sherlock. John si immobilizzò, esterrefatto. “Non osare avvicinarti.”
“Sherlock, ti supplico, ascoltami” disse John in tono disperato, alzando le mani per calmarlo. “Fa parte del suo piano per indebolirci, tutte queste calunnie, queste… queste bugie, vuole solo-”
“Non sono bugie” lo sentì mormorare, sottovoce e tremante di rabbia.
“Sì che lo sono” ribatté deciso John. Tentò un altro passo in avanti. “Se solo mi lasciassi-”
“Resta dove sei” sibilò Sherlock. Aveva sollevato il capo e i suoi occhi erano enormi, spalancati, da pazzo. “Non osare muoverti. Devo pensare e non ho bisogno delle tue stupide rassicurazioni, delle tue stupide… moine.”
John si sentì improvvisamente vuoto e molto, molto stanco, come se il peso emotivo e fisico di quelle settimane di prigionia si fosse fatto sentire proprio in quel momento.
“Le stupide moine di uno stupido vecchio infermo con una stupida infatuazione per te” disse in tono piatto.
“Ti ho detto di stare zitto – perché non stai zitto?!”
“Dovrei ignorare tutto quello che quel bastardo ha detto, allora?” sbottò John in tono esasperato. “Non dire nulla? Fare come se niente fosse? Non pensarci più?”
“Sì” disse gelido Sherlock, gli occhi lampeggianti, “sì, ignora, dimentica, non pensarci più. Sono tutte bugie, no? L’hai detto tu stesso. E allora non crederci. Lascia perdere – cancella dal tuo piccolo cervellino lento e difettoso tutto quello che è successo fra queste pareti.”
John chiuse gli occhi. Avvertiva un forte dolore al cuore e la testa gli stava scoppiando. Prese un lungo respiro e rialzò le palpebre.
“Non vuoi la verità?” disse infine, guardandolo con un sorriso triste. “Non vuoi la mia versione di quello che Moriarty ha detto?”
Sherlock gli rivolse un’occhiata indecifrabile.
“No” disse freddamente, senza emozione. “Non mi è di nessuna utilità.”
John si sforzò di non sentirsi deluso, rifiutato, allontanato. Di dimenticare. Di non appesantirlo. Di non rallentarlo. Di non renderlo stupido.
“Come desideri” disse, tornando a sedersi con la schiena contro il muro.
Vennero a prenderli quella sera stessa. Non fecero parola della registrazione di Moriarty con anima viva e non ne parlarono mai più.
Il naso di Sherlock tornò perfetto.
 
III.
 
“Addio, John.”
“No, no- SHERLOCK!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: cominciata mesi fa e ripresa in mano dopo aver visto il trailer di Little Favour.
Spero che si capisca che il Reichenbach è, in questa storia, la versione di Sherlock di quello che Moriarty ha detto, e che Sherlock non vuole sentire la versione di John perché sa già quanto sarà doloroso rinunciare a lui e alla possibilità di stare insieme.
Un bacio grande, spero vi sia piaciuta :*
   
 
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