Il Palpito di Casa
Usher
Capitolo
2: La Donna.
Sbarrai gli occhi nell’oscurità, il fiato corto
e il cuore in gola e rotolai nel groviglio di coperte mettendomi a sedere per
respirare meglio; il turbamento per il sogno di Lady Usher che non voleva
scomparire neppure quando ebbi la certezza che fosse irreale. Mi appoggiai alla
testiera del letto domandandomi il perché di quella bizzarra visione; avevo
sempre escluso che un uomo della mia età, pacato e reazionale, potesse avere
reazioni simili ad un adolescente, tanto più con una dama così giovane
conosciuta solamente da poche ore.
Il flusso dei miei pensieri fu interrotto dal
rumore del vento: lo sentivo fischiare furiosamente tra i tronchi e i coppi del
tetto, e i rami secchi degli alberi ticchettare contro i muri e le finestre
della casa.
Fu in quel momento che vidi filtrare la fievole
luce di una lampada da sotto la porta passare lentamente da sinistra verso
destra come se stesse percorrendo il corridoio. Restai inchiodato nel letto per
qualche istante, ma il bisogno di sapere chi vi era al di là del legno della
porta ebbe il sopravvento sull’inquietudine che i rumori della notte e il mio
sogno mi avevano infuso. L'uscio si aprì al mio tocco indeciso
e fu con timore che mi sporsi nel corridoio.
Lady Usher si voltò di scatto, stringendosi
nella vestaglia da camera bianca: "Signor Anderson! Vi ho svegliato,
perdonatemi!" mormorò, facendo tremare la lampada ad olio accesa che
teneva in mano.
"Non preoccupatevi, milady, ero
già sveglio."
"Il vento?"
"Sì" mentii. "Non sono
abituato a sentirlo con questa forza."
"Di notte si alza spesso." Spiegò,
volgendosi nuovamente verso la finestra. "Da qui si vede un
albero pericolante del nostro giardino, proprio vicino alla casa. Quando ho
udito il vento ho avuto l'istinto di alzarmi e controllare che non
fosse caduto."
Mi avvicinai a lei, il turbamento che
provavo prima era ormai del tutto scemato, il raziocinio aveva ripreso
controllo della mia mente. Bastava la tremula luce della lampada a dissolvere
il mio sogno, non era altro che una sciocchezza, uno strano scherzo prodotto
dalla mente di un vecchio. Probabilmente la stanchezza del viaggio,
il letto sconosciuto, i rumori al di là delle pareti e l'inquietudine
che tutta la casa mi infondeva gli avevano dato adito. Appoggiai una
mano al vetro, facendomi schermo e avvicinai gli occhi per tentare
di guardar fuori, mi sembrava di vedere qualcosa muoversi nell'oscurità.
"L'albero di cui state parlando è proprio di fronte
alla finestra?" Domandai, ricevendo una risposta affermativa.
"Credo sia ancora al suo posto, milady."
Parve sollevata. "Non avevo quasi
dubbi. È stato solo un timore da sciocca quale sono."
"Suvvia, non dite così. Simili rumori
nel cuore della notte angustierebbero chiunque."
"Come ha ragione, Signor
Anderson." Sussurrò facendosi scura in volto: "Questo posto, da
quando anche mia madre è deceduta, non è più lo stesso. Abbiamo sempre
avvertito suoni, cigolii nel cuore della notte. Ma ora... è tutto così strano e
cupo... Roderick ama questa casa, ma non vuole curarla. Sostiene che
rinnovare l'arredamento o far lavorare il giardino minerebbe l'essenza della
casa stessa, ne distruggerebbe la storia, l’anima." Sospirò
e le labbra tremarono quasi impercettibilmente. "Vi domando scusa, se
vi ho tediato con questa mia confidenza nel cuore della notte."
"Non avete nulla di cui scusarvi per aver
espresso questo vostro turbamento. Mio figlio e vostro fratello sono molto
amici, permettetemi di considerare anche me come tale."
Lady Madeline mi ringraziò, fissandomi a lungo
con i suoi occhi screziati. Poi si incamminò, come sempre leggera, verso la sua
camera da letto, augurandomi la buona notte.
Alla luce bigia del giorno ogni mia inquietudine
sembrava essersi chetata. Francis entrò nella mia camera prima di colazione, il
volto teso e dispiaciuto. “Vi devo domandare scusa, padre” furono le prime
parole che mi rivolse e gli domandai perché. “Mi sento in colpa per avervi
chiesto di accompagnarmi in questo posto, in questa imbarazzante e scomoda
situazione. Roderick non è l’amico che ricordavo e questo luogo…”
“Figliolo, i lutti e i dispiaceri della vita
possono cambiare l’animo di un uomo a tal punto da renderlo irriconoscibile
anche al più caro e intimo degli amici.” Lo rassicurai. “Sono certo che a Lord
Usher la tua visita non potrà che giovare, e sono fiero di te per essere
accorso al capezzale di un amico in preda a questa apatica tristezza. Non mi
pesa averti accompagnato: come hai potuto vedere solamente ieri, abbiamo anche
avuto ottimi incontri di affari in città.”
Francis non sembrò rincuorato dalle mie parole
eppure mi ringraziò lo stesso prima di accompagnarmi al piano di sotto per la
colazione.
Quel mattino Roderick Usher era ancora più
pallido del giorno precedente. Due occhiaie scure cerchiavano gli occhi quasi
ad esaltarne la luminosità, mentre posava una mano dalle lunghe dita affusolate
su quella di Lady Madeline, che anche lei non pareva aver trascorso una nottata
riposante.
Trascorremmo la giornata nel suo studio. Ancora
più stipato di oggetti, armature, quadri e stemmi risultava claustrofobico
nonostante fosse un'ampia stanza dal soffitto altissimo. Roderick si stava
dilettando nella pittura, arte in cui mostrava un grande interesse e una notevole
abilità. Eppure trovai i suoi bozzetti e disegni estremamente cupi: abbondava
di toni scuri, carboncino ed inchiostro nero, ed i soggetti erano sempre corpi
umani longilinei ed inespressivi, che fissavano un punto indefinito dello
spazio quasi incantati.
“Notevoli” fu il mio solo commento, cercando di
assumere un’aria interessata e positiva.
L’ultimo disegno che mi capitò in mano fu quello
che mi colpì più di tutti: Ritraeva il
particolare di una mano che reggeva una lampada ad olio.
Era perfetto, disegnato nei più piccoli
dettagli, con le dita magre e lunghe, inscurite nelle punte che stringevano la
lampada nervosamente. Un disegno
talmente vivo che mi fece tornare immediatamente alla mente il mio incontro con
lady Madeline della notte precedente. Pervaso da un senso d'ansia, lo appoggiai
alla scrivania e con una scusa uscii, lasciando Francis e il suo amico davanti
ad una tela.
Mi ritrovai in giardino senza quasi volerlo,
respirando a pieni polmoni l’aria satura di odore di muffa e umidità prima di
incamminarmi nel parco cercando di riacquistare lucidità nella foschia che
ancora non si era abbassata dalla sera precedente. Calpestai foglie secche e
rami, mi feci a volte largo tra cespugli sformati e tronchi abbandonati, finché
non mi ritrovai in una radura, davanti a quelle che potevo solo identificare
come rovine annerite di un antico edificio.
"È l’antica dimora della mia casata, un
castello medievale.” Spiegò una voce alle mie spalle che mi fece trasalire:
Lady Usher, avvolta nel suo mantello nero, attraversò i pochi metri che
separavano il sentiero da dove proveniva per avvicinarsi. "Abbandonata in
seguito ad un misterioso incendio: la dimora attuale fu costruita poco dopo,
mentre queste mura sono state lasciate all’incuria. È andato tutto distrutto, ad eccezione del sotterraneo.”
Mi sorpresi rapito dal suo racconto e dalle sue movenze aggraziate, mentre
avanzava verso le mura, invitandomi a seguirla con un solo sguardo. Domandai
come mai i sotterranei si fossero salvati.
“Perché una pesante porta di ferro ne sbarra
tutt'ora l’entrata” spiegò lei, addentrandosi tra le rovine, passando indenne
tra i rovi. “Il sepolcro era ben chiuso.”
“Il sepolcro?”
Annuì, spiegando di come il sepolcro custodisse
le ossa dei propri avi. L’ultimo ad avervi trovato l’eterno riposo era stato
suo nonno, dopodiché la tumulazione del resto della famiglia – compresi i suoi
genitori - era avvenuta in una cappella nel cimitero del paese vicino. Lady
Madeline si fermò davanti a quello che pareva un minuscolo oratorio divorato
dai rampicanti rinsecchiti e ne aprì con facilità la porta di legno scrostato.
La seguii attraverso i due banchi impolverati sino ad una porta di ferro che
lei solamente accarezzò. “Spesso vengo qui per riflettere” disse nuovamente.
“Da solo questa semplice porta traggo ispirazione per affrontare ogni
difficoltà.” Ancora rivolse lo sguardo dritto su di me. “La morte di mio padre.
Quella di mia madre. Ed ora un fratello debole e malato, che necessita di un
conforto continuo.”
“Capisco, lady Usher. Non deve essere semplice
per voi, così giovane…” provavo per lei
una pena infinta, ed allo stesso tempo si faceva strada dentro di me un
trasporto di tale magnetica e inquietante intensità che mi portava quasi a
sperare che la conversazione con Lady Madeline fosse interrotta al più presto
da qualcuno. La sua voce, il suo pallore e i fili castani dei suoi capelli che
spuntavano dalla cuffietta nera emanavano un fascino fatale a cui mi sentivo
sempre più avvinto. Volevo che continuasse a parlarmi, ad elencarmi i segreti
del giardino e della sua famiglia, che mi indicasse spoglie mortali e mi
conducesse nei meandri più oscuri, tra i rami più irti e la nebbia più fitta.
Eppure quelle mura spoglie e ingrigite sembravano spiarmi, giudicarmi,
opprimermi. Il piccolo rosone sopra l’altare pareva improvvisamente l’occhio
vuoto di un morto che mi osservava insistente.
Lei rabbrividì nel suo mantello nero,
stringendoselo al collo: “Mio caro e buon Signor Anderson. Sono ancora qui a
tediarvi con le mie inopportune confidenze. Perdonatemi.” Sussurrò.
“Come dicevo ieri sera, milady, non avete nulla
di cui chiedere scusa.” Le appoggiai la mano sulla spalla, e mi rivolse uno
sguardo carico di gratitudine.
“Siete davvero un buon amico.” Mormorò. “Ora
forse è meglio che rincasiamo: la nebbia inizia ad essere fredda ed io
necessito di riposo.”
Ci incamminammo di nuovo verso la casa,
percorrendo un sentiero diverso da quello in cui mi ero incamminato all’andata,
che costeggiava lo stagno accanto ad una fila di irti cespugli.
Dopo cena, mentre stavo per ritirarmi nella mia
camera, ebbi un imprevisto incontro con Lord Usher. Lo trovai davanti alla
finestra del corridoio, nell’esatta posizione che la sorella aveva assunto solo
la sera precedente.
Nuovamente, la gelida lama dell'inquietudine si
fece strada nel mio petto.
“Immagino che mia sorella vi abbia fatto
visitare il parco e le nostre rovine. Le nostre reliquie” disse, senza rivolgermi lo sguardo.
Annuii: “Mi ha raccontato la storia dell’antico
maniero.”
“E della cripta.”
“Sì, anche della cripta.”
Si lasciò andare ad un sospiro pesante:
“Madeline è certa che quella porta di pesante ferro tagli il mondo dei mortI da
quello dei vivi, così come il fuoco è stato tagliato fuori dai sotterranei
durante l’incendio.” Si voltò verso di me, gli occhi luminosi spalancati e
quasi isterici. “Mia sorella si sbaglia! Tutta questa tenuta è pregna di morte!
Eppure, questa casa palpita di vita, in ogni suo oggetto, soprammobile,
dipinto! Ciò che resta in questa casa non muore mai.” Un lieve sorriso si fece
largo tra le labbra bianche, prima di augurarmi una buona notte e di
incamminarsi nella direzione opposta del corridoio, lasciandomi ammutolito per
la sorpresa delle sue parole a cui cercavo di trovare il giusto significato.
La luce del camino del salotto illuminava Lady
Usher nella sua camicia da notte candida e pareva quasi incendiarla, mentre
fissava le fiamme guizzare tra nel camino intarsiato.
Per quanto desiderassi guardarla mi sforzai di distogliere
lo sguardo, posandolo su una consolle a me vicino, piena di soprammobili e
statuine di marmo poste su un vassoio d’argento: una di esse, un piccolo fauno
dall'aria impertinente, era riversa con il volto sul vassoio. Rialzandola per
rimetterla al suo posto notai sulla superficie lucida un minuscolo alone di
condensa, come se fosse stato a contatto con il respiro della statua.
Le strane parole di Roderick Usher mi tornarono
in mente, ed il sangue mi si gelò nelle vene: lasciai cadere la statuina a
terra e questa si frantumò in più parti. Mi voltai verso lady Madeline, per
domandarle scusa o spiegazioni, o forse entrambe le cose, ma lei non sembrava
minimamente turbata dall’accaduto e continuava a fissare il fuoco nel camino. “Milady - ”
“Caro Signor Anderson, mi rendo conto di non
conoscere neppure il vostro nome di battesimo.” Disse inaspettatamente.
“Geoffrey.” Risposi. “Geoffrey Francis
Anderson.”
Mosse un paio di passi nella mia direzione, un piccolo
sorriso stanco sul volto tirato ed emaciato: “Oh! Avete chiamato vostro figlio
con il vostro secondo nome!” constatò “Piuttosto inusuale, solitamente è il
primo nome di battesimo ad essere tramandato.”
C’era qualcosa in lei, qualcosa di splendido e
terribile nello stesso momento, che avvinceva e mi intorpidiva i sensi.
Qualcosa che invitava la mia lingua a sciogliere ogni reticenza e rispondere ad
ogni sua sottointesa domanda e richiesta quasi fosse un ordine.
“Io…” iniziai, con un suo passo scalzo ad
incalzarmi “Io e mia moglie battezzammo il nostro primo figlio con il mio nome.
Morì ancora in fasce, nel sonno della culla.”
Lady Usher singhiozzò e si coprì il volto con le
mani, scusandosi con la voce rotta dal pianto. “Non immaginavo! Perdonatemi, perdonatemi!
Non immaginavo che anche voi foste stato colpito da un terribile lutto!”
“Oh no, milady, non dovete angustiarvi!” Le
cinsi i polsi con le dita e le scostai delicatamente i palmi. Sul viso umido di
lacrime, gli occhi brillavano tristi. “Fu duro, non lo nego. Ma Francis arrivò
presto e ci restituì la felicità che la morte del piccolo Geoffrey ci aveva
strappato. Ringrazio Iddio ogni giorno per questo dono.”
“Fu come scorgere la luna dopo una notte di
tempesta, vero?”
“Sì, fu proprio così.” E subito dopo mi accorsi
che il vento, fuori dalle vetrate del salotto, aveva ripreso a soffiare e che
gli spifferi passavano dalle fessure delle finestre, spostando le tende come se
fossero aliti di fantasmi nascosti. Quando tornai a guardarla, Lady Usher aveva
gli occhi chiusi e le labbra contratte nello sforzo di trattenere nuovi
singhiozzi.
“Vorrei tanto vederla anche io. Qui vi è sempre
e solo tempesta. Mai, mai la luce della luna fende le tenebre.”
Ciò che accadde dopo prevarica ogni spiegazione
logica. Lady Usher riaprì gli occhi e avvicinò il volto e senza che riuscissi
ad impedirlo premette la bocca sulla mia. Le lasciai andare i polsi, le presi
il viso tra le mani e lo tenni fermo, mentre le mie labbra si staccavano dalle
sue per poi cercarle di nuovo, freneticamente, suggendone il tepore ed il sale.
Le mani fremevano al contatto con la mia giacca per poi farsi strada, prima
incerte poi sempre più bisognose, tra i bottoni dei vestiti. Lasciai che me li
facesse scivolare dalle spalle, lei lasciò che la guidassi sul canapè.
Fu disperata, folle necessità.
Mentre inarcava la schiena soffocando un gemito,
il cigolio della porta d’entrata mi fece voltare di scatto.
Non vi era nessuno, eppure percepivo troppi
testimoni scrutarci.
Mi svegliai madido di sudore nel mio letto.
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E
siamo arrivati anche al secondo capitolo. Come avrete capito, il senso di
questa storia è molto opinabile.
Vi
ringrazio per le recensioni al primo capitolo (giuro che non me le aspettavo!)
e per aver visitato e letto anche questo.
A
presto, spero.
EC