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Autore: BlackEyedSheeps    25/09/2013    3 recensioni
Clint Barton e Natasha Romanoff hanno appena portato a termine la loro prima missione insieme. Una raccolta di one-shot, legate l'una all'altra da un sottile filo conduttore, vedrà mutare e crescere il loro rapporto attraverso nove città e due punti di vista, fino agli eventi di The Avengers. [Clint/Natasha]
Genere: Angst, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 4

Pyongyang

 

Sentire su di sé la profondità di quegli occhi non era mai stato tanto confortante.

 

Il volto della donna era illuminato da un leggero bagliore che le faceva risplendere la pelle di una luce pallida e tenue. Qualcuno avrebbe trovato la visione spettrale, ma a Natasha ricordava il viso della luna, una di quelle lune amichevoli con occhi, naso e bocca, che popolavano le fiabe che non le avevano mai raccontato.

 

I lunghi capelli rossi le incorniciavano le fronte, le labbra – un fiore scarlatto in mezzo all'ovale del viso – facevano loro da contrappunto, gli occhi grandi e rassicuranti. Sembravano richiamarla a sé con voce familiare, confortante.

 

Le sorrise, non il frutto di una complicata finzione, come era solita, ma un sorriso sincero. La sconosciuta ricambiò rapidamente, come se avesse intuito i suoi pensieri e avesse fatto altrettanto. I suoi denti scintillarono come perle nel buio. Per un attimo, Natasha ebbe la sensazione di aver ritrovato un'amica, una confidente sepolta e dimenticata per anni e improvvisamente tornata a farle visita.

 

Allungò una mano, voleva toccarla, sfiorarle il viso. Seguì il movimento delle proprie dita tese fino alla sua guancia. La donna davanti a lei imitò il suo gesto. Trattenne il respiro aspettando di sentire la consistenza del suo viso sotto le dita. La donna fu più veloce di lei. Sussultò, confusa: il suo tocco era gelido. Rialzò lo sguardo e, invece che rincontrare i suoi occhi – i suoi stessi occhi verdi – si ritrovò a guardare nell'abisso di due orbite vuote, la pelle avvizzita, macchiata, di una consistenza tutta sbagliata a far loro da contorno.

 

Natasha ebbe paura. Voleva gridare, strepitare... ma, per quanto si sforzasse, dalle sue labbra dischiuse non uscì alcun suono. Voleva fuggire, ma i piedi le si erano fatti improvvisamente pesanti, impossibili da sollevare.

 

Il panico la riempì mentre osservava con muto orrore la donna marcire e accartocciarsi su se stessa, come un sogno improvvisamente appassito.

 

Finché un leggero calore non le riscaldò le mani. Fu un inaspettato conforto nel freddo tombale che respirava attorno a sé. Ma durò solo un istante: le bastò un'occhiata alle proprie mani per accorgersi di essere ricoperta di sangue. Sangue fresco, di un rosso brillante e impietoso che quasi l'accecò, annegando la luce lunare che la circondava solo un attimo prima.

 

Tutt'intorno, le orbite oscure di mille cadaveri in putrefazione la osservavano, la accusavano... e allora comprese.

 

Sono miei... sono tutti miei.

 

Qualcosa l'afferrò da dietro, impedendole di sollevare le braccia, inspiegabilmente inchiodate ai lati del suo corpo. Si dimenò forsennatamente, nel disperato tentativo di scrollarsi di dosso quella morsa invisibile, il cuore prese a batterle furiosamente nel petto in preda al panico...

 

***

 

… urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Una parte di lei fu sollevata dal riuscire a sentire la propria voce, l'altra era troppo impegnata a respingere il suo assalitore per preoccuparsene.

Gli affondò le unghie nella carne e lo respinse, buttando entrambi a terra. Il dolore le riverberò nella schiena come un colpo di frusta, mentre un odore familiare le raggiungeva le narici. Non lo registrò, non se ne concesse il tempo, riprendendo a combattere e a resistere con cieco furore.

“Natasha! Natasha! Sono io! Son – CAZZO!”

Una gomitata nello sterno e la voce – maschile, realizzò in un lampo di lucidità – si smorzò, in difficoltà. Un'assurda soddisfazione la rianimò, sedando per un misero attimo il terrore che ancora le attanagliava lo stomaco e le contorceva le budella, impedendole di respirare e ragionare e...

 

… la terra le mancò improvvisamente da sotto i piedi. Le parve di cadere nel niente. Gridò di nuovo, finché non si sentì schiacciare contro qualcosa di morbido e traballante. Tentò di muovere i polsi, ma qualcosa li teneva immobili a mezz'aria. Le gambe pesanti, come attirate da una forza di gravità centuplicata.

“N-Natasha! Guardami!”

Lo scrollone che ricevette le provocò una fitta di dolore all'avambraccio destro.

“Natasha!”

Il secondo le fece riaprire gli occhi, improvvisamente consapevole di averli tenuti chiusi fino a quell'istante. Il volto di Clint prese lentamente forma davanti a lei, linee confuse che si fecero sempre più definite. Natasha inspirò quasi violentemente, un sordo dolore a riempirle il petto. Rimase immobile, come sospesa per quella che le parve un'eternità, il cuore impazzito, i muscoli dolorosamente contratti, i nervi tesi fino all'inverosimile...

Inorridì non appena si rese conto che Clint la stava tenendo immobilizzata al materasso con il peso del proprio corpo, la sua espressione un misto indecifrabile di sorpresa e preoccupazione. Quattro solchi rossi gli attraversavano un lato del collo, fino a sparire nello scollo della maglia che indossava... qualcosa le disse che era stata lei a tracciarli.

Non riuscì ad emettere alcun suono, ma ebbe il buonsenso di rilassarsi completamente – operazione che richiese tutta la sua concentrazione – sciogliendosi contro il letto, braccia e gambe improvvisamente molli. Clint non si trattenne un secondo di più: sentendo mancare ogni tipo di resistenza la lasciò andare, scivolando via dal letto.

Il materasso tremò non appena si fu liberato del suo peso.

“Ti senti bene?” Gli sentì chiedere in un tono che non gli aveva mai sentito usare. “Ti s-sei... ti sei improvvisamente messa ad urlare.”

Davvero l'aveva fatto?

Fece uno sforzo immane per rimettersi seduta. La testa le girava mentre, con una mano, cancellava la patina di sudore freddo che le ricopriva la fronte.

 

***

 

Chiusasi nel piccolo, disgustoso bagno della stanza, Natasha si appoggiò al lavandino con entrambe le mani. Si sostenne come meglio riuscì, sentendo le braccia pesanti e anchilosate.

Gli eventi della giornata precedente si fecero avanti uno ad uno nella sua testa.

Pyongyang, la corsa sui tetti ricoperti di cemento scadente e lamiere di metallo arrugginite, il Soggetto Zero, il presunto super soldato che lo SHIELD li aveva mandati ad intercettare per comprenderne la natura.

Stroncare sul nascere il folle progetto di un manipolo di scienziati privi di scrupoli, finanziati da chissà che sezione fantasma del governo nordcoreano, era questo che avrebbero dovuto fare. Investigare, intercettare, colpire. Le informazioni che avevano ricevuto, però, erano talmente frammentarie e generiche da essere inutilizzabili. Lo SHIELD aveva chiesto loro di fare l'impossibile e avevano fallito.

Erano riusciti a trovare rifugio nella stanzetta minuscola e claustrofobica di un albergo a ore. Tutto, dall'arredamento fuori moda, alle tre diverse carte da parati che ne ricoprivano i muri, appariva come il recesso di un'epoca trascorsa da venti, trenta, quarant'anni. Varcarne la soglia era stato come uscire da una macchina del tempo. Il letto aveva bisogno di un nuovo materasso, di una nuova struttura... aveva bisogno di essere un letto nuovo, così come il resto della stanza avrebbe beneficiato di un rinnovo.

Il Soggetto Zero era riuscito a fuggire al termine di un inseguimento che li aveva tenuti occupati la maggior parte della giornata. Era stata Natasha ad individuarlo per prima, l'aveva affrontato, finendo per pagare il prezzo più alto di quel fallimento. Per questo Clint si era offerto di occuparsi del turno di guardia, per permetterle di dormire e riacquistare le energie.

Natasha non aveva neppure provato ad accennare una protesta: aveva accettato di buon grado la proposta, ed era sprofondata in un sonno tanto rapido quanto tormentato.

La paura, il disappunto per la missione fallita, la vergogna di essere stata messa al tappeto, il cieco terrore che la solita vecchia storia dei super soldati le instillava, si erano rivelati essere un cocktail letale per la sua psiche. C'era stato un periodo in cui, svegliarsi durante la notte con le lenzuola appiccicate alla pelle sudata, le proprie grida a rimbalzare tra le pareti, era praticamente la regola. Ma erano passati mesi, forse anni dall'ultimo episodio. La consapevolezza che, in fondo, quei tempi non se n'erano mai andati, la fece infuriare.

Inspirò a fondo, provocandosi una fitta di dolore al petto. Si costrinse ad espirare, rialzando lo sguardo sul piccolo specchio dall'aria instabile appeso con un chiodo al di sopra del lavandino. La luce traballante e verdognola dell'unica lampadina della stanza, conferì un'aria malsana al suo riflesso. Un brivido le scivolò giù per la schiena, riportandola per un istante all'ambientazione infernale del suo incubo. Guardò altrove in fretta e furia, sciacquandosi il viso con entrambe le mani. Si asciugò con un lembo della maglietta che indossava, evitando accuratamente di incrociare di nuovo il proprio sguardo riflesso.

Clint, riusciva a sentirlo, era appostato fuori dalla porta del bagno. L'aveva guardata scendere dal letto e si era sforzato di non fare domande. Eppure, Natasha sapeva di non potersi sottrarre ai suoi occhi, non per sempre. Erano una squadra, non era questo l'argomento che aveva usato con lui sul tetto di quell'edificio di Dublino solo qualche settimana prima? Il ragionamento non le lasciava scampo.

Tentando di non apparire come la condannata al patibolo che si sentiva d'essere, Natasha raccolse il poco coraggio e la scarsa lucidità di cui disponeva e uscì dal bagno.

 

***

 

Strappò l'involucro di una salvietta disinfettante e gliela passò sul collo ferito con un gesto brusco. Sentì i muscoli delle sue spalle tendersi in segno di protesta sotto le proprie dita. Le rimostranze di Clint si limitarono a quell'impercettibile, involontaria reazione. Non aveva fatto domande quando l'aveva costretto a sedersi sul letto per permetterle di andare a recuperare il kit di pronto soccorso dalla loro attrezzatura abbandonata tra il letto e il comodino. Non le aveva chiesto se fosse tutto a posto, non aveva preteso spiegazioni e di questo gliene era grata. Focalizzò sul battito cardiaco che le rimbombava nelle orecchie a cadenza sempre più regolare, lasciando ticchettare via il tempo.

“Ci pensi mai”, riprese dopo qualche minuto, spezzando il silenzio che faceva loro compagnia, “a chi saresti se non fossi... q-quello che sei?”

Si maledisse per quella stupida incertezza, quel tentennamento che sentì trasparire dalla propria voce. Si concentrò sulla ferita di Clint e scacciò via il senso di disagio. Gli occhi di lui sembravano lasciare un'impronta bollente sul suo viso, proprio lì nel punto in cui si erano posati. Evitò di guardarlo, ma riuscì a percepire la sua attenzione, il rumore dei suoi pensieri mentre rifletteva sulla risposta da darle.

“Faccio quello che faccio perché sono quello che sono”, dichiarò dopo essersi umettato le labbra. “Suona un po' stupido,” confessò poi, a mo' di scusa, “ma per fare cose diverse, sarei dovuto essere una persona diversa. E io... io sono solo Clint, suppongo”. Si strinse nelle spalle, evidentemente poco convinto della formulazione.

“Non suona stupido”, dichiarò seccamente Natasha, pentendosi del tono asciutto e sferzante che aveva usato. Si morse l'interno delle guance fino a farsi male. “E se...” lasciò la frase in sospeso, serrò le labbra, concentrandosi sul sapore del sangue che le aveva riempito la bocca, familiare e confortante. Rimase in silenzio a lungo, recuperando una benda adesiva della giusta misura dal kit. L'applicò con mani straordinariamente ferme sul collo di Clint, facendone aderire i bordi alla pelle. Fu soddisfatta solo quando ebbe finito.

Un giramento di testa improvviso la costrinse a mettersi seduta al suo fianco, le unghie arpionate al copriletto antidiluviano – di un'orribile fantasia beige e marrone - come per paura di capitombolare a terra.

“Che succede se ti hanno... s-se ti hanno privato così tante volte d-di te stesso da non saper più cosa s-sei tu e cosa... c-cosa non sei”, mormorò in un soffio, appena udibile, tanto che non fu sicura di aver parlato finché non sentì Clint irrigidirsi accanto a lei. “Che succede quando non distingui tra cosa sei tu e cosa... cosa t-ti hanno fatto diventare gli altri?”

Si voltò impercettibilmente verso di lui, rivolgendogli uno sguardo carico d'aspettativa, come nella speranza di vedersi rivelate le verità dell'universo, dal niente, in una squallida stanzetta d'albergo, nel bel mezzo di una notte asiatica umida e afosa.

“Non lo so”, ammise Clint a voce altrettanto bassa, un'aria triste e desolata insieme sul volto, come per chiederle perdono di non avere proprio nessun asso nella manica per farla sentire meglio. “Non conta quello che sei... conta quello che decidi di essere”, finì per dire, una nota di vaga soddisfazione nella voce.

Le sue parole rimasero sospese nell'aria. Natasha, inspiegabilmente, si mise a ridere.

“In che film l'hai sentita questa?” Domandò a metà tra il perplesso e il divertito, ignorando il dolore alle costole che i sussulti improvvisi le provocarono.

“Forse era uno dei Karate Kid”, bofonchiò lui, oscillando tra indignazione e ilarità, fino ad optare definitivamente per la seconda.

“Metti la cera, togli la cera?” Azzardò lei, ripescando il riferimento da chissà dove, chissà quando. Clint le rivolse un'occhiata esageratamente impressionata. “Non sei divertente”, lo ammonì prima che potesse fare un qualche commento ridicolo a riguardo, stroncando il suo shock sul nascere.

I silenzi, tra loro, avevano smesso di essere scomodi da qualche tempo. Natasha non si era accorta di quando fosse successo... era capitato e basta. Per questo non sentì il bisogno di parlare quando i secondi cominciarono a dispiegarsi gli uni dopo gli altri, senza che nessuno dei due dicesse proprio niente. Finché Clint non dette un colpo di tosse, come per schiarirsi la voce.

“Non puoi cambiare quello che ti è successo”, dichiarò con una certa sicurezza. Era, dopotutto, un dato di fatto. “Quello che puoi fare è... cambiare te stessa, il tuo presente”, lanciò un'occhiata alla parete ricoperta di fiori tropicali scoloriti che avevano davanti, “sempre che tu ne senta il bisogno”. Arricciò le labbra e valutò per un istante il da farsi. Sorrise, forse ad un pensiero che gli passò inaspettatamente per la testa, dopodiché si voltò verso di lei.

“Fossi in te non cambierei niente”, sentenziò solennemente, prima che la sua espressione non si facesse inaspettatamente corrucciata. “Bè, fossi in te sarei un po' più gentile nei riguardi del sottos – ouch!”

Natasha ritirò la mano con cui l'aveva appena colpito alla spalla.

“Sono dolce, simpatico ed educato. Un vero gentiluomo! Non mi merito tutto questo!”

“Continua e deciderò io cos'è che ti meriti esattamente.”

“E scommetto che, di quelle cose, non me ne piacerà neppure una.”

“Probabilmente.”

“Una vedova nera non dovrebbe almeno irretirmi prima di colpire?”

“Ho deciso di passare direttamente alla fase successiva. Per non perdere tempo.”

“Sei una donna deliziosa.”

“Che tu ci creda o no, non sei il primo a dirmelo”, specificò, ostentando un'aria artificiosamente infastidita.

“Non stento a crederlo”, la occhieggiò con l'aria di chi sta dando ragione ad una matta pur di farla stare zitta. Natasha ricambiò il suo sguardo per quello che le parve un secondo di troppo. Nonostante la penombra della stanza, Clint le appariva come l'uomo solido e resistente che le era sempre sembrato. Avrebbe messo la propria vita nelle sue mani, realizzò, come folgorata, mentre fissava la propria attenzione sulla lampada priva di spina che faceva capolino da dietro l'unica anta dell'armadio di legno laccato che si teneva miracolosamente in piedi vicino alla porta d'ingresso.

“Ti hanno cambiata, ma non ti hanno potuto impedire di ribellarti”, Clint aveva ripreso a parlare. “Quella sei stata tu.” Si strinse nelle spalle, indeciso. “Ha importanza, comunque?”

Ce l'aveva? Aveva importanza che la sua immagine, la donna che sarebbe potuta essere se non fosse diventata la Vedova Nera, le facesse visita nei propri incubi? E la consapevolezza di averla uccisa, quella possibile donna, non doveva forse avere una qualche rilevanza?

Non ne era più tanto sicura. Di una cosa però era certa: non poteva cambiare niente di tutto ciò. Quella persona se n'era andata, non esisteva e non sarebbe mai esistita. Ci si poteva sentire a lutto per la perdita di una persona immaginaria?

Lanciò un'occhiata di sottecchi a Clint, apparentemente molto interessato al palmo della mano con cui era solito scoccare le sue frecce.

La Natasha che ti conosce mi piace di più di quella che non ti conosceva, pensò, senza trovare però il coraggio di dirlo ad alta voce.

Inspirò a fondo, sul punto, forse, di aggiungere qualcosa quando un bip non li colse entrambi impreparati.

Natasha si alzò dal letto, correndo a recuperare il dispositivo GPS dalla sua attrezzatura. Lo schermo aveva improvvisamente preso vita, segnalando la posizione del Soggetto Zero, un pallino rosso in movimento su una ragnatela di strade verdi. Aveva cercato di mettergli il rilevatore addosso durante il loro faccia a faccia, ma era convinta di aver fallito.

Almeno fino a quel momento.

Clint l'aveva raggiunta, studiando la piccola mappa al di sopra della sua spalla. Incontrò il suo sguardo, adesso determinato.

 

Andiamo a prendere questo gran figlio di puttana.”

 

___________________________________

 
N.d.A.: stiamo per avvicinarci al "giro di boa". Qualche scommessa per la prossima città? ;) Grazie a chi è arrivato fin qui. Alla prossima!
  
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