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Autore: SofiaAmundsen    25/09/2013    3 recensioni
Quegli occhi raccontano una storia che nessuno vuole ascoltare. Raccontano una storia triste, di persone che hanno sofferto e non sono state ascoltate.
Te ne accorgi mentre li guardi muoversi felini sul suo volto, nel buio di una notte fredda a Londra. Nessuno ha mai ascoltato quella storia, lo capisci dalla sua espressione: distante, fredda, gelida. Sembra quasi che lui non abbia mai parlato con nessuno, eppure quelle labbra deve averle mosse, almeno una volta.
Non l’hai notato subito, lo ammetti. Ma tu lavori al cafè della stazione, fai turni lunghi per riuscire a pagarti il posto misero in cui vivi, vedi milioni di persone ogni giorno, che partono senza lasciare niente, che vengono da te senza guardarti negli occhi, che non vedono l’ora di lasciare quel posto, perché che stiano andando o che stiano tornando, un viaggio è sempre qualcosa che ti divide da qualcuno.

John lavora alla stazione. È un lavoro estenuante, noioso. Poi un giorno si accorge di un ragazzo solitario, assorto nei suoi fogli di carta, con due profondi occhi azzurri che sembrano raccontare una storia.
Teen!lock AU!Station
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La stazione non è un luogo particolarmente luminoso. Anzi, è un posto piuttosto buio.              
 
Non per assenza di luce, non buio come la notte o come quando in casa tua andava via la luce perché tua madre aveva dimenticato – o finto di dimenticare- di pagare la bolletta. La luce, in effetti, c’è: quella delle vetrine dei negozi, piccoli fari che dipingono il consumismo di un bel volto, in un moderno Ritratto di Dorian Grey, quella delle lampade a risparmio energetico che troneggiano su tutta la struttura, quella dei monitor che guidano i passeggieri più distratti nel loro lasciare e tornare. Ma tu non hai mai considerato luce quell’innaturale prodotto di incandescenza. Per te la luce è quella del cielo, quel genuino bagliore che illumina il mondo, come quando il sole ti accarezza la pelle in giornate troppo calde per apprezzarle, come quando, invece, si nasconde timido dietro le nuvole e lascia che queste filtrino il suo splendore. Quella parvenza di luce, ingannatrice e simulatoria, che ti lascia il buio dentro e non scalda nulla, non l’hai mai valutata tale.
 
Se a Londra la luce è un bene raro, in quella stazione è quasi il Sacro Graal. Per questo non ti piace lavorare lì, tra le altre cose: riesce a metterti di malumore anche solo con la sua natura cupa. Ma in ogni notte scura ci sono stelle ad illuminare. Sporadiche, forse, tanto da farti dubitare della loro esistenza, ma prima o poi ne vedi una così splendente da sovrastare tutta l’oscurità che hai ingoiato fin ora e farti ricredere sul giudizio critico che hai dato al mondo. Questo sono stati i suoi occhi tra quella monotonia opaca: uno spiraglio scintillante che ha illuminato a giorno i tuoi momenti.
Sono brillanti anche mentre parla, brillanti d’intelligenza, e tu perdi qualche parola quando quella luce ti assorbe e anestetizza tutti i tuoi sensi.
 
Un’ombra si pone sopra di voi ed essi si incupiscono solo un poco di fronte a quel cambiamento di luce. Non un’ombra di scura interiorità, ma un’ombra tale in quanto assenza di luce. La forma allungata di un momento più scuro di mondo si protrae su di voi e supera i vostri sorrisi e i vostri volti, dilatandosi fin dove non riesci a vederla. Non sai perché, ma ti sembra un presagio.
Proprio per questo alzi lentamente la testa sull’ostacolo tra voi e la luce, complimentandoti momentaneamente con te stesso per l’intuizione esatta. Il direttore della stazione ti sta fisando con i suoi occhi scuri e incavati nella pelle tendente al violaceo delle occhiaie, le braccia incrociate sul petto, sopra la giacca nera e sgualcita. La sua espressione è una fusione preoccupante di collera e biasimo e tu, per qualche attimo, ti senti tanto Hugo Cabret. [1]
 
«Watson, cosa diavolo ci fai qui?!» ti urla contro. La vena sul suo collo si gonfia pericolosamente quando ti urla contro e tu ti trovi a pensare che non saresti poi così dispiaciuto se scoppiasse.
 
Non rispondi: hai imparato che l’unica via utile con quell’uomo è lasciare che si sfoghi senza interromperlo.
 
«Alla tua postazione è pieno di gente che aspetta e tu sei qui, a fare cosa? Conversazione?!»
La vena pulsa ancora e tu sei quasi troppo concentrato su quella per ascoltare la serie di rimproveri che ti aspettano.
 
«Sei un maledetto nullafacente, ragazzino, e ti licenzierei se non fossi troppo impegnato per cercare un altro perdigiorno come te!»
Pensi che giocare tutto il giorno a poker su internet non sia qualcosa di così inderogabile, me tieni la bocca chiusa e la possibilità di lavorare ancora aperta.
 
«Adesso muoviti, vai al tuo posto! Subito! Prima che io…»
 
«Prima che lei rischi di dover cenare di nuovo da sua madre, questa sera, ascoltando storie su quanto sia incredibile la scalata al successo di suo fratello minore?»
La voce di Sherlock risuona profonda nella confusione della stazione.
 
Ti volti immediatamente verso di lui, quando inizia a parlare, rivolgendogli uno sguardo sorpreso che diventa confuso e preoccupato quando l’eco delle sue parole arriva alla tua comprensione. Muovi rapidamente le pupille dal suo viso – l’espressione sfacciata, beffarda, sicura – a quello del tuo capo, che lo guarda con la bocca leggermente aperta e la pelle ancora rossa per l’indignazione: sembra essere indeciso se infuriarsi ancora di più o cercare di capire cosa gli è stato appena detto. Non sai quale delle due causerebbe meno danni.
 
«Che cosa hai detto, ragazzo?»
 
Ora che lo guardi sputacchiare mentre inveisce contro Sherlock, ti sembra più spaventato che altro.
Lui, però, non sembra accennare a una risposta, semplicemente mantiene lo sguardo penetrante e sfrontato sul viso dell’uomo e tu inizi a sudare per entrambi, divorato dalla tensione per la prossima reazione del capo che, a giudicare dalle dimensioni ormai preoccupanti della vena, non sarà lieve.
 
«Chi cazzo sei, eh? Ti ha mandato quella stronza?» sbraita il dirigente.
 
«Se si riferisce a sua moglie no, non ho avuto il piacere di incontrarla, e per piacere intendo… Comunque, il mio nome è Sherlock Holmes.»
 
L’uomo sembra metterci qualche secondo ad assimilare le informazioni, prima di ricominciare a apostrofare Sherlock, chinandosi leggermente in avanti e gesticolando in modo potenzialmente pericoloso.
 
«E allora che ne sai di mia moglie e di mio fratello?!»
 
«Sua moglie non l’ho nominata io, ma lei, con l’elegante epiteto che le ha attribuito. Io inizialmente ho parlato solo di sua madre e suo fratello, ma grazie per la conferma.»
 
«Conferma?» sembra sempre più confuso.
 
«Conferma al fatto che queste informazioni me le abbia date lei, anche se non consapevolmente. Mentre parlava le è vibrato il cellulare nella tasca, ha avuto un attimo di esitazione, ma ha continuato a parlare, ignorandolo, come se sapesse già chi fosse. La sua voce si è però alzata di volume e tonalità: qualcuno che tende a farla alterare, dunque, e che probabilmente la sta chiamando per litigare. Le possibilità sono limitate: capo, moglie, parenti stretti. È il direttore della stazione, quindi ha occasione di vedere il suo superiore solo in occasioni di controllo e aggiornamento, e a giudicare da come si rivolge agli impiegati, non deve essere un tipo particolarmente opprimente. Indossa una fede, ma le stringe sull’anulare. Significa che non le interessa abbastanza di quel simbolo, e quindi della persona che rappresenta, da farla allargare da un gioielliere, ma continua a metterla, perché altrimenti sua moglie si lamenterebbe e lei, a giudicare dalle occhiaie e dal pollice sinistro, è stanco di sfogare le tensioni con il porno online.»
 
Il silenzio profondo e consapevole cala tra di voi, tutto è improvvisamente immobile. Tu hai persino smesso di temere per la reazione del capo, hai quasi dimenticato che sia lì, affascinato e carico di stupore come sei. Guardi Sherlock con tutta la meraviglia e l’incredulità negli occhi, la confusione per quello che hai sentito, l’ammirazione per le sue parole fluenti. Cerchi di capire, di apprendere, di assimilare. Tu sai che quello che ha detto è tutto vero, i pettegolezzi ti arrivano anche quando sono l’ultimo dei tuoi interessi, in quel posto, ma lui come lo sa?
Il tuo sguardo esita ancora incerto e interrogativo sul suo volto, sulla sue espressione naturale e tranquilla, come se non avesse detto niente di straordinario, mentre nella tua testa tutte le domande si intrecciano, si ingoiano e si rispondono, circolando insieme intorno a un’unica parola:
 
«Fantastico!»
 
Lui si volta verso di te quando la pronunci – l’hai davvero detta a voce alta? Non te ne sei neanche accorto! – e ti guarda a metà tra il divertito, il curioso e, forse, il lusingato.
 
Esita un attimo, sembra non sapere che dire e ora, come mai prima, ti appare giovane, un ragazzino: senza quella maschera di freddezza e indifferenza indosso, con un sorriso semplice comparso sul viso, dimostra un’età che non concorda con la sofferenza inespressa nei suoi occhi.
 
«E questo che c’entra con mia madre e mio fratello?»
 
I toni rudi e sempre più in bilico tra l’alterato e il confuso dell’uomo in divisa interrompono il momento  e la naturalezza di Sherlock ti sfugge, di nuovo. Il ragazzo torna a nascondersi dietro la sua patina di ostentata superiorità e a fissare l’uomo, quasi con disprezzo.
 
«La sua giacca è sgualcita e ha una macchia sotto la manica destra, caffè probabilmente, oltre alle chiazze di sudore. La camicia invece è pulita, i polsini sono ben stirati e il colletto ha una piega fatta con attenzione. Indossa sempre quella giacca sul posto di lavoro, ne ha solamente una perché probabilmente le divise sono a vostro carico e lei ha preferito tenere i soldi per qualche gioco online o chat erotica di bassa qualità. Dovrebbe lavarla nel giorno libero, ma evidentemente non l’ha fatto, a giudicare dagli aloni: devono essere lì da molto più di una settimana. Perché non l’ha lavata? È probabile che non voglia farlo da solo, è troppo pigro o non è capace, ma sua moglie non se ne è preoccupata e forse lei non glie lo ha neanche chiesto, proprio perché non è un buon periodo, o non lo è mai stato. Di camicie invece ne ha più di una, ma se non c’è nessuno che glie le lava finirebbero per essere sempre sporche come la giacca e lei non ne metterebbe una pulita ogni giorno, o farebbe comunque molta attenzione a mantenerla limpida il più possibile, mentre la sua ha il polsino umido a lato: non si è tirato su le maniche quando si è lavato le mani, il che significa che non le ha arrotolate neanche per pranzare. Non le porta in lavanderia, troppo costoso, e neanche in quella a gettoni, non sarebbero così ben stirate. Quindi c’è qualcuno che lava per lei. Non un’amante, non sarebbe così arrabbiato con sua moglie se avesse un’altra donna: il senso di colpa anestetizzerebbe la collera. Sua madre, dunque.»
 
Dalla tua bocca esce un sospiro di soddisfazione e sbigottimento, un versetto gutturale che non riesci a trattenere.
 
«Incredibile!»
 
Sono di nuovo le tue parole che sfuggono al tuo controllo. È di nuovo la sua espressione che si fa sincera, timida, infantile. Questa volte dura qualche secondo di meno, il suo sguardo si abbassa quasi subito dal tuo volto e torna gelido su quello del dirigente.
Sembra stia per parlare di nuovo, per finire la sua radiologica descrizione, ma viene interrotto dall’impeto violento delle parole abbaiate del tuo capo. Probabilmente neanche si rende conto di quanto stia urlando, o del fatto che un paio di passanti vi stanno fissando senza neanche sforzarsi di fingere il contrario.
 
«Senti ragazzino» inizia, e la sua mano va al colletto del cappotto di Sherlock.
 
Qualcosa scatta in te. Non sai cosa, senti solo la rabbia salirti dentro, come se il tuo esofago fosse fatto di scale e il fiume in piena della tua collera le stesse ignorando per arrivare immediatamente all’apice. Ti alzi in piedi e prima che la parte razionale di te possa fermarti hai le mani sulla giacca del direttore, ne stringi forte la stoffa consumata. Non la strattoni, ma la presa vigorosa con cui la tieni è sufficiente a far irrigidire l’uomo, supportata dal tuo sguardo iracondo a pochi centimetri dal suo viso.
 
«Non lo tocchi» sussurri appena, con una voce che è solo rabbia e non sembra neanche la tua, una voce che sembra l’ira stessa.
 
Ti guarda spaventato, gli occhi scuri indecisi titubanti nelle orbite. Sei più basso di lui, eppure è tanta l’energia con cui lo tieni che quasi lo sollevi. Per dei lunghissimi secondi ti dimentichi chi sei, le tue nocche che diventano bianche, il tuo sguardo che diventa nero, riesci solo a percepire il desiderio di picchiare quel bastardo che ha osato toccare il tuo Sherlock.
È questo pensiero che ti fa tornare in te. Sherlock non è affatto tuo. Neanche lo conosci, anche se hai la sensazione di aver capito e amato la sua anima in tutte le tue vite precedenti. Stai per picchiare il tuo capo – probabilmente, sicuramente perderai il lavoro per questo – per  difendere qualcuno che neanche conosci, con cui hai parlato per la prima volta qualche minuto fa. Improvvisamente ti senti stupido.
 
Esiti ancora, poi lo lasci andare e abbassi lo sguardo. Con la coda dell’occhio getti lo sguardo verso Sherlock, ma da quella prospettiva non riesci a vedere che espressione sta facendo. Forse anche lui pensa che sei stupido.
 
L’uomo si sistema la giacca, tirandola da sotto per farla tornare alla sua posa originaria. Vorresti essere in tutti i luoghi del mondo, anche in una caverna popolata da animali feroci di qualche entroterra africano, ma non lì. Il mondo, però, le persone, ti sorprendono sempre, nel bene, nel male.
 
«Torna a lavorare, Watson» dice semplicemente, con una voce fintamente autoritaria che però lascia trasparire un leggero tremore.
 
Ora hai il coraggio di alzare lo sguardo e ti accorgi che la sua espressione è ancora terrorizzata. Probabilmente non si aspettava una reazione del genere: tu sei un tipo molto tranquillo, a malapena rispondi quando qualcuno ti provoca. Probabilmente neanche tu ti aspettavi una razione del genere.
Gira i tacchi e se ne va, lasciandoti con un sorrisino soddisfatto sul volto che dipinge di ilarità tutto il fatto. Ti senti meno stupido e più fiero di te, ora che lo vedi allontanarsi con la coda tra le gambe verso il suo ufficio.
 
Il tuo divertimento sparisce, insieme alla tua espressione compiaciuta, quando ti ricordi di Sherlock. È dietro di te e senti il suo sguardo bruciare sulla tua schiena. Che cosa penserà, ora, di te? Uno sconosciuto che rischia la propria faccia e il proprio lavoro per un altro sconosciuto? Per lui? Crederà che tu abbia fatto quel gesto solo per apparire ai suoi occhi? Una parola suona ancora ridondante nella tua testa: stupido.
 
Ti volti lentamente, senza però alzare lo sguardo dal pavimento. Quando sei completamente rivolto verso di lui ti azzardi a sollevare leggermente lo sguardo, lasciando la testa ancora inclinata.
Sta sorridendo. Non sta ridendo di te, sta sorridendo. Divertito, come se la situazione fosse di suo gradimento. Allora alzi la testa e lo guardi davvero. Sorridi anche tu, ma non te ne accorgi davvero. Sembrate così complici, con i vostri sguardi e le vostre risate nascoste, che cominci a credere davvero nell’idea della reincarnazione.
 
«Bella mossa, dottore» ti dice ancora sorridendo, non con le labbra, ma con gli occhi: le piccole rughe d’espressione intorno alle sue ciglia sembrano disegnate d’allegria.
 
Ridi. Il tono con cui l’ha detto, ironico sì, non di scherno, ma confidenziale, gioioso, entusiasta, ti fa illudere di aver quasi conquistato un piccolo indizio per la via labirintica della sua personalità, nascosta in quegli occhi cangianti. Poi rifletti un attimo, e ti fai serio. Dottore?
 
«Come sai che studio medicina?» chiedi sorpreso.
 
Lui si alza e stira il lungo cappotto con le mani, in un gesto elegante e naturale. Si volta per chinarsi a raccogliere i suoi fogli sulla sedia e tu ti soffermi un attimo  di troppo sulla sua figura allungata, mentre è di spalle, tanto che quando si girà il suo sguardo è di finto biasimo e il tuo di nuovo imbarazzo, le guance ormai arrese al consono rossore.
 
Si avvicina di un paio di passi ed ora è decisamente a troppi pochi centimetri da te. Almeno così la pensa il tuo cuore, che bussa indignato al tuo petto, troppo veloce, troppo affannato. Non respiri, ma l’apnea è l’ultimo dei tuoi pensieri in questo momento.
 
«Alla prossima volta, John Hamish Watson» dice semplicemente, con una voce che potrebbe essere più profonda e allusiva.
 
Poi se ne va, ondeggiando il suo cappotto, finché i ricci neri non scompaiono tra la folla e tu rimani solo, al centro di una rete di gente che incrocia inconsapevolmente le traiettorie altrui.
 
Il tuo nome non ti è mai sembrato un suono così ammaliante.  
 
 
 
 
 
 
 
 
C’è un uomo seduto sulle panche di fronte ai binari, mangia il cornetto che gli hai venduto pochi attimi prima. Sta giocando con una moneta: la lancia, la lascia cadere e quando è quasi troppo tardi, la riprende nel palmo della mano. Lo osservi. Non lo fa ritmicamente, ogni volta la moneta sembra salire più in alto e metterci più tempo a scendere, ogni volta sembra passare qualche secondo in più o in meno dall’ultimo lancio. L’unica costante nel suo svago senza scopo è un sospiro. Ogni tre lanci, le sue spalle sono più curvate verso l’interno, il suo capo più chino, il suo sguardo più basso, mentre la schiena si solleva più del solito e si sgonfia in una nuvoletta che immagini uscire dalle sue labbra screpolate. Poi riprende a tirare la moneta: nessuno ha ascoltato quel sospiro.
 
Più in la, una donna legge un giornale. Potrebbe essere un giornale di moda, a giudicare dalle immagini di borse e scarpe appariscenti che occupano intere pagine, ma non sei abbastanza vicino per esserne certo. La guardi meglio e sai che sì, non può che essere un giornale di moda. Indossa un completo color crema, la gonna attillata sopra il ginocchio, la giacca chiusa sul davanti, che lascia comunque spazio ad una camicia sofisticata. La borsa firmata troneggia accanto a lei, nella sua forma elegante. Sfoglia distrattamente la rivista e di tanto in tanto si sofferma a leggere qualche pagina, apparentemente concentrata. Quando però qualcuno le passa accanto, o accenna a sedersi vicino a lei, il suo sguardo si fa vigile e attento: solleva gli occhi su chiunque le si avvicina e tutto in lei trasuda speranza e supplica allo stesso tempo. C’è qualcosa di intenso nel modo in cui si lascia distrarre dal mondo di passaggio, da come cerca di catturarne una parte, quasi si aspettasse davvero di trovare qualcosa in quel via vai di gelida noncuranza, di trovare qualcuno che ricambi il suo sguardo.
L’indifferenza le arriva addosso puntuale e lei torna a sfogliare pagine fredde.
 
Un’adolescente è appoggiata a una delle colonne, sotto al numero che indica il binario. Ti chiedi perché sia in piedi, visto che c’è una sedia libera accanto a un’anziana signora che cerca nella borsa qualcosa di perduto, forse i suoi ricordi. Il dubbio dura un secondo, ti ricordi subito della stupidità di gente in piedi per ore, nell’attesa del proprio lasciare, che deforma la valigia con il peso della stanchezza piuttosto che sedersi accanto a sconosciuti che hanno sempre qualcosa che non va: troppo scuri, troppo strani, troppo soli. Che follia. Ha il cellulare in mano, le cuffiette nelle orecchie e scorre distrattamente con il dito sullo schermo touch. Con la mano sinistra, avvolge un riccio castano intorno al suo indice. Probabilmente lo fa in modo inconscio, ma è carina in quel gesticolare infantile, qualcuno dovrebbe dirglielo.
Mette il telefono nella tasca della felpa, senza togliere le cuffiette e inizia a mordersi le unghie, forse per passare il tempo, forse per l’ansia dell’attesa. Qualche attimo dopo, lo tira di nuovo fuori, lo guarda distratta e lo rimette nella tasca. Non passano molti secondi prima che lo faccia ancora, e ancora: il suo sguardo si fa sempre più deluso.
 
Lavorare in quel posto ti ha insegnato ad osservare. Ti ha insegnato a prenderti gioco della noia, del tempo e della fatica, unendo i puntini tra le persone, come in un complicato gioco enigmistico. Trovare le differenze, le somiglianze. Come fai ora, li guardi e riesci a vedere solo un aspetto, il loro minimo comune denominatore: la solitudine. Sono tutti così soli, nel loro tentare di allontanare gli altri ma cercarli implicitamente, e tu lo percepisci forte e chiaro proprio perché sei come loro. I luoghi alienanti ti lasciano come un corpo senz’anima che vaga tra muri tutti uguali, in strade che puzzano, tra gente morta che si tracina per inerzia: non hai mai davvero capito davvero cosa intendesse Dickens finché non hai iniziato a lavorare lì. Nella tetra impassibilità di quel posto, non sei che un elemento fuso con le mura, con i binari, con lo sbuffo dei treni. Non conti, come non conta nessuno in un luogo che è solo funzionale e mai dilettevole, così hai modo di sentirti solo, senza che nessuno se ne accorga.
 
Prendi una lattina di Coca-Cola dal frigo, fai scattare la linguetta, guardi qualche bolla fuoriuscire per poi spegnersi e ascolti i suoni che fa tutto il processo. Tac. Tdssss. Ci appoggi le labbra sopra, senza pulirla, e ne bevi un lungo sorso. Avevi dimenticato che sapore avesse una vera bibita frizzante, a differenza delle disgustose imitazioni del discount. Bevi un altro sorso e socchiudi gli occhi. Apprezzare le piccole cose è il tuo modo di evadere.
 
Quando torni a divorare il mondo con le iridi celesti lo sguardo ti cade in un angolo tra due mura imbrattiate. Lo conosci quell’angolo e sai che non è solo tale: per qualcuno è casa. Josh è forse l’unica persona con cui hai parlato per i primi due mesi in cui hai lavorato lì, un barbone sincero, gentile, sorridente, pur con un sorriso quasi vuoto e nessun motivo per sorridere. Gli sei accidentalmente andato addosso una volta, preso dal tuo ritardo: hai gridato un sorry strozzato mentre continuavi a camminare veloce, senza neanche voltarti, poi invece ti sei fermato – chissà cosa ti ha fatto cambiare idea. Hai guardato indietro, c’era un corpo nascosto tra stracci e in quel corpo c’erano due occhi velati. Si massaggiava con le mani un piede avvolto in dei panni, probabilmente quello che avevi urtato tu, poi una donna nei suoi tacchi bassi gli era passata abbastanza vicino da poterlo sentire, con le orecchie, non con il cuore, e lui aveva abbandonato il piede per allungare una mano graffiata, sporca e callosa verso di lei, sussurrando qualcosa che non eri riuscito ad ascoltare e che lei aveva ingoiato con la sua indifferenza.
L’aveva guardata con quegli occhi che ti avevano stretto un po’ il cuore, occhi nocciola senza desiderio di compassione, ancora fieri forse, dietro quella patina lucida di dolore e umiliazione, densa e sofferente tanto da colpire te, sconosciuto in un luogo di sconosciuti. Sei tornato indietro e ti sei piegato sulle ginocchia davanti a lui, per permettergli di guardarti negli occhi, per dimostrargli che non merita di essere guardato dall’alto in basso.
 
«Mi dispiace, ti sono venuto addosso poco fa» hai detto piano.
 
Per un attimo, hai visto il terrore nei suoi occhi, poi è svanito dietro un sorriso. Un sorriso fatto di labbra secche e spaccate in diversi punti, circondate da pelle rugosa e raggrinzita, fatto di denti radi e marci, neri, spezzati. Uno dei più bei sorrisi che ti abbiano mai dedicato.
 
«Non ti preoccupare ragazzo, corri pure a divertirti» era stata la sua risposta sincera e tu l’avevi ascoltata nel tuo stupore. Chi non ha avuto niente sa perdonare, non l’avresti mai detto.
 
La tua mano era rimasta tesa per un po’ prima di essere stretta.
 
«Piacere, io sono John».
 
Il suo sguardo era così sorpreso che ondeggiava tra il curioso e lo spaventato. Non deve capitargli spesso di fare amicizia, avevi pensato. Alla fine aveva stretto la tua con la sua mano rovinata. Ignorare la sensazione disgustosa di quel contatto ti era costato un po’: appiccicoso, maleodorante, incallito.
 
«Ciao John, io sono Josh. Josh Wright».
 
Aveva riflettuto qualche istante prima di pronunciare il suo nome, quasi fosse passato tanto tempo dall’ultima volta che qualcuno glie l’aveva chiesto da non ricordarlo più. Solo con il tempo eri riuscito a capire l’entità di quella tristezza e solitudine.
 
«Abbiamo le stesse iniziali, Josh.» avevi risposto. Anche tu gli avevi regalato il tuo sorriso, parlando, e lui sembrava averlo apprezzato più di qualsiasi altro dono. «Ora devo andare, scusami ancora per prima!»
Ti eri alzato e lo avevi salutato agitando la mano. Da quel giorno eri stato ben attento ad aspettare che nessuno ti vedesse o che il capo uscisse prima, quando prendevi un panino dal bancone, lo incartavi per bene e lo portavi a Josh.
 
 
Qualcuno è chino su Josh. Non riesci a distinguere neanche se è un uomo o una donna, in un primo momento: decine di persone che passano ti tagliano la visuale dandoti un’immagine criptata di quella persona. Riesci a vedere solo una sagoma scura su di lui e subito un allarme scatta nella tua testa. Non è la prima volta che  vedi qualcuno infastidirlo o picchiarlo: ragazzini annoiati, vandali, bastardi. Guardi meglio e ti sembra di riconoscere la figura di un uomo, nonostante l’immagine sia sempre più tagliata a fette dalla folla. Aspetti di intravedere il suo braccio che si allunga verso Josh prima di scattare.
 
Esci dal bancone urtando lo sportello con violenza  e ignori il cigolio che ne deriva, senza preoccuparti di aver lasciato scoperto il posto di lavoro. Quasi non senti più neanche il rumore confusionario della stazione e l’odore eterogeneo: riesci a provare solo una rabbia forte e viva che anima ogni tuo movimento, ti scorre nelle vene, ti vibra nelle iridi. Prima ancora che te ne renda conto, stai già camminando a grandi passi verso quell’angolo, hai le mani chiuse e i muscoli tesi, come se il tuo corpo fosse pronto a uno scontro. In effetti, la parte meno razionale di te sta correndo per prendere a pugni quell’uomo, chiunque sia. Cerchi di evitare le spalle veloci delle persone, ma non le noti davvero quando, involontariamente, le urti e qualche parola di biasimo viene inghiottita tra i mille passi: il tuo sguardo è fisso sul centro della tua rabbia a cui hai saputo dare un nome, ingiustizia.
 
Più ti avvicini e più il tuo cuore rimbomba in battiti potenti scanditi dalla rabbia, dal respiro affannoso. Divori gli ultimi passi tra la gente, mozzando l’inizio di uno e la fine dell’altro per fonderne due insieme. Tutto perde di definizione fino a non lasciarti vedere più niente, se non quello che stai per fare, l’adrenalina sale, la prima goccia di sudore punge, il cuore batte, il sangue pulsa. Un attimo di buio colorato, confusionario e sei davanti a una macchia di stoffa e capelli neri, china su un cespuglio di stracci contenenti una persona.
 
Allunghi una mano sulla sua spalla prima di guardare, prima che le linee prendano forma: la tua presa è salda e dura, per ammonire, per avvertire.
 
Quando la macchia nera si volta tutto quello che riesci a vedere è l’azzurro. Un azzurro così intenso e vivo da riempirti, come se improvvisamente non ci fossero altri colori, come se fossi caduto nell’oceano e ci fosse solo tanta acqua limpida intorno a te. Non acqua, ghiaccio. Quello è un azzurro glaciale, tagliente, affilato, come se ogni scaglia di colore all’interno fosse di vetro, schegge di un cristallo frantumato in mille pezzi e riunito insieme in una disarmonia scintillante di pagliuzze. Azzurro di diamante nell’oceano, azzurro di zaffiro, azzurro di ghiaccio, azzurro di cielo pulito. 
 
Poi delle ciglia, curve, lunghe, come quelle di un disegno disneyano. Linee nere di un acquarello preciso. Una forma morbida e allungata. Dei piccoli solchi intorno a quelle mandorle luminose.
 
Quegli occhi.
 
Li riconosceresti tra mille, un milione di occhi. Li riconosceresti tra tutti gli occhi del mondo intenti a fissarti con dubbiosa superficialità: tu vedresti solo i suoi occhi azzurri e te ne innamoreresti ancora una volta, come hai fatto nei tuoi sogni.
 
Ora puoi riconoscere anche lui, il cappotto lungo, i capelli vaporosi che ricadono a ciocche sulla fronte, il corpo affusolato piegato sulle ginocchia, la pelle candida, i nei, le labbra, il collo. È lui. È Sherlock.
Di nuovo, come nelle altre volte che i vostri sguardi si sono fusi, c’è silenzio. Silenzio profondo e ragionato, ma vuoto. Silenzio rotto da un tamburo. Bum. Bum. Bum. Bu-bum. Il tuo cuore ritma nel petto. Inciampa ogni tanto, ma non puoi biasimarlo. Anche lui ti guarda, con i suoi immensi occhi azzurri, ma non come tu guardi lui: devi sembrare uno stupido, con la tua espressione sorpresa dipinta in volto, ti viene istintivo pensarlo.
 
Sherlock aggrotta appena le sopracciglia, come se si chiedesse cosa ci fai lì – e lo fa in un modo così sexy che il tuo cuore perde l’ennesimo battito. Si volta verso Josh e tutto si muove in modo meccanico e veloce, come se ti trovassi in un videogioco: un foglietto bianco, strappato ai lati, che scivola via dalle dita scoperte dai guanti del barbone, la mano di Sherlock che lo afferra e lo fa sparire nella tasca del cappotto. Segui con gli occhi quel piccolo scambio e ti soffermi per poco sulle sue dita affusolate, ma quando lui si alza in piedi hai già dimenticato la tua curiosità a proposito. Entrambe le mani nel lungo cappotto nero, il collo steso fino al mento alzato, le spalle dritte, ora la sua espressione è seria, imbevuta di un senso di superiorità e freddezza, mentre ti guarda dall’alto – cavolo, perché è così alto? Eppure è sicuramente più giovane di te!
Sbatti le ciglia un paio di volte e il tuo cuore ti sembra rallentare. Forse solo un po’. Lo osservi meglio e riesci a vederlo, se lo guardi senza cadere nei suoi occhi azzurri o nei suoi riccioli neri: un ragazzo vestito del suo soprabito scuro e della sua sfrontatezza.
 
«Ciao» dici, e sfoderi un sorriso dietro al quale nascondi tutta la tua timidezza.
 
Lui ti guarda ed esita prima di rispondere. È uno sguardo inquisitorio e profondo che sembra captare anche quella goccia di sudore che inizia a farti solletico. Preghi solo che si ricordi di te, che ti abbia pensato almeno una volta per ogni cento che l’hai pensato tu.
 
«Ti capita spesso di smettere di lavorare per correre in giro per la stazione?» chiede, lasciandoti spiazzato.
 
«Come?»
 
«È un’abitudine quella di sospendere il lavoro per darti all’avventura?» questa volta lo ripete molto più lentamente, come se ti stesse dando dello stupido. Forse lo sta facendo.
 
«No, solo quando si tratta di ragazzi con lunghi cappotti neri».
 
Sorridi della tua stessa battuta e ti sembra di scorgere un piccolo accenno anche nell’angolo sinistro della sua bocca, ma non ci giureresti. Crea una piccola pausa prima di parlare, una pausa divertente e fatta dei vostri sguardi.
 
«Oh, adesso capisco perché il tuo capo sembrava sul punto di esplodere l’altro giorno: i cappotti lunghi vanno molto di moda quest’anno».
 
Scoppiate entrambi a ridere ed è una risata leggera, armonica, come se quei due suoni fossero fatti per accompagnarsi a vicenda. Ridi e lo guardi ridere, con quelle labbra turgide e rosse, le piccole fossette sotto gli zigomi, le linee intorno alla bocca. Lo scintillio negli occhi.
 
Sospiri e getti leggermente la testa indietro quando la risata inizia a svanire nell’aria.
«Si, ho temuto anche io che accadesse.» prendi fiato. «Allora… tu e Josh, come vi conoscete?»
 
Il suo sguardo va verso l’uomo. È uno sguardo duro e severo, che non ammette repliche. Uno sguardo complice ma imponitore.
 
«Ci scambiamo favori reciproci» dice e i suoi occhi di ghiaccio non si muovono da quelli nocciola del barbone.
 
Josh annuisce e tu ti chiedi cosa ci sia che non ti stiano lasciando capire, cosa Sherlock stia nascondendo. Ti basta un attimo dei suoi occhi su di te per dimenticare le tue domande irrisolte.
 
«Perché non lo fai anche con me, uno scambio di favori reciproci?» chiedi, sorridendo, e il cuore ricomincia a battere troppo forte.
 
Le sue sopracciglia sono di nuovo aggrottate e il suo sguardo di nuovo interrogativo. Sembra un bambino quando fa così.
 
«Io ti offro un caffè e tu mi permetti di rimediare alla figuraccia che ho fatto con il tuo nome» continui.
Bum. Bu-bum. Bumbumbumbum.
 
Ti guarda. Sorride.
Bumbumbumbumbumbum.
 
Lo hai invitato a prendere un caffè con te? Che cos’è, un appuntamento?
Bumbumbumbumbumbumbumbumbum.
 
È un sorriso quasi diabolico per quanto enigmatico. La curva morbida del suo arco di cupido sfiora il labbro inferiore.
 
«Non credo che lo apprezzerei: qui il caffè, come tutto del resto, è talmente di bassa qualità che perfino lui ne ha bevuti di migliori» risponde sprezzante e con un cenno del capo indica l’uomo ancora seduto sui suoi cartoni malconci.
 
Bum.
 
Che cos’ha risposto? No? Si, ma… ? Di nuovo enigmatico, di nuovo  incomprensibile, di nuovo impenetrabile. E tu di nuovo senza fiato.
 
Ti accorgi di quanto sia lungo un secondo quando non sai cosa dire. Potresti sentire ogni decimo scattare nelle tue orecchie, come un orologio rotto che manda il tempo a rallentatore. Lungo e profondo, lascia che tu percepisca ogni cosa nella sua durata, il tuo respiro sospeso, il passo veloce della donna dietro a te, la monetina caduta al bambino che fa i capricci, l’interfono della pubblicità. Il suo sguardo. Potrebbe uccidere con quello sguardo, ne sei certo: un colpo di occhi azzurri e non hai più capacità di essere te stesso.
 
Respira.
Parla, o sembrerai un idiota.
 
«Allora andiamo fuori a prenderlo. Conosco un posto a Phoenix Road che fa anche dolci irresistibili.»
Ora, quel silenzio, sembra pieno di suoni. Ma sembrano provenire tutti da te, come se avessi ingoiato un intero circo e ora questo si stesse ribellando nel tuo corpo. Tamburi nel petto, fischi di frusta nelle orecchie, trapezisti impazziti nella testa. Il suo sguardo è ancora nel tuo, immobile e glaciale come sempre, il suo sorriso ancora enigmatico sulle sue labbra. Ti chiedi se stia giocando con te, se riesca a vedere la tua ansia e si diverta con questa. Forse sei un buon attore, forse sembri tranquillo. Forse no.
 
«Lavori in un cafè squallido e sovraffollato. Hai davvero voglia di vedere altro caffè quando esci da qui?»
 
Sorridi. Sorridi perché Sherlock ti ricorda tanto un’immagine dolce della tua infanzia, in questo momento. Ti ricorda Harry, seduta da sola sotto l’albero di noci del vostro giardino, quando la mamma andava da lei e le chiedeva di fare una torta insieme, con quel suo sorriso dolce che profumava di zucchero a velo prima ancora di accendere il forno. Non lo avrebbe mai ammesso, già orgogliosa, ma lei adorava la mamma. Così sbuffava e diceva preferisco giocare con la terra o una torta? Non sono una principessina con il grembiule da pasticcera, io. Voleva solo che insistesse, lo hai capito con gli anni. E la mamma insisteva, sempre. Le faceva il solletico finché Harry non rideva e quando lo faceva (non per il solletico, ma per quel materno sorriso contagioso) allora lei diceva era questo il patto, no? Se fossi riuscita a farti ridere saresti venuta a fare la torta con me. Non te l’ho detto? Devo averlo dimenticato”.
 
Sherlock sembra quella bambina, ora. Non lo conosci e sai che stai facendo una conclusione campata in aria, ma sei sempre stato bravo a capire le persone, forse perché ti importa davvero.
Così insisti, perché come la mamma, quella torta la vuoi davvero.
 
«Mi piace ricordarmi ogni tanto che non sono l’unico a preparare caffè e incartare ciambelle nella vita. Mi fa pensare che forse un giorno sarò servito, invece di servire.»
 
Fai una pausa e lui accenna a una smorfia. È un sorriso?
 
«Magari a bordo di una piscina, con thè freddo, ananas e…» fai una pausa, in cui cerchi la cosa giusta da dire «Macarons! Ecco, con i Macarons sarebbe perfetto.»
 
Ti guarda dubbioso, le sopracciglia curve e il labbro arricciato.
 
«Immagino siano dolci. O droghe, a giudicare dal nome.»
 
Il tuo sguardo è carico di incredulità.
 
«Non hai mai mangiato i Macarons? Per quale terribile motivo? È una sorta di punizione autoinflitta?»
 
«Non sento il bisogno di soffocare la mia emotività in un sovraccarico di zucchero, così da aprire la strada a colesterolo e diabete, al contrario della maggior parte della gente.»
 
La sua risposta ti spiazza. Ti rallenta. Hai sempre bisogno di qualche attimo di riflessione, quando lui apre bocca. Era una critica, ne sei abbastanza certo, se non direttamente a te, a una categoria di persone di cui fai parte. Allora perché ci vedi dietro tristezza e solitudine sconfinate?
 
«In ogni caso, dobbiamo rimediare.» affermi con tono tranquillo, mentre una piccola parte di te ti prende in giro per essere così insistente. Sembri un venditore di aspirapolveri, dice, ma tu la metti a tacere. «Finisco il mio turno tra un’ora. Puoi aspettarmi o… non so, fare un giro… ci rivediamo qui. Che ne pensi?»
 
Tu attendi e lui ricomincia, il tuo cuore. Bumbumbum. Bu-bu-bum. Bumbumbumbumbu. Non hai ma desiderato tanto leggere nella mente degli altri, anche se adesso il suo sguardo si è un po’ ammorbidito, anche se non sembra ghiaccio di migliaia di anni ma solo di centinaia, anche se forse quella linea curiosa sulle sue labbra è una specie di sorriso. Anche se esita, ma sembra farlo per giocare con te. Tu sei il topo e lui è sia il formaggio che la trappola.
 
Tensione. Elettricità che taglia a fette l’aria. Il silenzio dell’esterno, il circo dentro di te. lo stomaco che si chiude: forse è un domatore con la sua frusta. I suoi occhi. I tuoi.
 
Dì soltanto “si, va bene, a dopo”, ti prego.
 
Quando rompe l’attesa, lo fa muovendo la testa e le spalle in un moto di indifferenza – i ricci ondeggiano leggermente allo scatto del collo, cerchi di non notarlo, ma ti resta difficile - rotea leggermente gli occhi verso destra e poi verso l’alto, guarda altrove come se fosse annoiato quando ti risponde.
 
«A quanto pare sembra sia così indispensabile assaggiare questi dolci, quindi non posso che accettare. Non vorrei mai che la regina in persona venga a rimproverarmi per non averli assaggiati.» ribatte satirico.
 
La sua ironia ti arriva come aria fresca nel caldo di agosto. Persino il circo ha smesso di esibirsi e adesso applaude la tua performance. Sorridi e ti senti più leggero. Dietro al suo sguardo falsamente tediato, vedi un briciolo di curiosità. Per i Macarons? Per te?
 
«Allora qui, tra un’ora.»
 
Lo ridici un’altra volta, un po’ insicuro. Vuoi una conferma che smentisca l’ostinata indifferenza sul suo volto, ma non ti arriva risposta, solo un cenno quasi impercettibile del capo, le palpebre che si chiudono e si riaprono come ad annuire: il sipario sul blu dei suoi occhi e poi di nuovo lo spettacolo in scena per te, per il mondo.
 
«A dopo.» lo sussurri e basta, forse neanche ti sente.
 
Infatti non dicevi a lui, dicevi a te stesso, pensi mentre ti giri e cammini verso il tuo bancone. Ti stavi facendo una promessa: dopo. Dopo lo rivedrai, dopo lo guarderai ancora negli occhi, dopo noterai i suoi nei, dopo sentirai la sua voce, dopo ti lascerai sfiorare dalla sua ironia. Dopo. Il tuo chissà se è diventato dopo. Ti chiedi se ti stia guardando, ma vinci la tentazione di voltarti: farebbe sembrare tutto uno smielato film. Pensi che sicuramente lo sta facendo, senti del calore che da un punto inarrivabile tra le tue spalle si dilata a tutto il corpo, allo stomaco, allo sterno. Speri che il circo non stia bruciando. Ti sta guardando, speri e disperi, e tu ti senti una gemma e un’idiota allo stesso tempo.
Non inciampare, non ora, per favore.
               
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questa volta lo ammazzo. Continui a pensarlo e ogni volta che lo ripeti nella tua testa, lo fai con più rabbia. Hai quasi finito tutte le unghie da morderti e se Mike non arriva in fretta dovrai passare a quelle dei piedi. O ai polpastrelli. Arrivare in ritardo e andare via prima fa parte del suo modo di prendere il lavoro, ma questa volta è diverso. Questa volta c’è qualcuno che ti aspetta.
Quando arriva, lo fa fischiettando e giocherellando con le chiavi tra le dita della mano destra. Hai ancora più voglia di ucciderlo.
 
«Dove cazzo eri?» sibili e senza rendertene conto, gli vai incontro minaccioso.
 
Lui indietreggia. Non è da te arrabbiarti, forse l’hai spaventato davvero.
 
«Ehi, Johnny, stai bene? Mi sembri un po’ agitato. Te l’ho detto che dovresti scopare di più».
Ti avvicini ancora con la rabbia che fa da padrona, le mani che tremano già e si chiudono in un pugno. Poi l’occhio ti cade sull’orologio tondo appeso al muro, sopra le vostre teste. Sei in ritardo. In ritardo al primo appuntamento, complimenti John.
 
Non è un appuntamento, sussurra quella vocina, ma tu la ignori e scivoli via dallo sguardo sorpreso e spaventato di Mike. Ti urla qualcosa dietro, con un punto di domanda alla fine, ma tu non lo ascolti: stai già divorando il terreno, con passi grandi a posto dei denti. Ogni respiro, ogni metro sotto le tue scarpe, è una preghiera. Ti prego, fa che non se ne sia andato.  Ti prego, fa che si sia ricordato.
 
Ti prego, fa che sia lì ad aspettarmi.
 
Tu ingoi la distanza e l’ansia ingoia te: un circolo vizioso dal quale non puoi uscire. Qualcuno ti taglia la strada, lo ignori. A una donna cade un giornale proprio davanti ai tuoi piedi, ti fermeresti a raccoglierglielo normalmente, ma ora continui a camminare veloce. Anche il tuo respiro e i tuoi battiti corrono, proprio come te.
 
Persino la tua immaginazione galoppa  veloce, frenetica e ansante come il momento. In un attimo riesci a fare tanti di quei pensieri che non avresti neanche creduto capace la tua mente: il tempo scandisce i decimi di secondo e la tua fantasia proietta immagini più rapidamente perfino delle lancette.
 
Tu seduto a un tavolino del tuo caffè preferito. Sherlock, davanti a te, sorride. Con il suo mezzo sorriso sempre un po’ enigmatico, poi fai una battuta e ride davvero: ha una risata così armonica. Beve un sorso di thè e tu mordi la tua ciambella: quasi ti dimentichi di mangiare per come sei preso dalle sue parole, dai suoi occhi. Ti scappa un sorriso, non nella fantasia, nella realtà: lo riprendi al volo prima che si allarghi sul tuo viso e speri che nessuno ti abbia visto ridere da solo mentre allunghi passi sempre più veloci.
 
Ma la mente è subdola, e prima che tu possa agguantarla, ti sta già presentando l’altra faccia della medaglia. Ci sei ancora tu, ancora nel tuo caffè preferito, ancora seduto a un tavolino, lo stesso. Forse hai poca fantasia. Ma davanti a te non c’è nessuno. Guardi ogni persona che entra con occhi speranzosi e il tuo cuore batte più forte a ogni tintinnio della porta che si apre, poi deluso, torni sistematicamente a guardare il thè ormai freddo nella tua tazza. Davanti a te nessuno, se non forse l’assenza e la delusione che condividono la sedia vuota.
 
Lo sconforto ti rallenta un po’, i tuoi passi si fanno più stanchi, ma è solo il tempo di un lampo di luce, prima che le suole delle tue scarpe ricomincino a cancellare la distanza. Le tue gambe veloci, il tuo cuore impazzito.
 
 
Quando arrivi al punto dove lo hai visto l’ultima volta, la X nella tua mappa del tesoro, trovi solo Josh che dorme con la schiena rivolta verso la gente indifferente. Ti sembra quasi di sentire un oh della folla, come nei cartoni animati o nei film muti. Sherlock non c’è. Sherlock non c’è e tu ti senti un’idiota. Sherlock non c’è e la vocina sta sibilando te l’avevo detto.
 
Sembra il contraccolpo del fucile, la delusione di quel momento. Un pugno nello stomaco che arriva all’improvviso, inaspettato, doloroso. Ti guardi intorno e poi fissi le tue scarpe, come se lui potesse essere lì, tra i lacci consumati e qualche macchia di fango. Guardi di nuovo la stazione ma la ragazza che cammina davanti a te, con le cuffiette nelle orecchie e le calze grigie sotto i pantaloncini, non somiglia affatto a ciò che stai cercando. A chi stai cercando. Josh emette un grugnito nel sogno e anche quel suono sembra prendersi gioco della tua espressione triste.
 
Ora ti dai dello stupido, per averci creduto. Perché forse lui neanche esiste, lo hai solo immaginato: un ragazzo con gli occhi blu e l’aria misteriosa che rende interessanti le tue giornate alla stazione, come il personaggio di una favola moderna. O forse lui esiste, ma non ricorda neanche il tuo nome e tu sei stato così ingenuo e illuso da credere il contrario. In ogni caso, ora ti trovi in piedi in mezzo a uno spazio trafficato da passi svelti e guardi il mondo come un bambino a cui è scoppiato il palloncino. Ridicolo. Ingenuo, illuso, ridicolo. Non puoi fare a meno di ripetertelo, mentre con movimenti lenti e pesanti, giri su te stesso per tornare indietro. Persino alzare una gamba ti sembra faticoso, come se la delusione fosse una sostanza collosa che ti si è appiccicata addosso e ostacola ogni gesto. Un ultimo sguardo alla rude immagine della sua assenza, di un pavimento sporco sul quale dorme un uomo finito, di persone che passano e non sono mai lui. Un’ultima piccola speranza, un’ultima piccola delusione e ricominci a camminare sugli stessi passi che prima avevi ingoiato nella frenesia. Le spalle leggermente curve e le mani in tasca anche se non fa così freddo: la musica di uno di quei film muti ora sarebbe un dettaglio perfetto.
 
 
 
   
 
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