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Autore: Amens Ophelia    26/09/2013    8 recensioni
[SasuHina]
Hinata ha poche certezze, dietro quegli occhi chiarissimi: sa che il sole sorge e tramonta sempre, anche dietro le nuvole, e che il suo astro personale è un ragazzo biondo, in classe con lei. Purtroppo è anche a conoscenza del fatto che lui non lo saprà mai.
Troppe sono le cose che ignora pericolosamente, come il posto che occupa nei pensieri di Sasuke Uchiha.
(NB: accenno SasuKarin)
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hinata Hyuuga, Naruto Uzumaki, Neji Hyuuga, Sasuke Uchiha | Coppie: Hinata/Sasuke
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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3. Tutto, fuorché amore

 
 
 
 
Karin possedeva lo stesso cognome del suo migliore amico, ma non glielo ricordava minimamente: capelli rossi, occhi dello stesso colore caldo, pelle delicata e occhiali. Inoltre, anche il suo carattere era diverso da quello dell’altro Uzumaki: se il biondo era bonario, distratto, costantemente allegro, la ragazza era invece lunatica, scontrosa, ma determinata ad avere tutto ciò che bramava. Un esempio pratico? Sasuke Uchiha.
            La giovane non aveva esitato ad accogliere il moro, non appena gli si era presentato davanti alla porta dell’appartamento in cui viveva con una vecchia zia, perennemente rintanata in salotto a guardare qualche telenovela strappalacrime, con le cuffie alle orecchie e il viso grinzoso a un palmo dallo schermo. Sasuke l’aveva salutata anche questa volta e lei aveva ricambiato distrattamente con un gesto della mano, tornando a fissare la tv.
            Karin si avvinghiò emozionata al braccio del corvino, stringendolo così forte da fargli percepire quasi i battiti del suo cuore.
            «Andiamo in camera mia», gli aveva suggerito con un tono suadente, all’orecchio. Sasuke non fiatò nemmeno e si lasciò condurre verso l’alcova.
           
La stanza era identica a una settimana prima, sommersa dal disordine di vestiti e scarpe, ma il letto era perfettamente intatto, adornato anche da quel copriletto di raso rosso che avevano già sgualcito insieme.
            «La prossima volta sistemerò meglio», sorrise Karin, spingendo il paio di sneakers che si era appena scalzata dietro la scrivania. «Adesso, però, goditi lo spettacolo», ammiccò sibillina, chiudendo la porta a chiave, nonostante fosse sicura che sua zia sarebbe rimasta incollata alla tv fino alle ventidue. Perfetto, avevano ancora poco meno di due ore per spassarsela.
            Sasuke si accomodò sul letto, sfilandosi la giacca e osservando la rossa che lo aveva imitato, gettando la parte superiore dell’uniforme sulla sedia.
            Le sue dita affusolate cominciarono a sfilare lentamente i bottoni dalle asole, mentre i fianchi ondeggiavano sensualmente, al ritmo della canzone che aveva fatto partire con un pulsante dello stereo. Fece scivolare giù dalle spalle, con una grazia felina, la camicia bianca, rivelando la sorpresa: un corpetto nero con fiocchetti rossi, stretto fino all’inverisimile, che lasciava quasi traboccare fuori il seno. Sasuke non poté che sorridere, a quella vista, e quell’espressione fu la molla che le fece perdere la testa, aumentando la velocità del suo spogliarello. Sbottonò la gonna con un gesto veloce, abbandonandola ai piedi, e saltò fuori da quella circonferenza di stoffa nera con un balzo, avvicinandosi al letto.
            Sasuke si distese morbidamente, appoggiando il peso sui gomiti e invitando così la rossa ad approfittare di quell’occasione che le stava servendo su un piatto d’argento. Non servirono altri segnali, perché Karin si gettò d’impeto su di lui, circondandogli il collo con le braccia e assaporando le sue labbra sottili e ambite.
            Quel bacio non le bastava. Sentiva le mani del moro accarezzarle la schiena nuda e sotto il tocco di quei polpastrelli si stava scatenando una tempesta di brividi. Quel bacio non le bastava. Spinse la lingua dove le labbra non potevano arrivare. Sasuke sorrise, staccandosi da lei solo per sfilarle gli occhiali e appoggiarglieli sul comodino. Quel bacio non bastava più nemmeno a lui.
            «Allora vuoi fare sul serio…», osservò il ragazzo, con una voce improvvisamente roca e un ghigno malizioso.
           
Karin gli aprì la camicia con veemenza, facendo saltare gli ultimi due bottoni. Le mani accarezzarono il suo petto caldo e statuario, mentre le sue labbra cominciavano a baciargli il collo, il pomo d’Adamo, le clavicole. Sasuke invece si cimentò nell’impresa di slacciare quel corpetto invitante, ma si arrese quasi subito, imprecando sottovoce. La ragazza rise e, in men che non si dica, armeggiò con quel diabolico strumento di seduzione, liberando il suo petto da quella morsa lussureggiante.
            Lui l’abbracciò e capovolse le posizioni, coprendola di baci dal mento all’ombelico. L’aria era pervasa dal respiro affannato della giovane e dagli schiocchi di labbra dell’Uchiha, che stava velocemente risalendo verso i seni. Sapeva esattamente come farla impazzire.
            Dal canto suo, nemmeno lei l’avrebbe deluso: con mani sicure gli solleticò la schiena, fino a scendere sui fianchi e raggiungere il bordo dei pantaloni. Si affrettò a sbottonarli e a calare la zip, per poi farglieli scendere fino alle ginocchia, lasciando che lui se ne liberasse velocemente. Solo due pezzi di stoffa dividevano due eccitazioni simili, per quanto diverse.
            Sasuke fu il primo a sbarazzarsi di uno dei due, sfilando con una logorante lentezza gli slip neri alla rossa.
            La guardava negli occhi, mentre si contorceva e soffriva piacevolmente, sussurrando il suo nome. Queste erano le soddisfazioni che si prendeva: veder cadere continuamente ragazze ai suoi piedi, ascoltare le loro voci chiedere sempre di più, accontentarle e appagare un istinto naturale, per poi lasciarle sui quei letti morbidi e disfatti a riprendere fiato, mentre lui si rivestiva e si lasciava alle spalle l’ennesima vittima, e una nuova cicatrice nell’anima. Per quanto provasse piacere nell’appagare i sensi, sapeva benissimo che c’era qualcosa di malato, in quelle situazioni; era a conoscenza che dentro di lui c’era del marcio. Era consapevole che quello era tutto, fuorché amore.
            Le mani di Karin, introdottesi ormai nei boxer, lo distrassero dai suoi pensieri. Quel calore improvviso, quella voglia di rompere ogni indugio, presero il sopravvento sulla razionalità. 
             Si abbandonarono rapidamente alla passione - a ciò che ritenevano tale, almeno -, per poi stendersi supini sul letto, sfiancati, appagati e sudati. 
 
Quando gli parve di aver incamerato abbastanza aria, Sasuke si sollevò e cominciò a rivestirsi, senza degnare la ragazza di uno sguardo.
             Mentre si abbottonava la camicia, sentì le mani di Karin sfiorare le sue, abbracciandolo da dietro. I seni, ancora nudi, premevano contro la sua schiena e il cotone bianco faceva filtrare il caldo respiro della rossa.
             «Sei meraviglioso, Sasuke Uchiha», sospirò tremando. Il moro chiuse gli occhi, intuendo cosa sarebbe giunto dopo quel complimento. «Perché non facciamo coppia fissa?», propose lei, stringendogli le dita.
             Il ragazzo scosse la testa, sorridendo amaramente e divincolando le sue mani, il suo corpo, da quella morsa. Si girò lentamente verso la Uzumaki, puntando il suo sguardo nel suo, per quanto i suoi occhi neri avrebbero volentieri vagato altrove.
             «Non sono portato per queste cose». Conciso, sincero e spietato.
             «Posso essere ancora più convincente», sussurrò lei, avvicinandosi e inginocchiandoglisi davanti, pronta ad abbassare nuovamente la zip dei suoi pantaloni. Il ragazzo si affrettò a fermarla, allontanandola con una leggera spinta.
             «No, Karin. Non voglio, punto», dichiarò stentoreo.
             La rossa si alzò a fatica, tremando. Si sarebbe aspettata di tutto, ma non un rifiuto.
             «Ma perché?», quasi urlò, non riuscendo a comprenderlo.
            Sasuke abbassò il capo, nascondendo un ghigno divertito. Come poteva chiedergli il motivo? Non era forse evidente? Rialzò il volto e la scorse improvvisamente fragile, mentre si stringeva le mani al petto, tradendo il desiderio di nascondersi. Dov’era finita, quella tigre di poco fa?
            «Perché non sono innamorato di te», affermò freddamente, raccogliendo la giacca e gettandosela su una spalla.
            Fece scattare la chiave nella serratura e riaprì con decisione la porta, ignorando le lacrime e gli insulti della ragazza. Non aveva potuto evitare di ferirla, ma non riusciva a dispiacersi per lei. D’altro canto, non l’aveva mai illusa, non le aveva mai fatto sperare che fra loro potesse nascere qualcosa; era stato tutto un vano pensiero della giovane.
            Attraversò con passo sicuro il salotto e aprì il palmo della mano in segno di saluto verso l’anziana signora incollata allo schermo.
            Scese velocemente le scale e uscì da quello stabile, riprendendo i contatti con il mondo esterno e l’aria fredda. Non temeva le conseguenze di quella spietatezza, avrebbe comunque continuato a sostenere lo sguardo carico di rancore della sua compagna di classe. Non era la prima e, molto probabilmente, non sarebbe stata nemmeno l’ultima.
           Infilò una mano nella tasca dei pantaloni e afferrò il pacchetto di sigarette; ne sfilò una e la portò alle labbra. Con l’altra prese l’accendino e l’accese, proteggendo la fiamma dai possibili colpi di vento.
          Arrivò con calma verso l’auto e si appoggiò alla portiera, inspirando profondamente la nicotina e osservando poi la nuvola di fumo alzarsi verso il cielo, illuminata dalla luce tremolante di un lampione. Quando arrivò alla cicca, spense il mozzicone sotto la suola della scarpa e salì in macchina, riaccendendo il motore. Erano le ventuno e trenta, quando un imperativo morale lo assalì: doveva tornare a casa e cominciare a copiare la ricerca.
 
 
***
 
La radiosveglia segnava le sei e trentasette, con i suoi caratteri cubitali. Avrebbe potuto godersi il piacere di un sonno ristoratore per ancora un quarto d’ora almeno, ma non era riuscita a chiudere occhio tutta notte, perciò si arrese e staccò l’allarme dell’orologio: non avrebbe sopportato quel molesto annuncio dell’arrivo di un nuovo giorno, di una nuova delusione.
            Si attorcigliò nelle coperte, osservando il sorriso beato di Hanabi, ancora profondamente addormentata, e sorrise dolcemente, scorgendo quella serenità sul volto della sorella. Le voleva bene, era l’unica della famiglia a mostrare qualche segno d’interessamento nei suoi confronti. Una volta era loro madre a preoccuparsi per lei, ma, da quando era deceduta in un incidente d’auto, l’unica che ancora si fermava a chiederle come stesse, a sostenerla, incoraggiarla o semplicemente parlarle, era quella tredicenne ora assopita.
 
Hinata ripercorse nella memoria quel maledetto giorno in cui la sua vita cominciò irreparabilmente a incrinarsi. Erano passati cinque anni, ma ricordava perfettamente la scena. Lei aveva appena terminato la lezione di danza classica e sua madre, come sempre, era giunta a prenderla per riportarla a casa. Era fiera di Hinata, a dispetto dei dubbi del padre, riguardo quella disciplina: lui osservava sempre Neji, così forte, determinato, promettente karateka, e stilava un inevitabile confronto con la maggiore delle sue figlie, finendo sempre per rimpiangere di non aver avuto un maschio. Le cose erano decisamente diverse, con Hanabi: lei sembrava possedere la stessa stoffa di Hiashi, imperturbabile e reattiva.
            La signora Hyuga stava guidando con calma verso casa, mentre la piccola Hinata si stava criticando per non essere riuscita ad eseguire un perfetto arabesque, quando un’auto giunta contromano si scontrò violentemente contro la loro.
            Lo stridio dei freni premuti inutilmente, il raccapricciante rumore delle lamiere accartocciatesi, il prolungato suono di clacson provocato dal peso morto della madre sul volante; e poi le sirene dell’ambulanza, i lampeggianti della polizia, gli sguardi impressionati dei passanti…e le urla, le urla disperate di una ragazzina coperta di un sangue carissimo, miracolosamente illesa.
            La sua fine aveva avuto quell’inizio. Il suo Inferno in quella dimora era cominciato quel giorno, e sapeva che non avrebbe mai avuto fine.
            Ogni volta che guardava le fotografie della madre, un desiderio di morte s’impossessava del suo cuore, costringendo la mente a farla sentire sempre più responsabile dell’incidente. Non era colpa sua, era stata l’altra auto a scontrarsi con la loro, in quel senso unico, ma Hiashi la condannava sempre quale responsabile della loro infelicità. “Se tu non avessi cominciato quell’inutile corso, tua madre sarebbe ancora qui!”, aveva urlato in sua direzione, la sera del funerale. Quell’astio dettato dalla circostanza le bruciava ancora nel cervello e nel petto. Sì, suo padre aveva delle ottime ragioni per detestarla, ma sperava che sarebbe riuscito a perdonarla.
Perdonarla? Ma faceva sul serio? Suo padre non l’avrebbe mai potuta assolvere. Lei stessa non l’avrebbe mai fatto.
 
Si alzò lentamente dal letto, infilò le ciabatte, ordinatamente sistemate vicino al tappeto, la sera prima, e dischiuse cautamente la porta del piccolo bagno della camera.
            Aprì il rubinetto del lavabo e osservò il getto d’acqua per alcuni secondi, come ipnotizzata, prima di sollevare il viso e affrontare lo specchio. Di fronte a lei era riflessa impietosamente l’immagine di un fantasma: capelli arruffati, come se fosse appena uscita da una lotta, occhiaie marcate e iridi arrossate. Oh, e un livido sulla guancia, corredato da un taglio lungo un paio di centimetri, ricordo del pomeriggio precedente. Sì, sembrava decisamente una derelitta appena scampata a un pestaggio, ma non se ne curò. Avrebbe cercato di nascondere i danni con un cerotto, sperando che nessuno la notasse. Riuscì persino a sorridere, rincuorata: lei era Hinata Hyuga, chi mai l’avrebbe degnata di qualche sguardo?
            Non appena finì di lavarsi e vestirsi, scosse delicatamente la sorella, per ridestarla; quando vide un suo occhio aprirsi, accompagnato da un mugolio di dissenso, scese al piano terra, sicura che presto Hanabi l’avrebbe raggiunta.
            Prima di fare colazione, arrivò furtivamente allo sgabuzzino e prese un cerotto abbastanza grande da coprire l’ematoma; lo applicò accuratamente, specchiandosi nel vetro di una finestra, e si diresse poi verso il salotto.
 
Suo padre era seduto al tavolo, intento a sorseggiare un caffè nero e a chiacchierare con Hizashi, suo fratello gemello, e la moglie di questi. La ragazza non osò guardarli, sedendosi al suo posto, il più lontano da loro, in quella tavolata da venti convitati.
            Non erano affari suoi, né davvero le interessava sapere di cosa stessero discutendo.
            «Thè verde e biscotti: ecco qui, signorina», le sorrise una donna sulla cinquantina, dall’uniforme nera e il grembiule candido.
            «Grazie, Shimoko». Abbozzò un sorriso di cortesia alla governante, che si allontanò prontamente verso la cucina.
            Hinata mescolava con calma la bevanda calda nella tazza, lasciando che il vapore salisse fino al suo volto, procurandole una sensazione di calore simile a una carezza. Non ricordava più quanto potesse essere gentile il tocco di una mano sulla guancia, né quanto i polpastrelli fossero morbidi e delicati, come petali di rose vellutate. Strinse il cucchiaio con forza, reprimendo una lacrima amara, mentre le tornava in mente lo schiaffo rabbioso del padre. Quello, invece, era un contatto fin troppo noto.
            «Non prenderà la patente?! Ma Hiashi, è tua figlia!», sbottò a un certo punto Hizashi, sconcertato.
            La ragazza incrociò gli sguardi dei suoi familiari, improvvisamente puntati su di lei. Nemmeno il copioso fumo che si alzava dalla tazza era abbastanza fitto da nasconderla, ora.
            «Non c’è bisogno di ricordarmelo», commentò monocorde il padre, alzandosi, uscendo dalla stanza e sbattendo la porta. Le era passato oltre, ancora una volta, e Hinata si domandò se lei sarebbe mai riuscita a passargli attraverso. Attraverso il cuore, ad esempio.
           
Sorseggiò a fatica qualche goccio di thè, rinunciando a toccare i biscotti. Le si era chiuso lo stomaco, e nemmeno ne capiva il motivo: doveva ormai essere avvezza a quel genere di comportamento. Quelle scene erano un classico che si ripeteva quasi ogni settimana, a volte anche concedendo bis. Parole cariche di nervosismo, sguardi truci e inutili tentativi di placare una tempesta, cui seguivano il rombo di tuono – porte chiuse violentemente alle spalle o sedie trascinate con poco garbo contro il tavolo.
            «Neji, buongiorno!», rise Hanabi, affianco della sorella. Hinata non si era nemmeno accorta che si trovasse lì, così vicina e solare. «E buongiorno anche a te, Nee-chan!».
            L’aniki sorrise in direzione della ragazzina, ma durò solo un secondo. Quando incrociò gli occhi freddi del cugino, sedutosi vicino alla sua imouto, non poté evitare di ripensare alla freddezza del pomeriggio prima. Osservava la propria mano tremante, che aveva allungato in cerca di aiuto, e si sentì avvampare dall’imbarazzo. Che stupida! Era riuscita a rendersi ancora più patetica e debole, ai suoi occhi.
            «Cos’è quel cerotto?», chiese curiosa Hanabi, sfiorando la guancia della sorella.
            «N-nulla… mi sono graffiata nel sonno», mentì, con un sorriso forzato.
            Neji sollevò scetticamente un sopracciglio, mentre beveva il suo thè. Dopo pochi secondi si alzò di scatto e si avvicinò ai genitori. Osservarli da quella prospettiva, intravedere la serenità sui loro volti, faceva sembrare la loro una famiglia normale, quando così non era.
            «Neji, accompagna anche Hinata, oggi». Sua madre lanciò un’occhiata fugace alla nipote maggiore, per poi tornare a fissare il figlio.
            «Come? Lo zio non vuole… e io non intendo disobbedirgli», dichiarò con tono deciso e riguardevole.
            «Non vorrai però disobbedire ai tuoi genitori!», esclamò sorpreso il padre.
            Il ragazzo sospirò, chiudendo gli occhi. «Non oserei mai», sussurrò.
           
***
           
 
Hinata non capiva come potesse essere davvero successo: per la prima volta da quando Neji aveva conseguito la patente, si trovava nella sua auto, seduta al suo fianco, dopo che Hanabi era scesa alla scuola media.
            Di solito raggiungeva il liceo in bus o in bicicletta, mentre lui vi si recava in solitaria, a bordo della macchina, dopo aver accompagnato la cuginetta al suo istituto, proprio come aveva fatto quella mattina. Erano ordini dello zio, non poteva che obbedire.
            La ragazza osservava la strada che correva fuori dal suo finestrino: le faceva uno strano effetto vederla scorrere così velocemente, rispetto al solito.
           
«Toglilo», le ordinò il giovane, spezzando improvvisamente il silenzio.
            La mora sgranò gli occhi, girandosi lentamente. Stava davvero parlando con lei? Quando era stata l’ultima volta? Forse due settimane fa, a cena, quando lei gli aveva chiesto se, gentilmente, le avesse passato la caraffa dell’acqua.
            «C-cosa?», balbettò confusa.
            «Il cerotto. Levalo. Fa sembrare il danno più grave di quanto non sia, senza contare che merita di essere visto», dichiarò con un tono sprezzante.
            Hinata si strinse una mano al petto, cercando di reprimere il senso di delusione nato da quelle parole. Neji era il degno erede di Hiashi Hyuga, niente a che vedere con la lieve umanità dei suoi genitori.
            «Non me la sento». Lei stessa si stupì per aver trovato la forza di confessarlo.
            Lui si voltò un secondo per guardarla, con aria sorpresa. Poi scoppiò a ridere, mentre parcheggiava, con una manovra netta, davanti alla scuola. Spense il motore e si girò di nuovo verso la mora, con un’espressione più seria e maligna del solito.
           «Non ti è ancora chiaro che a nessuno importa cosa provi, come ti senti, ciò che desideri? Non hai ancora capito che sei viva solo per poter scontare l’Inferno cui sei scampata quel giorno? Come puoi essere così impudente da deludere costantemente quel pover’uomo di tuo padre? Gli hai già spezzato il cuore, e ora cammini sui cocci di quel che rimane di lui, senza nemmeno accorgertene. Come puoi odiarlo tanto? Sei spregevole, Hinata. Non sei degna del nostro nome! Ti nascondi dietro una maschera di timidezza, ma sei una stronza».
            Gli sputò addosso tutta quella cattiveria senza smettere di fissarla dritto negli occhi, cogliendo le reazioni che si erano susseguite sul volto della ragazza: sgomento, stupore, tristezza, autocommiserazione e… era rabbia, quella? Quei pugni chiusi avrebbero attraversato l’atmosfera e trovato un bersaglio? Impossibile, lei era Hinata.
 
Strinse gli occhi e digrignò i denti, impedendo all’urlo di sconforto di schiantarsi contro le pareti dell’abitacolo, da cui Neji era appena sceso.
             Si detestava; era debole, inutile, trasparente agli occhi di tutti e visibile solo a pochi sguardi, solo per essere presa di mira e disprezzata. Non li biasimava, nemmeno questa volta. Quanto avrebbe preferito un altro schiaffo, un calcio in pancia, rispetto a quelle parole dure, taglienti, improvvisamente vere, alle sue orecchie!
            Il cugino aprì di scatto la portiera del lato passeggero e lei trasalì.
           «Scendi», ordinò freddamente. Lei obbedì e indietreggiò di un passo, dando così spazio al ragazzo per richiudere lo sportello.
           Neji si girò e tornò a fissarla con disappunto, soffermandosi sul cerotto. Senza dire una parola, con un gesto fulmineo, glielo strappò di colpo, facendola tremare per il dolore.
          «Gli ordini sono ordini. Quella ferita va sfoggiata come una medaglia, perché te la sei meritata», dichiarò arcigno, lasciandosela poi alle spalle, pronto a entrare nell’atrio.
 
Hinata si massaggiava lentamente la guancia arrossata, cercando di mantenere i piedi saldi sul terreno. L’altra mano era stretta in un pugno, abbandonata lungo il fianco. Avrebbe voluto accasciarsi, piangere e urlare, ma si trattenne. Basta lacrime, delusioni e pensieri: era a scuola, i problemi dovevano rimanere lì fuori, o a casa, dove degli altri l’avrebbero certamente aspettata. Là dentro c’era tutto, fuorché amore.
            Riaprì il palmo della mano, inspirò profondamente e si decise a entrare, tenendo la testa il più alta possibile e sfoggiando la sua consueta aria tranquilla.
 
Nel parcheggio, due occhi carichi di rabbia avevano osservato tutta la scena e un pugno, decisamente meno delicato del suo, si era stretto, desideroso di andare a segno.

 

 
 
Non so ancora bene come questo capitolo sia uscito (soprattutto la prima parte ahah *impaccio alle stelle*). Sul serio, è la prima scena “hot” (or not?) - pseudo-lime - in cui mi cimento e non nascondo di essere:
1. imbarazzata
2. timorosa di aver scritto una vera schifezza
3. imbarazzata, l’ho già detto?
Questa scena non è fine a se stessa, serve in qualche modo a darci un'idea su che tipo sia Karin... beh, non anticipo nulla ;)
Tutto è uscito di getto sulle note di Björk e della sua “Pagan Poetry” messa in loop semi-eterno XD (la mia droga, in questo periodo)
Ma, oltre a lei, ringrazio di tutto cuore le mie carissime “Ophelia’s Angels”: DoubleSkin e Valkiria <3 L’una per avermi trasmesso il coraggio di sperimentare, sperimentare continuamente, l’altra per avermi fatta innamorare delle sensazioni di un cuore puro come quello di Hinata; entrambe per il palpabile affetto e sostegno!
Un grandissimo ringraziamento va a tutti voi che avete letto, recensito, inserito la storia nella preferite, ricordate e seguite. Grazie, grazie, grazie! Per me significa tantissimo, sul serio! :’)
Allora mi aspetto i vostri fiumi di parole (?)… io preparo la barchetta, onde non naufragare ;D
Grazie di nuovo! Un abbraccio,
 
Ophelia  
   
 
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