Buon pomeriggio!
Prima di lasciarvi subito al nuovo capitolo,
vorrei spendere due parole per ringraziare tutti coloro che mi seguono, e che
commentano con passione questa storia.
Non ho davvero parole per esprimere quanta gioia
e orgoglio mi diano le vostre recensioni, così articolate e profonde.
Mi danno l’impressione che tutte le migliaia di
parole di ogni capitolo non siano spese inutilmente, e di questo vi ringrazio
infinitamente!
Grazie per essere sempre presenti e per trovare
un po’ di tempo per “Pietra”. Ve ne sono davvero
grata.
Un caro saluto e buona lettura,
Marta.
Pietra
- sequel di Betulla -
10.
16 Settembre 3019 T. E.
Boromir non aveva mai visto un
cantiere più grande di quello in tutta la sua vita. Aveva posato gli occhi su
eserciti sconfinati di Uomini, Elfi, Orchi, di cadaveri sul campo di battaglia;
ma mai uno di Nani che spostavano, sollevavano, montavano e scolpivano pietre
come se fosse pane quotidiano. Facevano un gran baccano, cantavano ed
imprecavano nella loro antica lingua quando qualcosa andava nel verso
sbagliato, ma erano grandi lavoratori, e si fermavano solo per mangiare un
boccone e riiniziare subito dopo, con più vigore di prima. Erano trascorsi solo
pochi giorni dal loro arrivo, ma Osgiliath stava già cambiando aspetto: era
stata ripulita dai detriti, per lasciar spazio alle officine a cielo aperto e
alle imponenti impalcature di legno; la città che un tempo risuonava di musica
e poesia, ora era scandita dal ritmico martellare contro le pietre. Rise, non
certo senza una buona dose di divertimento, nel vedere alcuni dei suoi Uomini
prendere ordini dai burberi Nani, per aiutarli nel loro lavoro; orgogliosi carpentieri
di Gondor sottomessi al volere di un gruppo di ometti bassi la metà.
Chissà cosa avrebbe pensato suo
padre se avesse visto una scena simile? Ne sarebbe stato divertito come lui, o
indignato?
Non seppe darsi una risposta,
poiché non era più sicuro di conoscere l’uomo che lo aveva cresciuto. Non
nell’ultimo periodo della sua vita. Le parole di Faramir gli tornarono alla
mente, e la dolorosa consapevolezza che non avesse vissuto abbastanza da
condividere con lui la gioia di un nipote lo colpì come un pugno sullo stomaco.
Così come avrebbe voluto la sua benedizione il giorno che avrebbe sposato
Brethil, se mai fosse giunto; sapeva che Denethor dava la sua fiducia molto
raramente, poiché era schivo e diffidente, ma era sicuro che Brethil avesse
fatto breccia nella sua mente, e che gli sarebbe piaciuta l’idea che diventasse
la moglie del suo primogenito. Almeno, Boromir preferiva immaginare così.
Camminava accanto a Dáin che, ad
ogni nuovo edificio che passavano, gli spiegava pazientemente quale sarebbe
stato il loro intervento, e come si immaginava l’opera completa. Boromir non
aveva mai lavorato di fantasia in tutta la sua vita, poiché credeva solo in ciò
che poteva toccare e vedere con i suoi occhi: ma l’ardore e la maestria con cui
il Nano gli descriveva la città, come se fosse già ricostruita, gli dava la
percezione di poterla mirare proprio in quell’istante.
«Per prima cosa ho stabilito che
i resti degli edifici ancora in buone condizioni vengano sbiancati e riportati
al loro colore originario.» gli stava dicendo, sfiorando un concio ancora
annerito. «Il tempo e le intemperie hanno sporcato le pietre di una patina
grigia che andrà via solo dopo qualche giorno di sfregatura. Usiamo delle
spugne in ferro e un particolare pulente costituito da acqua, sale e aceto - qualche
volta ci aggiungiamo persino del limone. Non ha un odore gradevole, ma dopo la
prima pioggia verrà lavato via. Fu mio pro-pro-pro-zio Lóin, fratello di Óin*, ad
inventarlo. Se chiedi ad un Elfo, probabilmente ti dirà che invece furono loro
a farlo, ma suvvia: venderebbero la propria madre pur di prendersene i meriti.
I Nani sono i veri padroni dei segreti di come si tratta una pietra, non certo
loro.»
Boromir scosse mentalmente il
capo, non riuscendo a capire dove quel Nano prendesse tutto quel fiato per
parlare, né il motivo per cui continuasse a punzecchiare gli Elfi in quel modo.
«Sono impressionato, devo ammetterlo.» fece, fermandosi e guardandosi intorno.
«Gimli ha sempre osannato il vostro lavoro, e delle volte pensavo esagerasse; ma
dovevo saggiarlo sulla mia pelle per capire appieno le sue parole.»
Dáin ridacchiò sotto i lunghi
baffi intrecciati. «Gimli, come tutti i Nani, è orgoglioso del suo popolo, e
nessuno di noi userà mai parole sufficienti per descrivere la nostra vita e il
nostro lavoro. Non mi meraviglio, quindi, se dici che abbia esagerato. Ma come
vedi, figliolo, l’esagerazione non è esattamente la realtà.» E iniziò a
raccontargli di come i suoi antenati avessero scavato la bellezza dei Colli
Ferrosi, e di come la sua città somigliasse strutturalmente alla sua tanto
adorata Capitale Bianca. Boromir dovette ammettere di essere incuriosito, ma
l’idea di una Minas Tirith interrata sotto centinaia di metri di pietra non gli
piacque.
«Avete finestre e terrazze?» gli
domandò. Ricordava che, durante l’infinito viaggio a Moria, avesse visto solo
uno spiraglio di luce provenire dall’alto**, e non riusciva a concepire una
vita senza l’aria fresca del vento sul viso.
«Oh, sì, le abbiamo. Non molte, a
dire la verità; sono per lo più di vedetta e sono accessibili solo ai
guardiani. Ma il cerchio dei colli permette un luogo riparato e protetto,
cosicché chiunque voglia uscire all’aria aperta possa farlo senza dover
rischiare di essere attaccato da qualche imprudente. Erebor, invece, ha solo un
terrazzo, e si affaccia sull’ingresso. Molto bello ed imponente, non c’è che
dire.»
«Mi piacerebbe visitare il Nord e
i vostri regni.» Boromir pensò che avrebbe potuto farlo, un giorno,
accompagnato da Brethil che conosceva quelle terre meglio delle sue tasche. Ma
quello era l’ennesimo sogno che sarebbe rimasto tale per parecchi anni.
«Beh, ragazzo mio. Le porte della
mia città sono sempre aperte per te e il tuo popolo.» gli disse, allegramente.
«Ma inviami un’aquila prima di partire; odio farmi trovare impreparato di
fronte alla visita di un amico.»
Boromir sorrise e annuì.
Continuarono il loro sopralluogo con calma, mentre il cantiere attorno a loro
si animava sempre di più. Un soldato di Gondor giunse di corsa, per avvisarlo
di due ospiti inaspettati.
Dáin ridacchiò. «Ah, parli della
mia paura più grande, ed eccola qui! Fortuna che non sono il padrone di casa.»
Il Signore di Osgiliath sembrò
perplesso; non aspettava certo visite durante quel soggiorno. Sapeva che Éomer
avrebbe raggiunto Minas Tirith in quel periodo, ma dubitava che fosse passato
per salutarlo. Seguì il soldato, lasciando indietro Dáin al suo lavoro, e si
chiese chi potesse volere la sua attenzione, finché non svoltò un angolo e vide
un paio di cavalli bruni accettare con gioia le carezze dei propri cavalieri.
Boromir spalancò gli occhi per la sorpresa e li accolse con un abbraccio e un
gioviale sorriso.
«Che mi venga un colpo, non vi
aspettavo certo così presto!» esclamò. Elladan ed Elrohir ricambiarono il
saluto con affetto e risero.
«Avevamo promesso alla nostra thêl che saremmo tornati in tempi
ragionevoli.»
«E noi manteniamo sempre la
parola data.»
Boromir non si sentì così
sollevato da tempo: sapeva quanto Brethil amasse i figli di Elrond e aveva
dovuto sopportare la tristezza del suo viso quando erano partiti. Sapere che
fossero tornati e che il sorriso sarebbe comparso nuovamente su quelle belle
labbra non poté che farlo gioire. «E sarà più che felice di rivedervi, ne sono sicuro.
Ma ella non è qui, si trova a Minas Tirith con il Re.»
Elladan annuì. «Lo sappiamo bene.
Volevamo solo assicurarci che il nostro vecchio amico di Gondor stesse bene, e
con lui la sua città.»
«Non sono mai stato meglio. E
Osgiliath si riprende velocemente, come potete vedere.»
L’espressione di Elrohir nel
guardarsi intorno, circondato di Nani, fu impagabile. «Devi essere proprio un
Uomo coraggioso, Boromir, per sopportare tutta questa testardaggine.»
«Ti ricordo gentilmente che sei
in minoranza qui, messer Mezzelfo. Quindi pondera bene le tue parole.» fece la
voce di Dáin, che infine si era avvicinato, spinto dalla sua sconfinata
curiosità.
L’altro sorrise, senza timore né
la benché minima voglia di litigare. «Ebbene, non siamo qui per riaccendere
vecchi asti, mio buon Nano.» E il fratello gli diede man forte. «Perché,
invece, non ci mostri cosa state facendo, Re dei Colli Ferrosi?»
Boromir alzò gli occhi al cielo,
sforzandosi di non ridere, poiché quei due erano anche peggio di Merry e Pipino
quando si trattava di mettere in mezzo qualcuno. E quale modo migliore vi era,
se non adulare un Nano osannando le fatiche dei suoi lavori? Dáin, ovviamente,
ne era ben consapevole tanto quanto era vanitoso; così s’inchinò profondamente
e riprese a parlare, e parlare ancora. L’Uomo scambiò un’occhiata divertita con
i gemelli, e tutti e tre seguirono il Nano, ormai perduto nel suo monologo.
Si fermarono ad un tavolo, su cui
Rulin e i suoi figli prendevano alcune decisioni e disegnavano il progetto.
Dáin fece le presentazioni, orgoglioso dei suoi lavoratori migliori. «Egli è
Rulin, il miglior carpentiere che i Colli Ferrosi abbiano visto. La sua
famiglia ha una lunga tradizione alle spalle. E loro sono due dei suoi figli, Tarón
e Káir.»
I gemelli li osservarono con
curiosità, mentre quelli li accoglievano con un inchino, ed Elladan gli si
avvicinò. Poi lo riconobbe e il suo viso si fece ancor più luminoso. «Rulin,
discendente di Ainariël, ma certo! È da parecchio che non vieni a trovarci ad
Imladris.»
Quello, che aveva capito subito
chi avesse di fronte, annuì. «La guerra e la mia famiglia mi hanno tenuto
lontano dai vostri confini, mio signore Elladan... o dovrei dire Elrohir?»
I gemelli risero, ed Elrohir, che
era alle spalle del fratello, si affrettò a rassicurarlo di aver detto bene al
primo tentativo.
«E preferisco che lavori
unicamente per me, che per chiunque altro.» aggiunse Dáin, senza nascondere la
sua possessività nei confronti del Nano.
«Sei molto fortunato ad averlo
tra la tua gente.» fece Elrohir. «Egli non solo è un abile carpentiere ed
artista, ma possiede un’infinita saggezza e una buona dose di coraggio.»
I figli del Nano osservarono il
padre con orgoglio, e sebbene non sapessero chi fossero quei due Elfi,
accolsero con fierezza le loro parole.
«Ne sono ben consapevole. Ecco
perché ne sono geloso, figlio di Elrond.» Il Nano riprese a camminare e, con un
cenno del capo, si congedarono, dirigendosi verso Glóin che trasportava pietre
da una parte all’altra.
Káir li osservò finché non
sparirono alla vista, e si voltò sconvolto verso Rulin. «Figlio di Elrond?
Quelli erano i principi di Forraspaccata?»
Il Nano sorrise. «E i Mezzelfi
più amabili che abbia mai conosciuto. Potranno dirvi molto sulla nostra
antenata, se lo volete. Ma ora torniamo a lavoro, abbiamo ancora molto da fare
prima che la giornata termini.»
A non molte leghe di distanza,
nella Città Bianca, qualcuno aveva l’umore a terra, quella mattina. E lei, che
più di lui avrebbe dovuto risentirne, sembrava così felice e spensierata che
per un attimo si chiese se non avesse sognato tutto. Guardò i nipoti, che
lavoravano a testa china accanto a lui, i segni della sgridata che avevano
dovuto subire la notte prima ancora visibili nei loro occhi, e si convinse che
no, non aveva sognato nulla. Lui e Trán avevano discusso pesantemente, lo
ricordava bene. Il sapore amaro di quello schiaffo bruciava ancora il suo ego e
non l’avrebbe perdonata facilmente; oltre al fatto che trovava profondamente
ingiusto che lei fosse di buon umore, mentre lui continuava a rivivere
mentalmente quel diverbio e, soprattutto, la scoperta che aveva fatto su suo
padre.
Ora era a quota due Nani-per-metà ad avergli salvato la
vita, e non si sarebbe stupito se avesse scoperto che anche gli altri fratelli
avessero fatto altrettanto. Non solo doveva ringraziare lei, per quella dannata
freccia che le aveva lasciato una brutta cicatrice sul braccio, ma ora avrebbe
dovuto esprimere la sua profonda gratitudine anche al padre. Ricordava bene
quando era caduto sulle proprie ginocchia, incapace di difendersi a causa della
debolezza data dal troppo sangue perso; non era grave quanto le ferite riportate
durante la Battaglia dei Cinque Eserciti, in cui aveva seriamente rischiato di
morire ed era dovuto rimanere bloccato su un letto per i tre mesi seguenti, ma
nonostante la sua caparbietà nel voler continuare a combattere, non era
riuscito ad alzare il braccio con lo scudo; e se non fosse stato per quella
sagoma che si era frapposta tra lui e il suo assalitore, Thorin non sarebbe
stato lì, quel giorno.
Si passò una mano sulla fronte, interrompendo il suo lavoro
all’incudine per qualche istante. Era tremendamente irritato. Poteva sentire
chiaramente la sua risata, anche se erano distanti ben tre stanze; l’unica cosa
che avrebbe voluto fare in quel momento era di raggiungerla e zittirla in
qualche modo – e che fosse il più duro possibile. Ma ciò che più lo rendeva
irrequieto, e quindi particolarmente suscettibile all’ira, era il fatto che non
riuscisse a togliersi dalla mente l’immagine di lei che gli sorrideva con
imbarazzo, gli occhi azzurri che parevano zaffiri brillanti sotto la luce del
sole, che a volte lo sfidavano, a volte lo evitavano, e quei capelli rossi e
indiavolati, sciolti e mossi che parevano soffici alla sola vista. Quei pochi e
brevi momenti che erano riusciti a ritagliare senza litigare sembravano lontani
anni luce, e si chiese perché ne sentisse la mancanza.
Era anche per questo che la detestava. Perché continuava a
pensare a lei, a quanto fosse graziosa e solare, eppure orgogliosa e testarda
quanto lui; e a quanto avrebbe voluto provare nuovamente la piacevole
sensazione di ricevere un sorriso sincero, solo per sé. Da quando lo stoico
Thorin Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna, perdeva tempo a fantasticare su
una donna? Proprio lui, che deprecava il matrimonio e il cui unico amore era rivolto
alla sua Erebor e al suo popolo!
Il soggetto dei suoi pensieri, d’altro canto, non poteva
essere più felice. E non solo perché si era tolta un peso dallo stomaco
confessando la verità sul gesto di suo padre, ma perché lo schiaffo che aveva
dato al Re di Erebor era stata una liberazione. Quel Nano aveva provato la sua
pazienza più volte e, come aveva temuto ed atteso, il limite era stato
superato, e lei aveva agito di conseguenza. Thorin avrebbe potuto continuare ad
insultarla all’infinito, ma non avrebbe mai accettato ingiurie sul conto di suo
padre, o di un solo singolo fratello. Conosceva bene cosa fosse l’onore e la
dignità, e non gli avrebbe permesso di calpestarli entrambi.
E poi, quel giorno era bello perché la notte precedente si
era confidata per la prima volta con qualcuno che non fosse uno dei suoi
fratelli. Dopo il litigio con il Re, infatti, Brethil le era corsa dietro,
spiegandole come avesse visto la scena – e non per sua scelta, si era
affrettata a dire. Così avevano camminato insieme verso la sua momentanea
residenza, e si era sfogata di tutta la rabbia e le paure che la stavano
consumando. Brethil era un’ottima ascoltatrice, e quando finì si dimostrò anche
una buona confidente. Era una donna ancora misteriosa, per lei, ma era palese
che avesse dovuto affrontare numerose avversità per diventare la persona che
era, e le sue parole l’avevano aiutata ritrovare la calma che la
contraddistingueva. E quel giorno avrebbero pranzato insieme. Chi l’avrebbe mai
detto che potesse essere in grado di stringere amicizia? Con un’Umana, tra
l’altro!
Al rintocco della campana che segnava mezzodì, Trán si
affrettò a finire il suo lavoro. Brethil, d’altra parte, era già giunta alle fucine.
Quando entrò nella sala principale incontrò subito lo sguardo di Thorin; egli
sembrò indurirsi e tornò al suo lavoro, limitandosi a salutarla con un breve
cenno del capo. La donna si era scusata per il comportamento poco signorile
della notte prima, perché essere beccata a spiare non era certo il migliore dei
modi per conquistare il suo rispetto. Ma Thorin non era realmente adirato con
lei, e sapeva che era stata invischiata nelle trame di quei curiosi dei nipoti.
Fili e Kili non alzarono il volto dalla loro postazione, ma Brethil notò con un
certo divertimento che, nonostante la bella sgridata che si erano presi proprio
dallo zio accanto a loro, stavano cercando di nascondere un sorrisino.
Thorin non era stupido, e ovviamente li aveva notati. «Andate
alla mensa senza di me, voi due. Così potrete ridere quando volete senza che io
sia tentato dall’idea di accompagnarvici a calci.»
I due annuirono all’istante e, quando passarono accanto a
Brethil per prendere la via d’uscita, le strizzarono un occhiolino. La donna
scosse mestamente il capo, ma non se ne andò. Incrociò le braccia, poggiandosi
contro il bordo di un tavolo in legno.
«Per quanto mi riguarda, io non ho visto niente.» disse,
guardando ovunque, tranne che il Nano. Thorin annuì e le fu grato. «Ma
permettimi di dirti che te lo sei meritato.»
Il Nano sospirò pesantemente, perché rispettava la donna che
aveva di fronte e non aveva intenzione di litigare anche con lei. Incrociò le
braccia al petto, nella paziente attesa di una spiegazione. «Su quali basi lo
affermi?»
«Conosco i pregiudizi, di qualsiasi natura essi siano, mio
signore. Ho dovuto subire di peggio, e lo sto provando nuovamente sulla mia
pelle in questo ultimo periodo.» Brethil si decise ad osservarlo, i suoi occhi
grigi che si addolcirono un poco. «Io e Trán siamo simili, mio signore:
possiamo accusare gli insulti di chiunque senza battere ciglio, però la
famiglia è sacra. Ma soprattutto, il disprezzo di chi ammiriamo è doppiamente
doloroso, e quello è difficile da sopportare.»
Trán giunse in quel momento, interrompendo la loro
conversazione. Non degnò il Nano di uno sguardo, ma sorrise gioviale alla sua
nuova ed unica amica. «Buon giorno, mia signora! Sono felice che sia venuta.»
«Nessuna formalità, ti prego. Andiamo?»
Brethil e Thorin si scambiarono un’ultima occhiata che
parlava per sé, e le due donne lo lasciarono solo, a rimuginare su quelle
parole che gli avevano accarezzato le orecchie e ora la mente.
Le due raggiunsero velocemente
Fili e Kili, e camminarono insieme verso la mensa dei soldati. L’imbarazzo per
ciò a cui avevano assistito la notte precedente fu spezzato da Trán, che fece
finta di non sapere e iniziò a domandare a Brethil cosa avesse fatto quella
mattina.
Lei sorrise, senza divertimento.
«Ho intavolato una piacevole discussione con il Secondo Capitano di Gondor.»
«È un Uomo affabile?» domandò
ingenuamente Kili.
«Puoi dirmelo tu tra qualche
istante.» replicò la donna, il cui viso s’indurì visibilmente nel vedere
Ecthirion e Mardil camminare nella direzione opposta.
Si guardarono in cagnesco, eppure gli Uomini si fermarono.
Fu il primo a parlare, come
sempre. «Miei gentili ospiti, vedo che la donna di casa sta compiendo il suo
dovere e fa gli onori scortandovi a pranzo. Non è forse questo il tuo compito,
dama Brethil? La prossima mossa quale sarà? Servirai ai tavoli?»
«Se solo potessi farlo, ti
consiglierei caldamente di non presentarti; potrei accidentalmente far cadere
troppo pepe sul tuo piatto. E il Re non ha bisogno di un Generale a corto di
fiato, giacché il tuo lo usi molto per dare aria alla bocca.»
I Nani rimasero scioccati, non
aspettandosi certo un così duro scambio di parole. Ma non avrebbero potuto
immaginare altro, conoscendo la tempra della donna – del resto, era diventata
la Prima Guardia del Re, e un motivo ci sarebbe pur dovuto essere.
Ecthirion divenne paonazzo per
l’ennesimo affronto e si allontanò a passo spedito, borbottando vendetta;
Mardil lo seguì senza fiatare, ma si voltò per lanciarle un ultimo ghigno.
Brethil sospirò di sollievo nel vederli andarsene. Si voltò verso i Nani e
sorrise; il velo di ira era sparito dal suo viso. «Scusate le mie parole, ma le
intendevo tutte.»
Fu allora che Fili e Kili
scoppiarono a ridere, e Trán li seguì molto presto. Il biondo la applaudì. «Mia
signora, sei davvero la donna più incredibile che abbia mai conosciuto. E scusa
le mie parole, ma le intendo tutte.» aggiunse, parafrasandola.
Lei rise. «Ne sono onorata,
mastro Fili. Ma ora andiamo, ho fame.»
Legolas e Gimli erano già seduti,
in attesa che i loro amici li raggiungessero, e Trán sentì lo stomaco
contorcersi inspiegabilmente. Ciò che la sua amica disse poco dopo non l’aiutò
di certo.
«Aragorn arriverà tra poco.» fece
Brethil, salutandoli con un gesto del capo. «E Dama Arwen lo accompagnerà.»
Gimli arrossì. Si sentiva sempre
a disagio quando doveva pranzare allo stesso tavolo della Regina, nonostante
quella non fosse certo la prima volta – il rutto libero, infatti, non era
consentito in presenza della Stella del Vespro. Ma era Trán quella più sorpresa
e spaventata: non solo temeva che Thorin potesse sedersi con loro, ma l’idea
che anche i sovrani di Gondor avrebbero
presenziato al pranzo era troppo per lei. Non poteva crederci.
Trán tirò una manica di Brethil,
attirando la sua attenzione. «Quando dici Aragorn e Dama Arwen, intendi...»
La donna sorrise, notando il suo
disagio, e le indicò due persone alle sue spalle. La Nana seguì il suo sguardo
e sbiancò. Neppure al cospetto del suo Re aveva provato tanto imbarazzo: era
sporca di carbone, puzzava di ferro e indossava l’abito peggiore che potesse
avere; per non parlare dei suoi capelli, le cui trecce erano sfatte e pareva
appena alzata dal letto, mentre i due che aveva di fronte erano talmente belli
e solari, pur indossando abiti di comune fattura, che lei si sentì una
miserabile. Sobbalzò sulla sedia e si affrettò a chinare il capo e la schiena,
ricordando le buone maniere. «M-miei signori.»
Brethil parlò per lei, visto che
la Nana non riusciva farlo. «Ella è Trán, figlia di Rulin, dei Colli Ferrosi.»
La Stella del Vespro sorrise,
avvicinandola e chinandosi, per alzarle il mento con un dito affusolato. «Mae govannen, mellonamin.» le disse, spedendole un brivido lungo la
schiena. Aveva la voce più melodiosa che avesse mai udito. «O forse dovrei dire:
Idmi, bâhinhuh!»
Trán arrossì. Non conosceva l’Elfico,
se non qualche sporadica parola, e ringraziò la sua accortezza per averle
tradotto ciò che le aveva detto. «Grazie, mia signora. È un onore per me,
essere qui.»
«Ed è un onore per noi ospitare
te e la tua famiglia.» fece Aragorn.
Arwen raddrizzò la schiena,
continuando ad osservarla. «Il tuo volto mi riporta alla mente una persona che
conobbi molto tempo fa.»
Vedendo che la Nana aveva perso
l’uso della parola, Legolas decise di darle una mano d’aiuto. «Ella è
discendente di terzo grado di Ainariël la Gemma Rossa, mia signora. E suo padre,
e il padre di suo padre, ha lavorato presso il regno del tuo, tanti anni fa.»
Trán chinò il capo, ringraziando
mentalmente sia Brethil che l’Elfo per aver parlato al suo posto. Thorin, che
era giunto con Dwalin, Balin, Káel e Trión, appena in tempo per godersi lo
spettacolo della ragazzina a corto di parole, incrociò le braccia, a metà tra il
sarcasmo e l’irritazione. Perché mostrava tutto quel rispetto per due sovrani
che non erano i suoi, mentre con lui non si era mai abbassata a tanto?
Nell’udire quelle parole, Arwen
sorrise più apertamente. «Ora capisco, mi ricordo di lei. Ahimè, ha lasciato
queste terre tanto tempo fa.»
Gli occhi di Trán cercarono quelli
della Regina, sentendo uno strano senso di malessere nel profondo del cuore;
non aveva mai pensato di ricercare le sue origini scavando nel passato, ma il
pensiero che la donna che aveva dato inizio alla sua stirpe avesse abbandonato
Arda, privandola della curiosità e della conoscenza, la debilitò. «È... è morta?»
«No.» Arwen le accarezzò una
guancia. «Partì per le Terre Immortali quando il suo amato morì. E voi siete i
suo fratelli, immagino.» aggiunse, guardando oltre le sue spalle.
Káel prese per mano il minore e
si avvicinò inchinandosi. «Káel e Trión, figli di Rulin, al vostro servizio,
miei signori.»
«La vostra famiglia sta dando un
grande aiuto al nostro popolo e alle nostre città, figli di Rulin.» disse
Aragorn, allargando le braccia. «Sedete e pranzate con noi. Sarete affamati.» I
gemelli si scambiarono un’occhiata entusiasta e presero posto allo stesso
tavolo dei sovrani di Gondor, ancora increduli. Thorin si sedette sull’unica
sedia libera rimasta, di fronte alla Nana, e lo fece con grande disappunto; non
aveva voglia di dover sopportare il suono della sua voce o la vista dei suoi
capelli rossi, né intendeva trovare assolutamente deliziosa la tonalità fin
troppo rosea di quelle guance lisce e solitamente pallide, quando la Regina le
rivolgeva la parola. Così spostò l’attenzione ai suoi amici, ed intavolò
discussione con loro.
Il tranquillo pranzo fu però
interrotto bruscamente da una delle guardie di vedetta all’ingresso della
città. «Mio signore, mio Re! È appena arrivato un messo dal Guado sul Poros. È
sfinito, ma dice che è della massima urgenza.»
Aragorn e Brethil si alzarono
contemporaneamente, lasciando la tavola con delle scuse, prima di sparire alla
vista. Legolas e Gimli li seguirono, lasciando la Regina di Gondor sola, in
compagnia di un gruppo di Nani che si osservarono tra loro, senza sapere
esattamente cosa dire o fare – o se dire e fare qualcosa, in realtà. Proseguirono
il pasto in silenzio e fu Thorin, poco più tardi, a spezzare l’aria di
imbarazzo e nervosismo, dopo aver schiarito la gola. «Mia signora, gradite che
vi riaccompagniamo alla Cittadella, prima di tornare al lavoro?»
Arwen sorrise e annuì. «Mi farebbe
piacere, sire Thorin. E vorrei sapere di più su Erebor, se vi andasse di
parlarmene.»
Egli si alzò e le porse il
braccio; pur essendo nettamente più basso di lei, Thorin era comunque più alto
di un comune Nano, e la Regina accettò il galante gesto posandovi sopra una
mano. Lasciarono l’edificio tutti insieme, ma Trán non si sentì di seguire quel
gruppo di persone importanti; oltre al fatto che, vedere Thorin comportarsi
così gentilmente con un Elfo, le fece ribollire il sangue dalla rabbia. Lui,
che tanto disprezzava quella razza, si era tramutato improvvisamente
nell’impeccabile sovrano che sapeva come trattare una dama di corte. E ne fu
gelosa, perché sapeva che non l’avrebbe mai provato sulla sua pelle. Il perché
lo volesse, poi, era un mistero.
Si fece immediatamente da parte
quando sentì gli zoccoli di qualche cavallo, sul lastricato alle sue spalle.
Aragorn e la sua scorta era su uno di essi, e reggeva a stento il corpo
apparentemente senza vita di qualcuno.
«Largo! Fate largo al Re!» gridava
Brethil, che apriva il gruppo di cavalieri, mentre lanciava al trotto Nerian.
Thorin e gli altri osservarono con costernazione la scena, chiedendosi cosa
stesse succedendo e chi fosse il moribondo.
«Gimli, quali notizie?» domandò
il Re dei Nani a quello, che sedeva come sempre alle spalle di Legolas sullo
stesso cavallo.
«Pare che ci siano problemi a
Sud; quel poveretto ha cavalcato senza fermarsi per mangiare e bere, pur di
giungere qui in tempo. Sarà un miracolo se passerà la notte.»
Legolas li tranquillizzò. «Egli è
in buone mani, ora. Aragorn saprà come farlo riprendere; le sue mani sono
quelle di un guaritore.»
Anche quella notte Trán non
riusciva a dormire. Da quando aveva lasciato i Colli Ferrosi, quella stava
diventando una scomoda abitudine. Aveva persino chiesto consiglio a Legolas su
qualche tisana, non riuscendo a parlare con Brethil, probabilmente troppo
indaffarata con le notizie che erano giunte quel giorno. Ma l’Elfo non era
stato di grande aiuto: anche lui aveva ben altro di cui occuparsi, quella
giornata, e con un sorriso enigmatico le aveva detto che non ci fosse infuso
migliore di un riordino dei suoi pensieri e dei suoi demoni. Trán aveva
sospirato, senza capire, e ora si ritrovava nuovamente tra le strade deserte di
Minas Tirith, al quarto livello, poco lontano dalla sua momentanea abitazione.
Si fermò lungo una balaustra, che dava a strapiombo sugli altri tre cerchi
della città, e rimase ad osservare, incantata. Alla sua destra l’imponente mole
della pietra viva che componeva la caratteristica chiglia, la impressionava e
l’affascinava. Si chiese che vista ci potesse essere lassù, ma era anche
consapevole che non sarebbe potuta arrivarci da sola; lì vi erano gli edifici
più importanti della città e sicuramente le guardie non le avrebbero permesso
di passare.
Sbuffò nuovamente, sperando che
il sonno la cogliesse all’improvviso e le desse un po’ di riposo, ma la sua
mente non aveva intenzione di dormire. Si domandò quali fossero le notizie
urgenti giunte a Gondor, e se ci fosse da preoccuparsi. Non aveva alcuna
intenzione di essere nuovamente spinta in un’altra guerra, che tra le altre
cose non sarebbe stata neppure la loro. Era partita per stare accanto alla sua
famiglia e per vivere un’avventura al di fuori dei Colli Ferrosi, non per
rischiare di perdere tutto nuovamente. Anche se non capiva molto come gli
Esterling, che si erano rivelati una minaccia durante il loro viaggio,
potessero creare problemi al Sud di Gondor.
Cacciò via quei pensieri, perché
non era pratica della geografia di quella parte della Terra di Mezzo; e si
ricordò del suo pessimismo, che spesso la portava a vedere oltre e a trarre le
conclusioni sbagliate. Per quanto potesse saperne, quel messaggero avrebbe
potuto portare un trattato di pace e tutto sarebbe concluso prima ancora di
iniziare. E se quelle erano le sue preoccupazioni che aveva tentato di
riordinare, perché continuava a sentirsi più sveglia che mai?
Lì, poggiata con le braccia e il
mento sul parapetto in pietra, non si accorse di qualcuno, sul cerchio
superiore, che la osservava immobile, indeciso se raggiungerla oppure se
tornare ai suoi alloggi. Ma era chiaro che entrambi soffrissero d’insonnia,
quella era l’ennesima prova; e forse era un altro segno di come avrebbe dovuto
cogliere l’occasione al balzo e tentare di avvicinarla ancora una volta, forse
l’ultima. Il ricordo di quello schiaffo era ancora fresco, certo, ma quel gesto
e le parole della donna Umana lo avevano fatto pensare per il resto della
giornata. Possibile che quella Nana lo stimasse sul serio? Possibile che il suo
comportamento fosse solo dettato dalla delusione?
Thorin prese un profondo respiro,
prima di incamminarsi verso delle scale nascoste tra le mura e incassate tra
due edifici, evitandosi di percorrere l’intera lunghezza del quinto cerchio per
scendere al quarto. Il silenzio delle strade fece quasi rimbombare il suo passo
pesante sulla pietra, e lei si voltò di scatto, intimorita. Si rilassò quando
lo riconobbe, ma gli voltò le spalle. Attese che lui dicesse o facesse
qualcosa, ma era evidente che non avesse voglia di fare la prima mossa – né lei
aveva intenzione di mostrarsi debole e desiderosa di scambiare due parole. Così
si mosse, senza fiatare, decisa a tornare alla sua stanza.
«Aspetta, non
andare. Gradirei parlarti.»
Trán sentì
distintamente il proprio cuore accelerare in modo preoccupante. Da quando quel
Nano aveva acquistato quel potere su di lei?
Esattamente da quando lo incontrasti quel
giorno ad Erebor; sei stata solo troppo cieca e adirata per volerlo ammettere
prima.
Decise di non
muovere ulteriori passi, ma continuò a voltargli le spalle, in attesa. Lo sentì
sospirare con pesantezza.
«Hai intenzione di
darmi le spalle per molto ancora?» la rimproverò, la voce bassa e vibrante che
pareva un grido in tutto quel silenzio. «Vorrei guardare in viso il mio interlocutore,
se possibile.»
E io gradirei non farlo, al contrario. «Ebbene?» domandò, voltandosi ed
incrociando le braccia, stando ben attenta a non intercettare quello sguardo
penetrante.
Thorin deglutì,
prima di parlare, e lei si chiese dove fosse finito il Re fiero e bello che,
con gentilezza e calma, prendeva la mano della Regina di Gondor senza battere
ciglio.
«Alla luce di quanto
è accaduto ieri notte – e i giorni precedenti, io... vorrei chiederti una
tregua.»
Trán credette di
aver udito male. «Come, prego?»
«Hai sentito bene,
non mi ripeterò.» Sostenne con freddezza lo sguardo prima perplesso, poi indignato
di lei, chiedendosi come avrebbe reagito a quella assurda richiesta.
«Una tregua? La
chiedi a me?» La Nana rise, senza ironia. «Ho letto e udito così tante storie
sul coraggioso e prode Thorin Scudodiquercia che ha rischiato la sua vita per
riconquistare il suo regno, che ha sacrificato tutto pur di dare una casa al
suo popolo dopo l’arrivo del drago. L’immagine di quel Re in esilio che avrei
voluto conoscere e che ho imparato ad ammirare è ancora qui, da qualche parte
nella mia testa; me l’hai mostrata un paio di volte, ma sta svanendo,
sostituita da un orgoglioso ed arrogante Re che mi detesta senza motivo. Se
vuoi che ti veda per ciò che realmente sei, e che credo tu sia, spetta a te
darmi una tregua, non viceversa. E magari, anche delle scuse.»
«Io non ti detesto.» replicò duramente il Re, quasi senza
rendersene conto e come se non avesse udito altro che quelle poche parole; come
se non avesse udito che lei lo ammirava sul serio, in fondo. No, lui non la
detestava; almeno, non nel profondo e vero senso del termine. Odiava il fatto
che non provasse il minimo riguardo nei suoi confronti, come se non si rendesse
conto di avere un sovrano davanti agli occhi, eppure per questo l’interessava;
odiava che avesse sangue Elfico, eppure con tutte le sue forze gli aveva
dimostrato di essere una fiera Nana da capo a piedi; odiava rendersi conto che
la sua mente volava troppo spesso a lei, anche quando avrebbe dovuto
concentrarsi sui suoi doveri.
In quel senso la odiava.
La odiava perché non riusciva a
farlo sul serio.
La vide arrossire al chiaro di
luna e si chiese se avesse detto o fatto qualcosa di inappropriato, senza
accorgersene. Comprese troppo tardi di aver formulato il suo ultimo pensiero a
voce alta quando lei ripeté le sue parole, incredula.
«Mi odi perché... perché non
riesci ad odiarmi?» Trán si poggiò contro il parapetto in pietra, cercando un
sostegno per sostituire momentaneamente quello debole delle ginocchia, che
parvero cedere sotto quelle parole. Cosa avrebbe dovuto significare? «Mio
signore? È così che hai detto?»
Thorin si passò una mano sul viso
stanco. «In realtà, non so neppure io che cosa ho detto e cosa ho pensato.»
borbottò, a disagio. Da quando non aveva più il controllo della sua stessa lingua?
«Quello che so – e che sto tentando di dire in modo alquanto penoso, è che mi
dispiace. Meriti delle scuse e ti chiedo di perdonarmi per le orribili cose che
ho detto di te e della tua famiglia, ieri come in passato. Forse avrei potuto
evitare di subire la miseria della mia gente se gli Elfi ci avessero aiutato
nel momento del bisogno; e credimi, ho covato così tanto risentimento nei
confronti di quella razza che ne avanzerebbe per le prossime future ere. Ma mi
rendo conto che tu, i tuoi fratelli, e tuo padre, non avete colpa. Mi avete
dimostrato caparbiamente di appartenere solo ai Nani, e lo avete fatto nel
migliore dei modi. Per questo motivo ti chiedo scusa. Ma se non vuoi perdonare
il mio comportamento, lo capisco e lo accetterò.»
Trán si rese conto di essere in
apnea solo quando sentì l’urgente grido dei suoi polmoni che cercavano aria.
Non poteva credere di aver udito quelle parole, provenienti proprio da quelle
labbra che tanto l’avevano disprezzata. Lo vide sostenere il suo sguardo per
qualche istante prima di abbassarlo per il senso di colpa, orgoglioso e fiero
nonostante quella sua personale sconfitta – perché ne era sicura, per Thorin
Scudodiquercia chiedere perdono equivaleva ad una sconfitta.
«Lo dici solo perché ti senti in
debito nei confronti di mio padre?» riuscì a chiedere.
«No, lo dico perché è quello che
credo.»
La Nana annuì, prendendo
coscienza di quelle parole. «Anche io credo in quello che ho detto, mio signore.
E vorrei chiederti scusa a mia volta, per il mio comportamento... infantile. A
volte l’orgoglio mi rende cieca. E... sì, ti ammiro, e vorrei davvero
conoscerti, mio signore. Perciò...» Si fece coraggio per muovere qualche passo
verso di lui, che la osservò ora con curiosità. Sollevò l’orlo della gonna,
inchinandosi in una riverenza lenta e rispettosa. «Il mio nome è Trán, figlia
di Rulin, dei Colli Ferrosi. È un piacere fare la tua conoscenza.»
Fece passare qualche istante di
sorpresa, prima che abbozzasse un sorriso, capendo cosa stesse facendo. Avevano
cominciato con il piede sbagliato, e quello era un buon momento per tentare di cancellare
il passato e rifare tutto dall’inizio. Le prese una mano con gentilezza,
chinandosi. «Thorin, figlio di Thráin, Re Sotto la Montagna, al tuo servizio.
Il piacere è mio.» E così dicendo le accarezzò il dorso con le labbra, in un
bacio casto e lento. Trán sperò profondamente che non percepisse il battito
impazzito del suo cuore.
La riaccompagnò alla sua stanza
con le mani intrecciate dietro la schiena e rimase fermo, davanti alla porta
ormai chiusa, senza sapere bene a cosa pensare. Eppure quella notte, dopo molte
in bianco, entrambi presero sonno facilmente appena poggiarono la testa sul
cuscino, poiché i demoni che stavano combattendo erano stati parzialmente e
finalmente sconfitti.
*
*Non mi riferisco all’Óin figlio di Gróin, che fece parte della compagnia di Thorin, ma di Óin
figlio di Glóin; Lóin, invece, è un Nano di mia invenzione.
** Boromir si riferisce ovviamente alla stanza in
cui trovano la Tomba di Balin e il cadavere di Ori; ovviamente nella mia storia
loro non sono morti, quindi facciamo finta che la Compagnia dell’Anello abbia
sì trovato il libro di Ori, ma che i Nani fossero riusciti a mettersi in salvo
per tempo.
Qualche
idea su ciò che ha da raccontare il messo – sempre che sopravviva? Le acque
cominciano ad agitarsi – wohoho! Mentre sembrano
calmarsi per due testoni di nostra conoscenza. ;)
Alla
settimana prossima,
Marta. :)