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Autore: kenjina    27/09/2013    3 recensioni
- Betulla sequel -
«Vedo che anche oggi ti sei dato da fare. Trascorri più tempo rinchiuso lì dentro, piuttosto che nella Sala del Trono, mio Re.»
Thorin fece una smorfia ironica. «Sai bene quanto non mi piaccia stare con le mani in mano.»
«Ebbene, non sarò certo io a trascinarti lontano dalla fucina tirandoti per un orecchio!» Balin strizzò un occhio, porgendogli una pergamena. «Ma forse c’è qualcuno, là fuori, che avrà il potere di osare ben oltre.»
L’altro si voltò per guardare l’anziano Nano, che aveva ora tutta la sua attenzione. Prese il rotolo di carta ancora chiuso ed osservò con interesse la cera che lo sigillava: era un albero incorniciato da sette stelle, con una corona alata in alto.
Era lo stemma di Gondor.

(tratto dal secondo capitolo)
Genere: Avventura, Guerra, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Boromir, Nuovo personaggio, Thorin Scudodiquercia, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Foreste di Betulle; giardini di Pietra.'
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Buon pomeriggio!

Prima di lasciarvi subito al nuovo capitolo, vorrei spendere due parole per ringraziare tutti coloro che mi seguono, e che commentano con passione questa storia.

Non ho davvero parole per esprimere quanta gioia e orgoglio mi diano le vostre recensioni, così articolate e profonde.

Mi danno l’impressione che tutte le migliaia di parole di ogni capitolo non siano spese inutilmente, e di questo vi ringrazio infinitamente!

Grazie per essere sempre presenti e per trovare un po’ di tempo per “Pietra”. Ve ne sono davvero grata.

Un caro saluto e buona lettura,

Marta.

 

 

Pietra

-  sequel di Betulla -

 

 

 

10.

 

16 Settembre 3019 T. E.

 

Boromir non aveva mai visto un cantiere più grande di quello in tutta la sua vita. Aveva posato gli occhi su eserciti sconfinati di Uomini, Elfi, Orchi, di cadaveri sul campo di battaglia; ma mai uno di Nani che spostavano, sollevavano, montavano e scolpivano pietre come se fosse pane quotidiano. Facevano un gran baccano, cantavano ed imprecavano nella loro antica lingua quando qualcosa andava nel verso sbagliato, ma erano grandi lavoratori, e si fermavano solo per mangiare un boccone e riiniziare subito dopo, con più vigore di prima. Erano trascorsi solo pochi giorni dal loro arrivo, ma Osgiliath stava già cambiando aspetto: era stata ripulita dai detriti, per lasciar spazio alle officine a cielo aperto e alle imponenti impalcature di legno; la città che un tempo risuonava di musica e poesia, ora era scandita dal ritmico martellare contro le pietre. Rise, non certo senza una buona dose di divertimento, nel vedere alcuni dei suoi Uomini prendere ordini dai burberi Nani, per aiutarli nel loro lavoro; orgogliosi carpentieri di Gondor sottomessi al volere di un gruppo di ometti bassi la metà.

Chissà cosa avrebbe pensato suo padre se avesse visto una scena simile? Ne sarebbe stato divertito come lui, o indignato?

Non seppe darsi una risposta, poiché non era più sicuro di conoscere l’uomo che lo aveva cresciuto. Non nell’ultimo periodo della sua vita. Le parole di Faramir gli tornarono alla mente, e la dolorosa consapevolezza che non avesse vissuto abbastanza da condividere con lui la gioia di un nipote lo colpì come un pugno sullo stomaco. Così come avrebbe voluto la sua benedizione il giorno che avrebbe sposato Brethil, se mai fosse giunto; sapeva che Denethor dava la sua fiducia molto raramente, poiché era schivo e diffidente, ma era sicuro che Brethil avesse fatto breccia nella sua mente, e che gli sarebbe piaciuta l’idea che diventasse la moglie del suo primogenito. Almeno, Boromir preferiva immaginare così.

Camminava accanto a Dáin che, ad ogni nuovo edificio che passavano, gli spiegava pazientemente quale sarebbe stato il loro intervento, e come si immaginava l’opera completa. Boromir non aveva mai lavorato di fantasia in tutta la sua vita, poiché credeva solo in ciò che poteva toccare e vedere con i suoi occhi: ma l’ardore e la maestria con cui il Nano gli descriveva la città, come se fosse già ricostruita, gli dava la percezione di poterla mirare proprio in quell’istante.

«Per prima cosa ho stabilito che i resti degli edifici ancora in buone condizioni vengano sbiancati e riportati al loro colore originario.» gli stava dicendo, sfiorando un concio ancora annerito. «Il tempo e le intemperie hanno sporcato le pietre di una patina grigia che andrà via solo dopo qualche giorno di sfregatura. Usiamo delle spugne in ferro e un particolare pulente costituito da acqua, sale e aceto - qualche volta ci aggiungiamo persino del limone. Non ha un odore gradevole, ma dopo la prima pioggia verrà lavato via. Fu mio pro-pro-pro-zio Lóin, fratello di Óin*, ad inventarlo. Se chiedi ad un Elfo, probabilmente ti dirà che invece furono loro a farlo, ma suvvia: venderebbero la propria madre pur di prendersene i meriti. I Nani sono i veri padroni dei segreti di come si tratta una pietra, non certo loro.»

Boromir scosse mentalmente il capo, non riuscendo a capire dove quel Nano prendesse tutto quel fiato per parlare, né il motivo per cui continuasse a punzecchiare gli Elfi in quel modo. «Sono impressionato, devo ammetterlo.» fece, fermandosi e guardandosi intorno. «Gimli ha sempre osannato il vostro lavoro, e delle volte pensavo esagerasse; ma dovevo saggiarlo sulla mia pelle per capire appieno le sue parole.»

Dáin ridacchiò sotto i lunghi baffi intrecciati. «Gimli, come tutti i Nani, è orgoglioso del suo popolo, e nessuno di noi userà mai parole sufficienti per descrivere la nostra vita e il nostro lavoro. Non mi meraviglio, quindi, se dici che abbia esagerato. Ma come vedi, figliolo, l’esagerazione non è esattamente la realtà.» E iniziò a raccontargli di come i suoi antenati avessero scavato la bellezza dei Colli Ferrosi, e di come la sua città somigliasse strutturalmente alla sua tanto adorata Capitale Bianca. Boromir dovette ammettere di essere incuriosito, ma l’idea di una Minas Tirith interrata sotto centinaia di metri di pietra non gli piacque.

«Avete finestre e terrazze?» gli domandò. Ricordava che, durante l’infinito viaggio a Moria, avesse visto solo uno spiraglio di luce provenire dall’alto**, e non riusciva a concepire una vita senza l’aria fresca del vento sul viso.

«Oh, sì, le abbiamo. Non molte, a dire la verità; sono per lo più di vedetta e sono accessibili solo ai guardiani. Ma il cerchio dei colli permette un luogo riparato e protetto, cosicché chiunque voglia uscire all’aria aperta possa farlo senza dover rischiare di essere attaccato da qualche imprudente. Erebor, invece, ha solo un terrazzo, e si affaccia sull’ingresso. Molto bello ed imponente, non c’è che dire.»

«Mi piacerebbe visitare il Nord e i vostri regni.» Boromir pensò che avrebbe potuto farlo, un giorno, accompagnato da Brethil che conosceva quelle terre meglio delle sue tasche. Ma quello era l’ennesimo sogno che sarebbe rimasto tale per parecchi anni.

«Beh, ragazzo mio. Le porte della mia città sono sempre aperte per te e il tuo popolo.» gli disse, allegramente. «Ma inviami un’aquila prima di partire; odio farmi trovare impreparato di fronte alla visita di un amico.»

Boromir sorrise e annuì. Continuarono il loro sopralluogo con calma, mentre il cantiere attorno a loro si animava sempre di più. Un soldato di Gondor giunse di corsa, per avvisarlo di due ospiti inaspettati.

Dáin ridacchiò. «Ah, parli della mia paura più grande, ed eccola qui! Fortuna che non sono il padrone di casa.»

Il Signore di Osgiliath sembrò perplesso; non aspettava certo visite durante quel soggiorno. Sapeva che Éomer avrebbe raggiunto Minas Tirith in quel periodo, ma dubitava che fosse passato per salutarlo. Seguì il soldato, lasciando indietro Dáin al suo lavoro, e si chiese chi potesse volere la sua attenzione, finché non svoltò un angolo e vide un paio di cavalli bruni accettare con gioia le carezze dei propri cavalieri. Boromir spalancò gli occhi per la sorpresa e li accolse con un abbraccio e un gioviale sorriso.

«Che mi venga un colpo, non vi aspettavo certo così presto!» esclamò. Elladan ed Elrohir ricambiarono il saluto con affetto e risero.

«Avevamo promesso alla nostra thêl che saremmo tornati in tempi ragionevoli.»

«E noi manteniamo sempre la parola data.»

Boromir non si sentì così sollevato da tempo: sapeva quanto Brethil amasse i figli di Elrond e aveva dovuto sopportare la tristezza del suo viso quando erano partiti. Sapere che fossero tornati e che il sorriso sarebbe comparso nuovamente su quelle belle labbra non poté che farlo gioire. «E sarà più che felice di rivedervi, ne sono sicuro. Ma ella non è qui, si trova a Minas Tirith con il Re.»

Elladan annuì. «Lo sappiamo bene. Volevamo solo assicurarci che il nostro vecchio amico di Gondor stesse bene, e con lui la sua città.»

«Non sono mai stato meglio. E Osgiliath si riprende velocemente, come potete vedere.»

L’espressione di Elrohir nel guardarsi intorno, circondato di Nani, fu impagabile. «Devi essere proprio un Uomo coraggioso, Boromir, per sopportare tutta questa testardaggine.»

«Ti ricordo gentilmente che sei in minoranza qui, messer Mezzelfo. Quindi pondera bene le tue parole.» fece la voce di Dáin, che infine si era avvicinato, spinto dalla sua sconfinata curiosità.

L’altro sorrise, senza timore né la benché minima voglia di litigare. «Ebbene, non siamo qui per riaccendere vecchi asti, mio buon Nano.» E il fratello gli diede man forte. «Perché, invece, non ci mostri cosa state facendo, Re dei Colli Ferrosi?»

Boromir alzò gli occhi al cielo, sforzandosi di non ridere, poiché quei due erano anche peggio di Merry e Pipino quando si trattava di mettere in mezzo qualcuno. E quale modo migliore vi era, se non adulare un Nano osannando le fatiche dei suoi lavori? Dáin, ovviamente, ne era ben consapevole tanto quanto era vanitoso; così s’inchinò profondamente e riprese a parlare, e parlare ancora. L’Uomo scambiò un’occhiata divertita con i gemelli, e tutti e tre seguirono il Nano, ormai perduto nel suo monologo.

Si fermarono ad un tavolo, su cui Rulin e i suoi figli prendevano alcune decisioni e disegnavano il progetto. Dáin fece le presentazioni, orgoglioso dei suoi lavoratori migliori. «Egli è Rulin, il miglior carpentiere che i Colli Ferrosi abbiano visto. La sua famiglia ha una lunga tradizione alle spalle. E loro sono due dei suoi figli, Tarón e Káir.»

I gemelli li osservarono con curiosità, mentre quelli li accoglievano con un inchino, ed Elladan gli si avvicinò. Poi lo riconobbe e il suo viso si fece ancor più luminoso. «Rulin, discendente di Ainariël, ma certo! È da parecchio che non vieni a trovarci ad Imladris.»

Quello, che aveva capito subito chi avesse di fronte, annuì. «La guerra e la mia famiglia mi hanno tenuto lontano dai vostri confini, mio signore Elladan... o dovrei dire Elrohir?»

I gemelli risero, ed Elrohir, che era alle spalle del fratello, si affrettò a rassicurarlo di aver detto bene al primo tentativo.

«E preferisco che lavori unicamente per me, che per chiunque altro.» aggiunse Dáin, senza nascondere la sua possessività nei confronti del Nano.

«Sei molto fortunato ad averlo tra la tua gente.» fece Elrohir. «Egli non solo è un abile carpentiere ed artista, ma possiede un’infinita saggezza e una buona dose di coraggio.»

I figli del Nano osservarono il padre con orgoglio, e sebbene non sapessero chi fossero quei due Elfi, accolsero con fierezza le loro parole.

«Ne sono ben consapevole. Ecco perché ne sono geloso, figlio di Elrond.» Il Nano riprese a camminare e, con un cenno del capo, si congedarono, dirigendosi verso Glóin che trasportava pietre da una parte all’altra.

Káir li osservò finché non sparirono alla vista, e si voltò sconvolto verso Rulin. «Figlio di Elrond? Quelli erano i principi di Forraspaccata?»

Il Nano sorrise. «E i Mezzelfi più amabili che abbia mai conosciuto. Potranno dirvi molto sulla nostra antenata, se lo volete. Ma ora torniamo a lavoro, abbiamo ancora molto da fare prima che la giornata termini.»

 

 

A non molte leghe di distanza, nella Città Bianca, qualcuno aveva l’umore a terra, quella mattina. E lei, che più di lui avrebbe dovuto risentirne, sembrava così felice e spensierata che per un attimo si chiese se non avesse sognato tutto. Guardò i nipoti, che lavoravano a testa china accanto a lui, i segni della sgridata che avevano dovuto subire la notte prima ancora visibili nei loro occhi, e si convinse che no, non aveva sognato nulla. Lui e Trán avevano discusso pesantemente, lo ricordava bene. Il sapore amaro di quello schiaffo bruciava ancora il suo ego e non l’avrebbe perdonata facilmente; oltre al fatto che trovava profondamente ingiusto che lei fosse di buon umore, mentre lui continuava a rivivere mentalmente quel diverbio e, soprattutto, la scoperta che aveva fatto su suo padre.

Ora era a quota due Nani-per-metà ad avergli salvato la vita, e non si sarebbe stupito se avesse scoperto che anche gli altri fratelli avessero fatto altrettanto. Non solo doveva ringraziare lei, per quella dannata freccia che le aveva lasciato una brutta cicatrice sul braccio, ma ora avrebbe dovuto esprimere la sua profonda gratitudine anche al padre. Ricordava bene quando era caduto sulle proprie ginocchia, incapace di difendersi a causa della debolezza data dal troppo sangue perso; non era grave quanto le ferite riportate durante la Battaglia dei Cinque Eserciti, in cui aveva seriamente rischiato di morire ed era dovuto rimanere bloccato su un letto per i tre mesi seguenti, ma nonostante la sua caparbietà nel voler continuare a combattere, non era riuscito ad alzare il braccio con lo scudo; e se non fosse stato per quella sagoma che si era frapposta tra lui e il suo assalitore, Thorin non sarebbe stato lì, quel giorno.

Si passò una mano sulla fronte, interrompendo il suo lavoro all’incudine per qualche istante. Era tremendamente irritato. Poteva sentire chiaramente la sua risata, anche se erano distanti ben tre stanze; l’unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento era di raggiungerla e zittirla in qualche modo – e che fosse il più duro possibile. Ma ciò che più lo rendeva irrequieto, e quindi particolarmente suscettibile all’ira, era il fatto che non riuscisse a togliersi dalla mente l’immagine di lei che gli sorrideva con imbarazzo, gli occhi azzurri che parevano zaffiri brillanti sotto la luce del sole, che a volte lo sfidavano, a volte lo evitavano, e quei capelli rossi e indiavolati, sciolti e mossi che parevano soffici alla sola vista. Quei pochi e brevi momenti che erano riusciti a ritagliare senza litigare sembravano lontani anni luce, e si chiese perché ne sentisse la mancanza.

Era anche per questo che la detestava. Perché continuava a pensare a lei, a quanto fosse graziosa e solare, eppure orgogliosa e testarda quanto lui; e a quanto avrebbe voluto provare nuovamente la piacevole sensazione di ricevere un sorriso sincero, solo per sé. Da quando lo stoico Thorin Scudodiquercia, Re Sotto la Montagna, perdeva tempo a fantasticare su una donna? Proprio lui, che deprecava il matrimonio e il cui unico amore era rivolto alla sua Erebor e al suo popolo!

Il soggetto dei suoi pensieri, d’altro canto, non poteva essere più felice. E non solo perché si era tolta un peso dallo stomaco confessando la verità sul gesto di suo padre, ma perché lo schiaffo che aveva dato al Re di Erebor era stata una liberazione. Quel Nano aveva provato la sua pazienza più volte e, come aveva temuto ed atteso, il limite era stato superato, e lei aveva agito di conseguenza. Thorin avrebbe potuto continuare ad insultarla all’infinito, ma non avrebbe mai accettato ingiurie sul conto di suo padre, o di un solo singolo fratello. Conosceva bene cosa fosse l’onore e la dignità, e non gli avrebbe permesso di calpestarli entrambi.

E poi, quel giorno era bello perché la notte precedente si era confidata per la prima volta con qualcuno che non fosse uno dei suoi fratelli. Dopo il litigio con il Re, infatti, Brethil le era corsa dietro, spiegandole come avesse visto la scena – e non per sua scelta, si era affrettata a dire. Così avevano camminato insieme verso la sua momentanea residenza, e si era sfogata di tutta la rabbia e le paure che la stavano consumando. Brethil era un’ottima ascoltatrice, e quando finì si dimostrò anche una buona confidente. Era una donna ancora misteriosa, per lei, ma era palese che avesse dovuto affrontare numerose avversità per diventare la persona che era, e le sue parole l’avevano aiutata ritrovare la calma che la contraddistingueva. E quel giorno avrebbero pranzato insieme. Chi l’avrebbe mai detto che potesse essere in grado di stringere amicizia? Con un’Umana, tra l’altro!

Al rintocco della campana che segnava mezzodì, Trán si affrettò a finire il suo lavoro. Brethil, d’altra parte, era già giunta alle fucine. Quando entrò nella sala principale incontrò subito lo sguardo di Thorin; egli sembrò indurirsi e tornò al suo lavoro, limitandosi a salutarla con un breve cenno del capo. La donna si era scusata per il comportamento poco signorile della notte prima, perché essere beccata a spiare non era certo il migliore dei modi per conquistare il suo rispetto. Ma Thorin non era realmente adirato con lei, e sapeva che era stata invischiata nelle trame di quei curiosi dei nipoti. Fili e Kili non alzarono il volto dalla loro postazione, ma Brethil notò con un certo divertimento che, nonostante la bella sgridata che si erano presi proprio dallo zio accanto a loro, stavano cercando di nascondere un sorrisino.

Thorin non era stupido, e ovviamente li aveva notati. «Andate alla mensa senza di me, voi due. Così potrete ridere quando volete senza che io sia tentato dall’idea di accompagnarvici a calci.»

I due annuirono all’istante e, quando passarono accanto a Brethil per prendere la via d’uscita, le strizzarono un occhiolino. La donna scosse mestamente il capo, ma non se ne andò. Incrociò le braccia, poggiandosi contro il bordo di un tavolo in legno.

«Per quanto mi riguarda, io non ho visto niente.» disse, guardando ovunque, tranne che il Nano. Thorin annuì e le fu grato. «Ma permettimi di dirti che te lo sei meritato.»

Il Nano sospirò pesantemente, perché rispettava la donna che aveva di fronte e non aveva intenzione di litigare anche con lei. Incrociò le braccia al petto, nella paziente attesa di una spiegazione. «Su quali basi lo affermi?»

«Conosco i pregiudizi, di qualsiasi natura essi siano, mio signore. Ho dovuto subire di peggio, e lo sto provando nuovamente sulla mia pelle in questo ultimo periodo.» Brethil si decise ad osservarlo, i suoi occhi grigi che si addolcirono un poco. «Io e Trán siamo simili, mio signore: possiamo accusare gli insulti di chiunque senza battere ciglio, però la famiglia è sacra. Ma soprattutto, il disprezzo di chi ammiriamo è doppiamente doloroso, e quello è difficile da sopportare.»

Trán giunse in quel momento, interrompendo la loro conversazione. Non degnò il Nano di uno sguardo, ma sorrise gioviale alla sua nuova ed unica amica. «Buon giorno, mia signora! Sono felice che sia venuta.»

«Nessuna formalità, ti prego. Andiamo?»

Brethil e Thorin si scambiarono un’ultima occhiata che parlava per sé, e le due donne lo lasciarono solo, a rimuginare su quelle parole che gli avevano accarezzato le orecchie e ora la mente.

Le due raggiunsero velocemente Fili e Kili, e camminarono insieme verso la mensa dei soldati. L’imbarazzo per ciò a cui avevano assistito la notte precedente fu spezzato da Trán, che fece finta di non sapere e iniziò a domandare a Brethil cosa avesse fatto quella mattina.

Lei sorrise, senza divertimento. «Ho intavolato una piacevole discussione con il Secondo Capitano di Gondor.»

«È un Uomo affabile?» domandò ingenuamente Kili.

«Puoi dirmelo tu tra qualche istante.» replicò la donna, il cui viso s’indurì visibilmente nel vedere Ecthirion e Mardil camminare nella direzione opposta. Si guardarono in cagnesco, eppure gli Uomini si fermarono.

Fu il primo a parlare, come sempre. «Miei gentili ospiti, vedo che la donna di casa sta compiendo il suo dovere e fa gli onori scortandovi a pranzo. Non è forse questo il tuo compito, dama Brethil? La prossima mossa quale sarà? Servirai ai tavoli?»

«Se solo potessi farlo, ti consiglierei caldamente di non presentarti; potrei accidentalmente far cadere troppo pepe sul tuo piatto. E il Re non ha bisogno di un Generale a corto di fiato, giacché il tuo lo usi molto per dare aria alla bocca.»

I Nani rimasero scioccati, non aspettandosi certo un così duro scambio di parole. Ma non avrebbero potuto immaginare altro, conoscendo la tempra della donna – del resto, era diventata la Prima Guardia del Re, e un motivo ci sarebbe pur dovuto essere.

Ecthirion divenne paonazzo per l’ennesimo affronto e si allontanò a passo spedito, borbottando vendetta; Mardil lo seguì senza fiatare, ma si voltò per lanciarle un ultimo ghigno. Brethil sospirò di sollievo nel vederli andarsene. Si voltò verso i Nani e sorrise; il velo di ira era sparito dal suo viso. «Scusate le mie parole, ma le intendevo tutte.»

Fu allora che Fili e Kili scoppiarono a ridere, e Trán li seguì molto presto. Il biondo la applaudì. «Mia signora, sei davvero la donna più incredibile che abbia mai conosciuto. E scusa le mie parole, ma le intendo tutte.» aggiunse, parafrasandola.

Lei rise. «Ne sono onorata, mastro Fili. Ma ora andiamo, ho fame.»

Legolas e Gimli erano già seduti, in attesa che i loro amici li raggiungessero, e Trán sentì lo stomaco contorcersi inspiegabilmente. Ciò che la sua amica disse poco dopo non l’aiutò di certo.

«Aragorn arriverà tra poco.» fece Brethil, salutandoli con un gesto del capo. «E Dama Arwen lo accompagnerà.»

Gimli arrossì. Si sentiva sempre a disagio quando doveva pranzare allo stesso tavolo della Regina, nonostante quella non fosse certo la prima volta – il rutto libero, infatti, non era consentito in presenza della Stella del Vespro. Ma era Trán quella più sorpresa e spaventata: non solo temeva che Thorin potesse sedersi con loro, ma l’idea che anche i sovrani di Gondor  avrebbero presenziato al pranzo era troppo per lei. Non poteva crederci.

Trán tirò una manica di Brethil, attirando la sua attenzione. «Quando dici Aragorn e Dama Arwen, intendi...»

La donna sorrise, notando il suo disagio, e le indicò due persone alle sue spalle. La Nana seguì il suo sguardo e sbiancò. Neppure al cospetto del suo Re aveva provato tanto imbarazzo: era sporca di carbone, puzzava di ferro e indossava l’abito peggiore che potesse avere; per non parlare dei suoi capelli, le cui trecce erano sfatte e pareva appena alzata dal letto, mentre i due che aveva di fronte erano talmente belli e solari, pur indossando abiti di comune fattura, che lei si sentì una miserabile. Sobbalzò sulla sedia e si affrettò a chinare il capo e la schiena, ricordando le buone maniere. «M-miei signori.»

Brethil parlò per lei, visto che la Nana non riusciva farlo. «Ella è Trán, figlia di Rulin, dei Colli Ferrosi.»

La Stella del Vespro sorrise, avvicinandola e chinandosi, per alzarle il mento con un dito affusolato. «Mae govannen, mellonamin.» le disse, spedendole un brivido lungo la schiena. Aveva la voce più melodiosa che avesse mai udito. «O forse dovrei dire: Idmi, bâhinhuh!»

Trán arrossì. Non conosceva l’Elfico, se non qualche sporadica parola, e ringraziò la sua accortezza per averle tradotto ciò che le aveva detto. «Grazie, mia signora. È un onore per me, essere qui.»

«Ed è un onore per noi ospitare te e la tua famiglia.» fece Aragorn.

Arwen raddrizzò la schiena, continuando ad osservarla. «Il tuo volto mi riporta alla mente una persona che conobbi molto tempo fa.»

Vedendo che la Nana aveva perso l’uso della parola, Legolas decise di darle una mano d’aiuto. «Ella è discendente di terzo grado di Ainariël la Gemma Rossa, mia signora. E suo padre, e il padre di suo padre, ha lavorato presso il regno del tuo, tanti anni fa.»

Trán chinò il capo, ringraziando mentalmente sia Brethil che l’Elfo per aver parlato al suo posto. Thorin, che era giunto con Dwalin, Balin, Káel e Trión, appena in tempo per godersi lo spettacolo della ragazzina a corto di parole, incrociò le braccia, a metà tra il sarcasmo e l’irritazione. Perché mostrava tutto quel rispetto per due sovrani che non erano i suoi, mentre con lui non si era mai abbassata a tanto?

Nell’udire quelle parole, Arwen sorrise più apertamente. «Ora capisco, mi ricordo di lei. Ahimè, ha lasciato queste terre tanto tempo fa.»

Gli occhi di Trán cercarono quelli della Regina, sentendo uno strano senso di malessere nel profondo del cuore; non aveva mai pensato di ricercare le sue origini scavando nel passato, ma il pensiero che la donna che aveva dato inizio alla sua stirpe avesse abbandonato Arda, privandola della curiosità e della conoscenza, la debilitò. «È... è morta?»

«No.» Arwen le accarezzò una guancia. «Partì per le Terre Immortali quando il suo amato morì. E voi siete i suo fratelli, immagino.» aggiunse, guardando oltre le sue spalle.

Káel prese per mano il minore e si avvicinò inchinandosi. «Káel e Trión, figli di Rulin, al vostro servizio, miei signori.»

«La vostra famiglia sta dando un grande aiuto al nostro popolo e alle nostre città, figli di Rulin.» disse Aragorn, allargando le braccia. «Sedete e pranzate con noi. Sarete affamati.» I gemelli si scambiarono un’occhiata entusiasta e presero posto allo stesso tavolo dei sovrani di Gondor, ancora increduli. Thorin si sedette sull’unica sedia libera rimasta, di fronte alla Nana, e lo fece con grande disappunto; non aveva voglia di dover sopportare il suono della sua voce o la vista dei suoi capelli rossi, né intendeva trovare assolutamente deliziosa la tonalità fin troppo rosea di quelle guance lisce e solitamente pallide, quando la Regina le rivolgeva la parola. Così spostò l’attenzione ai suoi amici, ed intavolò discussione con loro.

Il tranquillo pranzo fu però interrotto bruscamente da una delle guardie di vedetta all’ingresso della città. «Mio signore, mio Re! È appena arrivato un messo dal Guado sul Poros. È sfinito, ma dice che è della massima urgenza.»

Aragorn e Brethil si alzarono contemporaneamente, lasciando la tavola con delle scuse, prima di sparire alla vista. Legolas e Gimli li seguirono, lasciando la Regina di Gondor sola, in compagnia di un gruppo di Nani che si osservarono tra loro, senza sapere esattamente cosa dire o fare – o se dire e fare qualcosa, in realtà. Proseguirono il pasto in silenzio e fu Thorin, poco più tardi, a spezzare l’aria di imbarazzo e nervosismo, dopo aver schiarito la gola. «Mia signora, gradite che vi riaccompagniamo alla Cittadella, prima di tornare al lavoro?»

Arwen sorrise e annuì. «Mi farebbe piacere, sire Thorin. E vorrei sapere di più su Erebor, se vi andasse di parlarmene.»

Egli si alzò e le porse il braccio; pur essendo nettamente più basso di lei, Thorin era comunque più alto di un comune Nano, e la Regina accettò il galante gesto posandovi sopra una mano. Lasciarono l’edificio tutti insieme, ma Trán non si sentì di seguire quel gruppo di persone importanti; oltre al fatto che, vedere Thorin comportarsi così gentilmente con un Elfo, le fece ribollire il sangue dalla rabbia. Lui, che tanto disprezzava quella razza, si era tramutato improvvisamente nell’impeccabile sovrano che sapeva come trattare una dama di corte. E ne fu gelosa, perché sapeva che non l’avrebbe mai provato sulla sua pelle. Il perché lo volesse, poi, era un mistero.

Si fece immediatamente da parte quando sentì gli zoccoli di qualche cavallo, sul lastricato alle sue spalle. Aragorn e la sua scorta era su uno di essi, e reggeva a stento il corpo apparentemente senza vita di qualcuno.

«Largo! Fate largo al Re!» gridava Brethil, che apriva il gruppo di cavalieri, mentre lanciava al trotto Nerian. Thorin e gli altri osservarono con costernazione la scena, chiedendosi cosa stesse succedendo e chi fosse il moribondo.

«Gimli, quali notizie?» domandò il Re dei Nani a quello, che sedeva come sempre alle spalle di Legolas sullo stesso cavallo.

«Pare che ci siano problemi a Sud; quel poveretto ha cavalcato senza fermarsi per mangiare e bere, pur di giungere qui in tempo. Sarà un miracolo se passerà la notte.»

Legolas li tranquillizzò. «Egli è in buone mani, ora. Aragorn saprà come farlo riprendere; le sue mani sono quelle di un guaritore.»

 

 

Anche quella notte Trán non riusciva a dormire. Da quando aveva lasciato i Colli Ferrosi, quella stava diventando una scomoda abitudine. Aveva persino chiesto consiglio a Legolas su qualche tisana, non riuscendo a parlare con Brethil, probabilmente troppo indaffarata con le notizie che erano giunte quel giorno. Ma l’Elfo non era stato di grande aiuto: anche lui aveva ben altro di cui occuparsi, quella giornata, e con un sorriso enigmatico le aveva detto che non ci fosse infuso migliore di un riordino dei suoi pensieri e dei suoi demoni. Trán aveva sospirato, senza capire, e ora si ritrovava nuovamente tra le strade deserte di Minas Tirith, al quarto livello, poco lontano dalla sua momentanea abitazione. Si fermò lungo una balaustra, che dava a strapiombo sugli altri tre cerchi della città, e rimase ad osservare, incantata. Alla sua destra l’imponente mole della pietra viva che componeva la caratteristica chiglia, la impressionava e l’affascinava. Si chiese che vista ci potesse essere lassù, ma era anche consapevole che non sarebbe potuta arrivarci da sola; lì vi erano gli edifici più importanti della città e sicuramente le guardie non le avrebbero permesso di passare.

Sbuffò nuovamente, sperando che il sonno la cogliesse all’improvviso e le desse un po’ di riposo, ma la sua mente non aveva intenzione di dormire. Si domandò quali fossero le notizie urgenti giunte a Gondor, e se ci fosse da preoccuparsi. Non aveva alcuna intenzione di essere nuovamente spinta in un’altra guerra, che tra le altre cose non sarebbe stata neppure la loro. Era partita per stare accanto alla sua famiglia e per vivere un’avventura al di fuori dei Colli Ferrosi, non per rischiare di perdere tutto nuovamente. Anche se non capiva molto come gli Esterling, che si erano rivelati una minaccia durante il loro viaggio, potessero creare problemi al Sud di Gondor.

Cacciò via quei pensieri, perché non era pratica della geografia di quella parte della Terra di Mezzo; e si ricordò del suo pessimismo, che spesso la portava a vedere oltre e a trarre le conclusioni sbagliate. Per quanto potesse saperne, quel messaggero avrebbe potuto portare un trattato di pace e tutto sarebbe concluso prima ancora di iniziare. E se quelle erano le sue preoccupazioni che aveva tentato di riordinare, perché continuava a sentirsi più sveglia che mai?

Lì, poggiata con le braccia e il mento sul parapetto in pietra, non si accorse di qualcuno, sul cerchio superiore, che la osservava immobile, indeciso se raggiungerla oppure se tornare ai suoi alloggi. Ma era chiaro che entrambi soffrissero d’insonnia, quella era l’ennesima prova; e forse era un altro segno di come avrebbe dovuto cogliere l’occasione al balzo e tentare di avvicinarla ancora una volta, forse l’ultima. Il ricordo di quello schiaffo era ancora fresco, certo, ma quel gesto e le parole della donna Umana lo avevano fatto pensare per il resto della giornata. Possibile che quella Nana lo stimasse sul serio? Possibile che il suo comportamento fosse solo dettato dalla delusione?

Thorin prese un profondo respiro, prima di incamminarsi verso delle scale nascoste tra le mura e incassate tra due edifici, evitandosi di percorrere l’intera lunghezza del quinto cerchio per scendere al quarto. Il silenzio delle strade fece quasi rimbombare il suo passo pesante sulla pietra, e lei si voltò di scatto, intimorita. Si rilassò quando lo riconobbe, ma gli voltò le spalle. Attese che lui dicesse o facesse qualcosa, ma era evidente che non avesse voglia di fare la prima mossa – né lei aveva intenzione di mostrarsi debole e desiderosa di scambiare due parole. Così si mosse, senza fiatare, decisa a tornare alla sua stanza.

«Aspetta, non andare. Gradirei parlarti.»

Trán sentì distintamente il proprio cuore accelerare in modo preoccupante. Da quando quel Nano aveva acquistato quel potere su di lei?

Esattamente da quando lo incontrasti quel giorno ad Erebor; sei stata solo troppo cieca e adirata per volerlo ammettere prima.

Decise di non muovere ulteriori passi, ma continuò a voltargli le spalle, in attesa. Lo sentì sospirare con pesantezza.

«Hai intenzione di darmi le spalle per molto ancora?» la rimproverò, la voce bassa e vibrante che pareva un grido in tutto quel silenzio. «Vorrei guardare in viso il mio interlocutore, se possibile.»

E io gradirei non farlo, al contrario. «Ebbene?» domandò, voltandosi ed incrociando le braccia, stando ben attenta a non intercettare quello sguardo penetrante.

Thorin deglutì, prima di parlare, e lei si chiese dove fosse finito il Re fiero e bello che, con gentilezza e calma, prendeva la mano della Regina di Gondor senza battere ciglio.

«Alla luce di quanto è accaduto ieri notte – e i giorni precedenti, io... vorrei chiederti una tregua.»

Trán credette di aver udito male. «Come, prego?»

«Hai sentito bene, non mi ripeterò.» Sostenne con freddezza lo sguardo prima perplesso, poi indignato di lei, chiedendosi come avrebbe reagito a quella assurda richiesta.

«Una tregua? La chiedi a me?» La Nana rise, senza ironia. «Ho letto e udito così tante storie sul coraggioso e prode Thorin Scudodiquercia che ha rischiato la sua vita per riconquistare il suo regno, che ha sacrificato tutto pur di dare una casa al suo popolo dopo l’arrivo del drago. L’immagine di quel Re in esilio che avrei voluto conoscere e che ho imparato ad ammirare è ancora qui, da qualche parte nella mia testa; me l’hai mostrata un paio di volte, ma sta svanendo, sostituita da un orgoglioso ed arrogante Re che mi detesta senza motivo. Se vuoi che ti veda per ciò che realmente sei, e che credo tu sia, spetta a te darmi una tregua, non viceversa. E magari, anche delle scuse.»

«Io non ti detesto.» replicò duramente il Re, quasi senza rendersene conto e come se non avesse udito altro che quelle poche parole; come se non avesse udito che lei lo ammirava sul serio, in fondo. No, lui non la detestava; almeno, non nel profondo e vero senso del termine. Odiava il fatto che non provasse il minimo riguardo nei suoi confronti, come se non si rendesse conto di avere un sovrano davanti agli occhi, eppure per questo l’interessava; odiava che avesse sangue Elfico, eppure con tutte le sue forze gli aveva dimostrato di essere una fiera Nana da capo a piedi; odiava rendersi conto che la sua mente volava troppo spesso a lei, anche quando avrebbe dovuto concentrarsi sui suoi doveri.

In quel senso la odiava.

La odiava perché non riusciva a farlo sul serio.

La vide arrossire al chiaro di luna e si chiese se avesse detto o fatto qualcosa di inappropriato, senza accorgersene. Comprese troppo tardi di aver formulato il suo ultimo pensiero a voce alta quando lei ripeté le sue parole, incredula.

«Mi odi perché... perché non riesci ad odiarmi?» Trán si poggiò contro il parapetto in pietra, cercando un sostegno per sostituire momentaneamente quello debole delle ginocchia, che parvero cedere sotto quelle parole. Cosa avrebbe dovuto significare? «Mio signore? È così che hai detto?»

Thorin si passò una mano sul viso stanco. «In realtà, non so neppure io che cosa ho detto e cosa ho pensato.» borbottò, a disagio. Da quando non aveva più il controllo della sua stessa lingua? «Quello che so – e che sto tentando di dire in modo alquanto penoso, è che mi dispiace. Meriti delle scuse e ti chiedo di perdonarmi per le orribili cose che ho detto di te e della tua famiglia, ieri come in passato. Forse avrei potuto evitare di subire la miseria della mia gente se gli Elfi ci avessero aiutato nel momento del bisogno; e credimi, ho covato così tanto risentimento nei confronti di quella razza che ne avanzerebbe per le prossime future ere. Ma mi rendo conto che tu, i tuoi fratelli, e tuo padre, non avete colpa. Mi avete dimostrato caparbiamente di appartenere solo ai Nani, e lo avete fatto nel migliore dei modi. Per questo motivo ti chiedo scusa. Ma se non vuoi perdonare il mio comportamento, lo capisco e lo accetterò.»

Trán si rese conto di essere in apnea solo quando sentì l’urgente grido dei suoi polmoni che cercavano aria. Non poteva credere di aver udito quelle parole, provenienti proprio da quelle labbra che tanto l’avevano disprezzata. Lo vide sostenere il suo sguardo per qualche istante prima di abbassarlo per il senso di colpa, orgoglioso e fiero nonostante quella sua personale sconfitta – perché ne era sicura, per Thorin Scudodiquercia chiedere perdono equivaleva ad una sconfitta.

«Lo dici solo perché ti senti in debito nei confronti di mio padre?» riuscì a chiedere.

«No, lo dico perché è quello che credo.»

La Nana annuì, prendendo coscienza di quelle parole. «Anche io credo in quello che ho detto, mio signore. E vorrei chiederti scusa a mia volta, per il mio comportamento... infantile. A volte l’orgoglio mi rende cieca. E... sì, ti ammiro, e vorrei davvero conoscerti, mio signore. Perciò...» Si fece coraggio per muovere qualche passo verso di lui, che la osservò ora con curiosità. Sollevò l’orlo della gonna, inchinandosi in una riverenza lenta e rispettosa. «Il mio nome è Trán, figlia di Rulin, dei Colli Ferrosi. È un piacere fare la tua conoscenza.»

Fece passare qualche istante di sorpresa, prima che abbozzasse un sorriso, capendo cosa stesse facendo. Avevano cominciato con il piede sbagliato, e quello era un buon momento per tentare di cancellare il passato e rifare tutto dall’inizio. Le prese una mano con gentilezza, chinandosi. «Thorin, figlio di Thráin, Re Sotto la Montagna, al tuo servizio. Il piacere è mio.» E così dicendo le accarezzò il dorso con le labbra, in un bacio casto e lento. Trán sperò profondamente che non percepisse il battito impazzito del suo cuore.

La riaccompagnò alla sua stanza con le mani intrecciate dietro la schiena e rimase fermo, davanti alla porta ormai chiusa, senza sapere bene a cosa pensare. Eppure quella notte, dopo molte in bianco, entrambi presero sonno facilmente appena poggiarono la testa sul cuscino, poiché i demoni che stavano combattendo erano stati parzialmente e finalmente sconfitti.

 

 

 

 

*

*Non mi riferisco all’Óin figlio di Gróin, che fece parte della compagnia di Thorin, ma di Óin figlio di Glóin; Lóin, invece, è un Nano di mia invenzione.

** Boromir si riferisce ovviamente alla stanza in cui trovano la Tomba di Balin e il cadavere di Ori; ovviamente nella mia storia loro non sono morti, quindi facciamo finta che la Compagnia dell’Anello abbia sì trovato il libro di Ori, ma che i Nani fossero riusciti a mettersi in salvo per tempo.

Qualche idea su ciò che ha da raccontare il messo – sempre che sopravviva? Le acque cominciano ad agitarsi – wohoho! Mentre sembrano calmarsi per due testoni di nostra conoscenza. ;)

Alla settimana prossima,

Marta. :)

   
 
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