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Autore: Judy Kill Em All    27/09/2013    3 recensioni
«Tu eri più importante» sussurrò avvicinandosi a me, asciugai le lacrime tinte di trucco nero dai miei zigomi e dissentii scuotendo la testa.
«Dovevo rassicurarti, capisci? Dirti tipo “non me ne sto andando, ti chiamerò sempre, ti penserò sempre…”» e io singhiozzai ancora di più a quel punto, indignata, le prese in giro facevano sempre male, soprattutto dagli amici più cari.
«No, no, no, che cazzo, tu dici un mare di cazzate, e non so come faccia tu a starci a galla» scossi la testa di nuovo, e appoggiai la fronte al suo petto artigliandomi al suo maglione largo e morbido.
«Non ti dimenticherò» alzò il mio viso per guardarmi negli occhi e si avvicinò.
«Se mi baci ora, sappi che ti odierò tutta la vita. Fino alla morte, perciò non baciarmi» dissi in lacrime, senza convincere nemmeno me stessa.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Ciao a tutti...mi chiamo Chelsea…» mi guardai intorno disorientata e mi sentii improvvisamente insicura e fragile come non lo ero mai stata. Mi sfregai le mani in modo nervoso e mi mordicchiai un labbro.

«Ciao Chelsea!» risposero tutte le persone intorno a me, mi fissavano e sembravano tranquille, felici, senza problemi; per un istante sentii le ginocchia cedere, ma strinsi i denti: il mio discorso non era ancora finito.

«Vengo dallo stato del Nevada, in un paesino vicino Las Vegas. Mio padre era dipendente dal gioco, morì quando io avevo tredici anni; mia mamma invece è brava e mi vuole bene» deglutii e strinsi fortissimo gli occhi, odiavo che la gente mi guardasse incuriosita ed in quel momento sembrava che tutti volessero leggermi dentro, non lo potevo sopportare.

«Io ero una tossicodipendente ed un’alcolizzata e sono venuta qui per dimostrarvi che con il giusto lavoro tutto può essere combattuto» sorrisi allegramente.

«E soprattutto, oltre ad essere qui come dimostrazione di come il duro lavoro possa dare risultati più che soddisfacenti, sono qui perché voi mi poniate domande di qualsiasi genere» strinsi tra le dita la piccola spada argentata legata al collo con un sottile filo nero: ci giocherellavo spesso quand’ero nervosa o imbarazzata.

Tutta la gente intorno a me, mi guardò con ammirazione e non potei fare a meno di pregare che qualcuno rompesse quell’imbarazzante silenzio.

«Io avrei una domanda!» a parlare era stato un uomo sulla quarantina, alto e virile, con il viso squadrato e senza barba.

«Dimmi pure» sorrisi mettendo in mostra i denti bianchi.

«Chi ti ha aiutato? Insomma, non si può combattere tutto in solitudine» si guardò i piedi a disagio ed attese paziente la mia risposta.

«Mia mamma, mi ha sostenuto per tutto il tempo» risposi con la voce colma di gratitudine nei confronti della donna che aveva sacrificato tutto per me.

«E dimmi, come hai fatto a tenerti stretta gli amici?» domandò una donna giovane, avrà avuto circa trent’anni portati benissimo, anche se pareva un po’ sciupata. Aveva le occhiaie e la pelle tesa sul viso scarno, ma i suoi bellissimi occhi celesti racchiudevano la forza del mare e la sua imprevedibilità.

«Non ci sono riuscita, sono scappati tutti» ammisi con tristezza; in quel momento avrei voluto afferrare quel maledetto ciondolo e bruciarlo per non vederlo più. Era come una potente maledizione: più lo tenevo addosso più mi ricordava di quanto la gente facesse male, più mi sentivo vuota.

Avevo solo più mia madre, la mia psichiatra ed un enorme gatto completamente nero, con il pelo lucidissimo, perché è risaputo: in casi di carenza d’affetto gli animali domestici sono la cura migliore.

Nonostante tutto, però, continuavo a sentirmi sola.

 

«Chelsea, non correre! Non sono più giovane come una volta!» gridò il ragazzo con i capelli scuri mentre mi rincorreva e con una mano cercava di non fare cadere il cappello dalla sua testa: l’unico riparo dalla pioggia pungente.

«Un ombrello non te lo potevi portare?» domandò sempre urlando; cercava di raggiungermi, ma ero troppo veloce per lui e comunque non avrei voluto che mi afferrasse: mi avrebbe preso in braccio e buttato di peso in una pozzanghera, tanto per farmi pentire di non averlo ascoltato.

«Hai solo un anno in più di me, idiota!» esclamai ridacchiando, ma non mi voltai, era buio e correvo troppo veloce per potermi permettere di non cercare eventuali ostacoli di fronte a me.

«Cosa vuol dire? Ho avuto le prove oggi, ho i polmoni stanchi!» disse a gran voce per poi fermarsi con il fiatone e le ginocchia semipiegate per riprendere fiato.

«Sei ancora più idiota, dovresti essere allenato dato che canti. Idiota!» mi fermai ridendo e alzai la testa per guardare la pioggia che cadeva.

«E tu dovresti essere con i polmoni fatti di catrame, dato il numero di sigarette che fumi» rispose venendomi incontro camminando lentamente, mi abbracciò e storsi il naso.

«Merda, sei fradicio» mi lagnai cercando di non appoggiare la guancia sulla sua felpa umida.

«Vaffanculo, come fosse colpa mia, tu e le tue cazzo di idee da psicopatica, ma dico: alle tre di notte ti svegli e mi chiami per uscire?» disse respirando sui miei capelli.

«Che cazzo ci facevi tu sveglio alle tre di notte e soprattutto sotto casa mia?» domandai con voce colma d’ironia; lui ridacchiò ed iniziò di nuovo a correre, sospirai divertita e lo inseguii: ci avrei rimesso in salute, ma ne valeva la pena.

 

«Ohi, tutto bene?» domandò una voce familiare a pochi millimetri dal mio volto, spalancai gli occhi e sobbalzai: ero in una stazione situata in una zona periferica della città, seduta su una fredda panchina in pietra ruvida, mi ero addormentata.

«Mh?» domandai disorientata; mi guardai intorno, a parlare era stata una donna bionda, bassa ed un po’ robusta, ma nel complesso bella e armoniosa.

«Ti sei addormentata per farmi sentire in colpa? Sono in ritardo di qualcosa come cinque minuti!» esclamò incrociando le braccia al petto.

La donna in questione era Carol: la mia psichiatra ed unica amica rimasta; era tornata da un viaggio di qualche giorno in Francia e mi ero offerta di andarla a recuperare in quel luogo vuoto e desolato, tanto per farle vedere com’ero stata brava a combattere la mia “ansia-da-luoghi-poco-popolati” o come l’aveva chiamata lei.

«Mh, no, è che sono arrivata con un’ora d’anticipo o qualcosa di simile» risposi stropicciandomi gli occhi, assonnata, spalmandomi tutto il trucco nero sulle guance, gli zigomi e la fronte; mugugnai con disappunto e cercai di ripulirmi il viso.

«Sono fiera di te. Sognavo di arrivare e vederti con una decina di chili in più, ma anche questo va bene» rispose sorridendo serena, mi alzai e la seguii; destinazione: il bar preferito da Carol. Uno di quei bar da tè caldo e cupcakes ad ogni ora del giorno.

«Ho preso sette chili!» ribattei indignata.

«Precisa: in due anni!» sbottò grattandosi la testa.

Mi ero ammalata di anoressia due anni prima e da allora non ero riuscita ad uscirne. Ero uscita dal giro della droga, dell’alcool, quindi di conseguenza dai sogni ad occhi aperti a tutte le ore e dal non sapere più in che luogo fossi.

«Però ammetto di essere magra, mi piaccio abbastanza» ammiccai serena, ricevendo un sorriso di approvazione da parte della donna accanto a me.

 

Dopo pochi minuti entrammo nel locale ed il barista ci salutò con familiarità, ci sedemmo ad un tavolo.

«Come vanno i sogni?» chiese lei ad un certo punto, dopo aver ordinato due tè caldi ed una valanga di dolcetti per lei, ovviamente.

«Vanno e vengono, più vengono che vanno, ma va bene così» feci spallucce e mi scrocchiai le dita delle mani ghiacciate.

«Dovresti essere meno sensibile» mi riprese puntando un dito verso di me.

«Dovrei. Ma mi sento così vuota» rimasi pensierosa qualche istante con lo sguardo perso nel vuoto, poi intercettai il cameriere che si dirigeva verso di noi con un vassoio stracolmo, gli sorrisi gentilmente e lui appoggiò quella torre di dolci in centro al tavolo.

«La gente è cattiva, cara» ammise tirando un sospiro.

«Lo è» assentii.

Calò un silenzio estremamente naturale e leggerissimo, durante il quale il tavolo fu ripulito da ogni traccia di cibo.

«Senti, mi potresti…» iniziai con indifferenza.

«Hai finito le sigarette?» domandò prevedendo la mia domanda.

«Già» feci spallucce.

«Ti accompagnerò dal tabacchino» sorrisi allegra e le nostre gambe ci guidarono spontaneamente alla meta designata. Vivevo in quel luogo da pochi anni, ma conoscevo la città come le mie tasche e, soprattutto, mi sentivo a casa.

***

Penso fossero le quattro del mattino quando il mio telefono squillò, anzi, vibrò.

Ero nel bel mezzo di un sogno fantastico nel quale sputavo fuoco o qualcosa di simile, ma dettagli, l’importante in quel momento era sterminare l’idiota che mi aveva svegliata nel bel mezzo della notte.

«Chi cazzo è?» domandai dopo aver premuto il tasto per rispondere e aver avvicinato il telefono all’orecchio.

«Chi parla?» domandò una voce sconosciuta, bassa e caldissima: sicuramente di un uomo.

«Scusa? Mi chiami e poi mi chiedi chi parla?» chiesi con una voce da coma, appena irritata.

«Io veramente…» aggiunse intimorito l’uomo con cui stavo avendo quell’illuminante conversazione.

«No, tu veramente un paio di palle. Mi chiamo Chelsea, se cercavi me dimmi, se no lasciami dormire, sono le quattro, cazzo!» imprecai, impaziente di tornare ad essere un mistico dragone imbattibile.

«Chelsea?» disse sorpresa la voce.

«Non la squadra» aggiunsi con ironia, attesi qualche secondo.

«E’ lei?!» domandò una seconda voce al telefono, sbuffai irritata e riattaccai, per precauzione spensi anche il telefono. La gente non smetteva mai di stupirmi.

 

*-*-*-*

CIAOGENTEBELLISSIMA.

Ciao.

 

Parto dal fatto che sono provata dal lungo ed intenso studio di… FISICA, sì, esatto!

E magari vi chiederete “Ma la perseguita?” (no, lo so, non ve lo starete chiedendo, ma sì, fate finta di sì. CHIEDETEMELO, PLS).

Così magari mi sentirò meno sola e potrò fingere di avere una vita sociale soddisfacente.

 

Ah, avete provato il nuovo wechat? (Ve lo chiedo così a caso).

Perché mi stanno aggiungendo tutti turchi quarantenni, uno spasso. Il mio pollice non è mai stato tanto felice di premere il tasto “BLOCCA”.

 

Ah, sì, parlando della storia.

La parte in corsivo sarebbe un flashback-sogno…Un sognashback oppure un flogno, come preferite. Che narra di tempo prima del primo capitolo (?)

Di come il piccolo Olly abbia fatto beccare un’allegra (:DD) polmonite a Chè. Ma lei è comunque felice.

 

Ehm, poi…giusto, la chiamata misteriosa alle quattro di notte (tra l’altro perché proprio a quell’ora?) LO SCOPRIRETE NELLA PROSSIMA PUNTATA.

 

Bacioni.

(E recensite, non vi mangio, ve lo giuro)

I lied.

Judy Kill Em All.

  
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