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Autore: Finnick_    30/09/2013    9 recensioni
“Sai… Tu sei intelligente, capisci sempre tante cose, ma non ne vedi molte altre.”
[...]
“A volte avresti bisogno di una lente d’ingrandimento.”
Sherlock aveva esitato.
“Non… letteralmente. Intendo… metaforicamente.”
“Dove vuoi arrivare, Molly Hooper?”
“Da nessuna parte.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Molly Hooper, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: Eccoci all'epilogo di questa breve storia, che, spero sinceramente, possa avervi distratto un po' dalla realtà e catapultato nel mondo di Molly e Sherlock per pochissimo tempo. L'ho detto fin dall'inizio: la mia non voleva essere una storia lunga e impegnativa, solo un'insieme di pensieri che mi passavano da un po' per la mente.
Ultimo tentativo di IC, sforzandomi tremendamente di evitare l'OOC.
In quest'ultimo capitolo ci sono un paio di indicazioni più precise su Roma: io sono Toscana, a Roma ho fatto visita solo tre volte, ma mai nel particolare, motivo per cui se trovate qualche sfondone ditemelo!
Ultima cosa, importante: grazie a tutti coloro che hanno commentato fin ora, lo sapete, e anche a tutti coloro che hanno letto :)




È passato
4
 
Un mese dopo.
 
Il tramonto primaverile era sempre stato il suo tipo di tramonto preferito.
A Londra, quando poteva, si affacciava alla finestra del suo laboratorio o della sua camera da letto e ammirava per alcuni secondi il cielo rosa sfumare dietro i grandi palazzi della city.
A Roma, Molly aveva scoperto di potersi godere delle belle serate al parco Santa Maria della Pietà, poco più a Nord rispetto al policlinico dove lavorava.
Si sedeva su una panchina, circondata da tanta gente allegra, con il tè freddo comprato al bar dell’angolo e la musica nelle orecchie.
Era una sensazione rilassante: le risate dei bambini, il vento primaverile, un tramonto così diverso da quello Londinese, il tè freddo al posto del suo solito tè caldo, le cuffie dell’mp3 nelle orecchie.
Per un’ora riusciva a dimenticare tutto.
Il motivo per cui era lì.
La sofferenza che provava la sera, una volta che si scopriva sola nel suo appartamento romano.
Aveva deciso di ascoltare le più famose canzoni italiane più ripetutamente possibile. Erano belle e rasserenanti e l’avrebbero aiutata ad imparare meglio la pronuncia dell’italiano.
Era stata trasferita al laboratorio di analisi da tre settimane.
Dell’incontro con John non aveva fatto parola con nessuno.
Si era imposta di non pensarci più.
Lui non era più tornato e lei non aveva più avuto notizie da nessuno di loro.
Quella sera, seduta sulla stessa panchina, sentì il cellulare vibrare nella tasca dell’impermeabile.
Lo estrasse e rispose subito, senza preoccuparsi di vedere chi fosse.
Forse uno dei nuovi colleghi, forse il capo.
“Pronto?” chiese in italiano.
“Oh, scusi, credo di aver sbagliato numero…” borbottò l’altro in inglese.
Molly sorrise impercettibilmente.
“Greg? Sono Molly.”
“Ah! Credevo di aver sbagliato persona. Hai un’ottima pronuncia sai?”
“Grazie…” rispose Molly imbarazzata.
“Insomma, come vanno le cose nella capitale?” chiese Lestrade.
“Bene, direi… bene. Sai, niente di particolare.”
“Immagino.”
Un istante di silenzio, poi.
“Ho chiamato per dirti che la patologa di Sherlock-”
“Greg non… Non mi interessa. Davvero, sto bene.”
“È stata arrestata. Domani si terrà il processo” concluse Lestrade, come se Molly non avesse mai parlato.
Lei rimase per un istante a bocca aperta.
“Come? O Cielo.”
“Già, O Cielo” ripetè Greg, “Sherlock ce l’ha consegnata su un piatto d’argento. Era coinvolta in un caso complesso e troppo pericoloso perché ne venissero a conoscenza troppe persone.”
Molly sussultò. Cercò per qualche secondo le parole giuste, ma ci rinunciò presto.
“Sherlock ha bisogno della sua patologa” sentenziò Lestrade.
Molly scosse la testa.
“Non sono di sua proprietà, sai?”
“Lo so” rispose lui “sono contento che tu stia bene. Bene davvero, intendo. A presto, Molly.”
La linea cadde. O Greg aveva semplicemente attaccato la comunicazione.
Molly lasciò scivolare il cellulare nella tasca dell’impermeabile.
Respirò a fondo, si alzò e si diresse verso la strada.
Avrebbe chiamato un taxi. Sarebbe tornata a casa. Avrebbe riflettuto. Forse. Sicuramente.
 
Voltati.
Il messaggio la bloccò in mezzo al parco.
Non era firmato e il numero era sconosciuto. Molly trattenne il respiro, strinse forte il cellulare in una mano e il tè nell’altra e decise di fare come le diceva il messaggio.
Quando si voltò, scorse al di là di una panchina una ragazza che la guardava con le mani in tasca. Le stava annuendo.
Molly si guardò intorno, con aria spaesata, ma la ragazza le fece segno con la testa di avvicinarsi.
Molly attraversò il parco e raggiunse la ragazza. Quando la ebbe vicina, fu attraversata dalla sensazione di averla già vista, anche se non ricordava come, dove e quando.
Lei tirò fuori da una delle tasche del giacchetto di pelle una piccola busta di carta e gliela consegnò.
Molly esitò prima di prenderla. Alternò lo sguardo dalla busta alla ragazza e chiese:
“Ci conosciamo?” istintivamente in inglese.
“Può darsi di sì, può darsi di no.”
La busta era rimasta a mezz’aria. Molly la prese titubante e la osservò per qualche istante.
“Che cosa…?”
Alzò lo sguardo per parlare con la ragazza, ma era sparita. In quel momento le tornò in mente la prima volta che l’aveva vista: sull’aereo, il giorno della sua partenza. Era la ragazza che le aveva parlato della lente e poi era scomparsa lasciando spazio al vecchietto col giornale.
Molly rimase con la busta fra le mani. Si sedette sulla panchina di fronte a lei e, titubante, ne estrasse il contenuto.
C’era un foglietto con delle scritte piccolissime e illeggibili a occhio nudo. Molly sbuffò.
Poi si ricordò della lente di ingrandimento. Forse non c’entrava niente, forse invece era la chiave di quello strano messaggio. Frugò nella borsa alla ricerca della lente che aveva trovato quel giorno in aereo. Non sapeva esattamente perché la portasse sempre con sé. Non volle chiederselo.
La tirò fuori e si mise ad analizzare il biglietto.
 
Si chiama Ester Taylor. La patologa.
Lestrade l’ha messa dentro due giorni fa.
L’ho fatto per proteggerti.
Mi dispiace, perdonami.
 
“Mi dispiace, perdonami” recitò Molly a voce altra. Lasciò andare un sospiro esterrefatto. Le stesse parole della festa di Natale di tanti anni prima. Lei, allora, gli aveva detto che diceva sempre cose orribili. Ma quelle non erano parole orribili.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Tirò su col naso.
Si mise una mano sulla bocca e scoppiò in un pianto sommesso.
“Stupida Molly Hooper. Stupida!”
Singhiozzò.
Si prese la faccia con le mani.
“E stupido, stupido Sherlock Holmes! Mi manchi…”
“Anche tu” rispose una voce alle sue spalle.
Molly sobbalzò per lo spavento e la lente, il foglio e la busta rovinarono a terra. Lei non se ne curò, si voltò di scatto verso chi aveva parlato. Si alzò in piedi velocemente e strinse i pungi lungo i fianchi.
“Sei tu… Perché sei… Voglio dire…” Molly balbettò, non riusciva a mettere insieme una frase di senso compiuto. Probabilmente perché l’ultima volta che aveva visto Sherlock si era immaginata che fosse l’addio definitivo. Si asciugò goffamente le lacrime.
“Voglio dire. Perché sei venuto a Roma?”
Lui rimase immobile a fissarla. C’era qualcosa in quello sguardo.
Molly sentì, con un colpo al cuore, che quegli occhi la stavano trapassando, proprio come quel giorno nel laboratorio del Bart’s, quando Sherlock le aveva chiesto di aiutarla.
“Per te” rispose.
  
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