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Autore: Uccellino Assurdo    01/10/2013    1 recensioni
Trieste ha una scontrosa / grazia. Se piace, / è come un ragazzaccio aspro e vorace, / con gli occhi azzurri e/ mani troppo grandi / per regalare un fiore; /come un amore / con gelosia. (Umberto Saba, Trieste)
Trieste, 1914. Nella città "crocevia di popoli e di culture" per eccellenza la storia dei due fratelli Vargas, Romano ed Alice, che vedono la loro vita sconvolta dall'avvento della Grande Guerra e dell' amore...
Nota: presente Fem/Italia del Nord
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Germania/Ludwig, Nord Italia/Feliciano Vargas, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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E con un imperdonabile ritardo ecco a voi il nuovo capitolo! (Le traduzioni delle frasi in lingua straniera si trovano alla fine).

II CAPITOLO

«Non se ne parla nemmeno!», sbottò avvelenato Romano.

«Ma perché? È esattamente quello che cercavi». Come al solito Antonio faceva fatica a capire cosa passasse per la testa del suo aiutante; il giorno prima si era mostrato preoccupato di trovare alla sorella un’occupazione consona alle sue esigenze e competenze, oggi invece, alla proposta pressocchè perfetta di impiegarla presso l’azienda dell’amico, si era ritorto contro come una iena rabbiosa.

«Hai detto stesso tu che Alice ha studiato presso una famiglia austriaca, che conosce perfettamente il tedesco, mi sembra adattissima per…»

«Hai capito che ti ho detto di no o te lo devo specificare a suon di calci nelle palle?!».

«… se è per il fratello di Gilbert puoi stare tranquillo; non lo conosco personalmente ma se è solo la metà di quello che è il fratello…»

«Ah sì, se è solo la metà di quel bellimbusto baldanzoso andiamo proprio bene!»

Antonio sospirò stancamente; nel breve tempo in cui avevano lavorato insieme aveva imparato che quando Romano si incaponiva su qualcosa difficilmente si sarebbe riuscito a smuoverlo dai suoi intenti e dalle sue convinzioni. E in fondo quella sua testardaggine senza scampo era una delle cose che lo rendeva speciale. Quello che non gli era chiaro era il motivo per cui dovesse rifiutare tanto strenuamente un lavoro come quello che gli stava proponendo.

«Ascolta Romano», ricominciò con fare comprensivo, «non pensi che dovrebbe essere Alice a decidere il da farsi? Non sono nessuno per permettermi di dirtelo ma credo che le farebbe bene se tu la lasciassi diventare più… autonoma, ecco… falla distaccare un po’ da te».

«Distaccare?!», gridò inorridito, «per quale ragione dovrebbe distaccarsi da me? Sono suo fratello, hai capito, bastardo di uno spagnolo incosciente e menefreghista?!»

Pazienza santissima. «Dico solo che sei iperprotettivo. Dalle almeno la possibilità di provare, poi, se dovesse presentarsi qualsiasi tipo di problema sarò il primo ad intervenire…»

«Devo fare in modo di prevenirli i problemi, non dare possibilità che si presentino!»

«È vero, ma se non cade almeno una volta un giorno non avrà abbastanza forza per rialzarsi da sola», disse dolcemente Antonio, «dalle una possibilità. Non saresti contento anche tu di vederla più serena?»

«Ma che ne sai di come mia sorella possa essere serena…», rispose torvo Romano, ma già stava riflettendo sulle parole di Antonio e gli vennero improvvisamente in mente le lacrime di Alice davanti casa, solo la sera prima. La verità era che, più che non fidarsi dello sconosciuto fratello di Gilbert, non gli sorrideva l’idea che lui e soprattutto Alice avessero contatti di qualsiasi tipo con tedeschi o austriaci. La famiglia Edelstein per tutti quegli anni aveva rappresentato un’eccezione (fra l’altro malamente sopportata più per fastidiosa ma doverosa gratitudine che per altro), ma di certa gente non ci si poteva fidare. Forse però valeva la pena concedere un po’ di fiducia almeno ad Alice.

«Dammi quell’indirizzo…», fece rivolto verso Antonio. «Tanto lo so che me ne pentirò…».

II

Eccezionalmente quella mattina Romano concesse ad Alice di arrivare da sola al nuovo luogo di lavoro. O perlomeno di fare finta di arrivarci da sola, visto che a tre quarti di strada la dovette scortare come al solito lui, in bicicletta, accompagnando ogni pedalata con consigli teorici e pratici a cui la ragazza era ormai abituata. «Cerca di non dare troppa confidenza, se malauguratamente il tuo capo dovesse rimproverarti troppo aspramente ci penserò io a raddrizzarlo e ricordati che questo è un impiego momentaneo: appena troviamo qualcosa di meglio tu da là sloggi!»

«Veee!», gongolò Alice.

«Che? Alice… tu mi stai ascoltando, vero?»

«Sì, certo fratellone», cantilenò contenta, «Speriamo di lavorare con gente simpatica! Sai che mi sono allenata con la macchina da scrivere? Per questo genere di lavori è importante, vero? Fra un po’ diventerò velocissima!».

«No, non mi stai ascoltando…».

La lasciò ad un incrociò dal quale sarebbe arrivata a destinazione in meno di cinque minuti a piedi; probabilmente quelle persone con il pranzo a sacco in spalla erano proprio operai visto che da quella parte non c’erano altro che fabbriche e Alice si sentì felice al pensiero che come a loro anche a lei sarebbe aspettato un giorno di vero lavoro, che le avrebbe permesso di sentirsi utile e avrebbe permesso al fratello di essere fiero di lei. Sembrava entusiasta ed elettrizzata dalla novità.

«Sicura che non vuoi che ti accompagni fin lì davanti?»

«Certo, non preoccuparti per me. Ormai sono grande, me la so cavare da sola!»

«Va bene, allora… buon lavoro», salutò cauto e preoccupato, «mi raccomando, eh!». E la seguì con lo sguardo fino a quando non svoltò l’angolo e si girò a fargli un cenno con la mano.

Le acciaierie Beilschmidt si ergevano imponenti nel bel mezzo di uno dei quartieri industriali più importanti di Trieste. Erano una delle tante aziende metallurgiche che, ahimè, si sarebbero trasformate in fabbriche di armi a scopo bellico durante la tragica e inevitabile Grande Guerra. Erano state fondate, ormai più di mezzo secolo prima, da Hans Beilschmidt che si era trasferito dalla sua amata Germania a Trieste approfittando della sua ottima posizione e aveva dato vita ad una delle acciaierie più proficue e solide della città. Hans aveva dato tutto sé stesso per portare avanti nel modo migliore possibile l’azienda e lo aveva fatto fino a quando non avvertì anche lui l’inevitabile peso del cumulo degli anni; toccava adesso quindi ai suoi eredi portare le redini della prestigiosa e ancora inossidabile azienda di famiglia.

Alice rimase per un attimo a bocca aperta davanti a quello che sarebbe stato il suo luogo di lavoro. Certo, non si poteva dire che fosse propriamente “ameno”, era in realtà molto tetro, grigio e triste ma questo non bastò a togliere alla ragazza quel sano entusiasmo che l’aveva sorretta fino a ora. Dentro era ancora peggio.

«Scusi, mi saprebbe dire dove si trova l’ufficio del signor L. Beilschmidt?», chiese ad un uomo di mezza età, probabilmente un operaio. Glielo indicò e lei si diresse da quella parte con il cuore in gola e le mani irrigidite dall’emozione che ancora stringevano il foglietto con su scritto l’indirizzo ed il nome del datore. Chissà poi per cosa stava la L puntata del nome; l’avrebbe tranquillizzata un pizzichino di più forse sapere il nome del suo capo. Perché mai poi.

Bussò alla porta. «Avanti», rispose una voce stentorea, in tedesco.

Alice entrò. «Guten Morgen Herr Beilchmidt…Ich bin die neue Sekretarin!(1)». Alzò finalmente gli occhi su Herr Beilchmidt; non se lo aspettava: era un uomo molto giovane, forse solo di poco più grande di Romano ma alto, imponente e, se non ci si fosse fermati a guardarlo più attentamente, si sarebbe detto minaccioso. Aveva capelli biondi pettinati ordinatamente e artici, bellissimi occhi azzurri; dava nell’insieme un senso di rigore marziale, freddezza studiata e doveroso contegno, ad Alice parve di vedere in quegli occhi qualcosa di assai vicino alla timidezza. Per pochi istanti che sembrarono infiniti Herr Beilschmidt guardò la giovane che aveva davanti e in quei pochi istanti Alice sentì percorrerla uno strano brivido, non del tutto spiacevole, che non seppe se addebitare al nervosismo, alla suggestione o ad altro di ancora sconosciuto. Finalmente Beilschmidt ruppe il silenzio.

«Lei deve essere la signorina Vargas»

Alice si riscosse e trovò la voce per rispondere: «Ehm, sì..! Alice Vargas! Ich freue mich Ihre Bekanntschaft zu machen! (2)»

«Non c’è bisogno che parli il tedesco con me, conosco la mia lingua. Anzi, mi è più utile se parla italiano, sono a Trieste da poco e sto cercando di migliorarlo…»

«Ah, ma non c’è bisogno, lei lo parla benissimo!», disse sollevata ed educata Alice, «sarò felice di aiutarla comunque!». Forse il suo capo non era poi così male, almeno stavano iniziando una conversazione piacevole. Purtroppo le aspettative dialogiche di Alice vennero deluse, perché quella fu la frase di circostanza più lunga pronunciata dal signor Beilschmidt per tutto il corso della giornata. Per il resto il discorso virò subito sul tema lavoro: le spiegò sbrigativamente ma efficacemente quelli che dovevano essere i suoi compiti, dove si trovavano conti, fatture, registri.

«Le lettere che arrivano dai fornitori delle metterle sulla mia scrivania da questa parte, quelle in uscita dall’altra…». Alice ascoltava tutto con attenzione, faticando un po’ ad andar dietro al suo nuovo capo che, per non conoscere l’italiano, andava anche troppo spedito. «I registri dei salari si trovano su questo scaffale, qui invece ci sono le fatture divise per anni…».

Il signor Beilschmidt spiegava tutto diligentemente ma senza far trasparire emozioni, anzi, non la guardava ormai neanche più, limitandosi a mostrarle documenti e indicarle le mansioni principali. «Sa scrivere a macchina?», chiese ad un tratto.

«Sìì!!!», esclamò la ragazza, «Sono velocissima!!!». Mentiva spudoratamente, aveva preso per la prima volta una macchina da scrivere la sera prima. Ma era lo stesso felice di essere stata tanto “lungimirante” da prevedere che il suo tardivo interesse per la scrittura meccanica avesse una qualche utilità.

Le indicò una piccola e semplice scrivania poco lontana dalla sua, dove si sarebbe dovuta sedere.

«Quindi lavoreremo nello stesso ufficio!», osservò entusiasta Alice rivolta al suo datore, «Per fortuna! Così almeno non mi annoierò a stare da sola per tutto il giorno! Anche quando dovevo fare i compiti se mi mettevano in una stanza da sola senza Elisabetha non riuscivo mai a concentrami e finirli in tempo per l’arrivo del maestro!»

Il signor Beilschmidt aggrottò le sopracciglia. «Bene! Ora che mi ha spiegato tutto voglio mettermi al lavoro immediatamente!», continuò, «Le prometto che farò del mio meglio e che non si pentirà di avermi dato fiducia!»

«Sì…», fece serio e imperturbabile l’uomo, nascondendo una punta di perplessità, «si metta al lavoro adesso».

«Agli ordini!!», scattò sull’attenti. «Ah, posso fare una domanda?»

«Dica»

«Posso chiamarla signor Beilschmidt?»

«Certo»

«E la L per cosa sta?»

L’uomo rimase per un attimo spiazzato e senza parole, incapace di risolversi se rispondere o meno. Quella ragazzina gli stava chiedendo il nome di battesimo? «Ludwig», lasciò uscire quasi distratto, senza neanche rendersene conto.

«È un bel nome! Meno inquietante di Beilschmidt», sorrise Alice, «Adesso è meglio che mi metta al lavoro!»

Ludwig rimase ancora una volta senza parole; stette per alcuni secondi a guardare la ragazza che aveva chinato il capo sulla macchina da scrivere, poi tornò anche lui al suo lavoro. Non dissero più una parola fino all’ora di chiusura.

III

Al ritorno dal mercato Romano, prima di tornare a casa, passò dalla pasticceria e comprò due grosse paste alla crema cosparse di zucchero a velo, le preferite di Alice. A quell’ora la ragazza avrebbe già dovuto finire il suo primo giorno di lavoro e lo stava di certo già aspettando per cena. Romano era già psicologicamente pronto per consolarla, era convinto che anche questa volta la cosa si sarebbe risolta con uno dei soliti guai di Alice e con il conseguente licenziamento record repentino del quale si sarebbe dovuto sorbire le lacrime. Ma lui non aveva niente da rimproverarsi: aveva dato fiducia alla sorella, le aveva permesso di provare, l’aveva fatta camminare con le sue gambe e se fosse caduta lui sarebbe stato lì a risollevarla; la lezione sarebbe servita per farle capire una volta per tutte che lavorare per i tedeschi porta solo guai.

Poggiò la bicicletta nella piccola rimessa del cortiletto ed entrò in casa, convinto di vedere un’ Alice singhiozzante e disperata. La ragazza era in cucina circondata da un delizioso profumino e dal rumore gorgogliante della pentola ribollente sul fuoco.

«Fratellone! Bentornato!», esclamò festosamente accorgendosi del ragazzo. Sembrava gioiosa. «Stasera ho preparato una cenetta speciale per festeggiare il mio primo giorno di lavoro!»

Romano rimase a bocca aperta; non era quello lo stato d’animo con cui si aspettava di venire accolto. Alice adocchiò subito l’involtino di familiare carta azzurra che il fratello teneva sotto il braccio. «Oh, Romano, sono le paste alla crema, vero?», chiese con un gran sorriso, «grazie! Hai avuto il pensiero di comprarle per farmi una sorpresa e festeggiare insieme… adesso siamo al completo, abbiamo anche il dessert! Ti voglio tanto bene!», e lo investì con un esultante abbraccio pieno d’affetto.

«Quindi… è andato tutto bene?», chiese, ancora confuso.

«Certo, benissimo! Oh, Romano quante cose che ho da raccontarti!».

Parlarono, o per meglio dire parlò solo Alice, ininterrottamente, per tutta la durata della cena…«…poi mi ha chiesto se sapessi usare la macchina da scrivere e io gli ho detto che sono bravissima e mi sono messa subito a lavorare, sai non è difficile come credevo, non ho combinato nessun guaio, mi è sembrato che fosse soddisfatto del mio lavoro, quando l’ho salutato mi ha risposto “a domani” il che significa che non mi ha licenziato, domani posso tornare…». Dal miasma infinito di parole che Alice pronunciò Romano dedusse che le cose erano sotto controllo. O comunque lo erano per il momento. Stranamente sentiva una specie di risentimento verso la sua aspettativa di fallimento da parte di Alice, ma si rese conto che era un sentimento egoista e crudele; voleva veramente che la sorellina fosse sempre così entusiasta.

«E questo Beilschmidt che tipo è? Un buzzurro come il fratello?»

Alice si sentì in imbarazzo in maniera immotivata. Per una frazione di secondo rivide gli occhi del signor Beilschmidt che la guardavano per un tempo che le sembrò congelato e, anche se non riusciva a capirne la ragione, non voleva condividere con nessuno l’emozione provata. Neanche con Romano.

«Secondo me è un signore molto distinto e molto gentile», rispose sorridendo, con gli occhi sul piatto e perdendo improvvisamente il brio movimentato di pochi secondi prima. Un cambiamento che non sfuggì a Romano: «Ti ha detto qualcosa?», domandò con fare ostile.

«Mi ha detto», rispose, ancora sognando, «di chiamarsi Ludwig». Per qualche strana ragione a Romano questo signor Ludwig Beilschmidt iniziò a stare sull’anima ancor prima di aver avuto il “piacere” di conoscerlo.

IV

«Ah, Romanito, te lo avevo detto che sarebbe andato tutto bene! E tu convinto a non volerla lasciar andare…»

«Scusi, potrei avere un chilo di quei pomodori?»

«Subito! Romanito…»

Romano rimuginava sopra le casse da frutta da tutta la giornata. Sì, effettivamente sembrava che tutto procedesse senza particolari intoppi per la sorella: Alice lavorava ormai da una settimana nella fabbrica Beilschmidt e ritornava a casa ogni giorno più entusiasta, preparava la cena per lei e Romano e iniziava a raccontare con allegria e spensieratezza la sua giornata, miracolosamente priva di particolari guai; sembrava aver trovato serenità e di questo Romano non poteva essere più felice. Eppure qualcosa dentro di lui lo rendeva inquieto, sospettoso, ansioso, come se quella situazione portasse verso una strada colma di difficoltà.

«Romanito…?»

«Eh…?», fece distratto. Una signora lo stava fissando perplessa.

«I pomodori…»

«Ah», riprese quasi risvegliandosi, «scusi, ecco a lei!»

«Che cos’hai, sembri assente oggi», chiese Antonio.

«Non ho niente!», si affrettò a servire la cliente e a sistemare le verdure rimanenti, senza guardarlo.

«Forse dormi poco!», riprese lo spagnolo sorridendo, poi si fece impensierito, «Non sarai malato…» e alzò la mano per poggiarla sulla fronte di Romano.

Il ragazzo si tirò indietro di colpo, non meno rosso dei pomodori che aveva appena venduto, come se fosse stato percorso da una scarica elettrica. «Ti ho già detto che sto bene! Non c’è bisogno che mi tocchi!».

Antonio ritrasse la mano, mortificato; abbassò gli occhi, «Scusami…»

«Sei un po’ troppo apprensivo per i miei gusti…»

«È solo che ho a cuore la tua salute! Mi pare legittimo»

«E perché?»

«Perché tu sei il mio prezioso … ». Romano iniziò a sudare freddo e divenne ancora più rosso.

«… aiutante!». Ovvio. Cos’era se non un semplice aiutante.

«Comunque sto bene … ero solo sovrappensiero»

«Tranquillo», disse Antonio, «lo so che sei preoccupato per la tua sorellina». Non sembrava essersela presa troppo per prima, ritornò a sorridere. «Anche tu però mi sembri un fratello un po’ troppo apprensivo, Romanito!»

Romano sbuffò. «Non ho nulla per cui essere preoccupato», iniziò, «Alice lavora tranquilla, non si è mai lamentata per nulla, anzi sembra entusiasta». Riprese ad allineare una vicino all’altra sul banco le cassette, con energia ritrovata. «Ogni sera dopo cena mi fa la rassegna completa di fatti e antefatti della sua interessantissima attività lavorativa: ho imparato a scrivere a macchina, ho chiacchierato col custode, ho sistemato uno scaffale, ho fatto il caffè e soprattutto…»

«Cosa?»

«… il signor Ludwig!!», proruppe con gli occhi rabbiosi, dando uno strattone non tanto gentile a una povera cassetta di patate innocenti. «Il signor Ludwig mi ha detto, il signor Ludwig ha fatto, il signor Ludwig ha pensato, il signor Ludwig qua, il signor Ludwig là, il signor Ludwig un gran paio di p … !»

«A quanto le carote?», chiese una signora.

Romano si morse la lingua imbarazzato, mentre Antonio serviva la cliente, sghignazzando. La donna prese la sua spesa e si affrettò ad andare via, gettando di quando in quando sguardi fra lo scandalizzato e l’offeso a quel maleducato di un ragazzo.

«Senti un po’, bastardo…», fece dopo un po’, «sia chiaro che non è un’idea mia ma… Alice ti vuole invitare a cena»

Antonio sgranò gli occhi. «Vuole invitare me?»

«Vuole ringraziarti per averle trovato il lavoro da quel crucco… »

«Sono commosso, accetto con piacere!», rispose subito ilare, «Una cena a casa Vargas…un onore!»

«Bada che io non c’entro niente con questa iniziativa, ha deciso tutto lei», si affrettò ad aggiungere Romano, «non abbiamo mai ospiti a cena e non ci tenevo proprio ad abbandonare la tradizione!»

V

Dopo solo una settimana di lavoro in fabbrica Alice si poteva dire che aveva imparato quasi tutto: ormai non era più impacciata ed insicura, sapeva perfettamente dove trovare documenti e materiale che le occorreva senza dover chiedere al signor Beilschmidt, svolgeva diligentemente e con piacere i compiti che di volta in volta le venivano richiesti e si mostrava gentile e competente con fornitori ed operai.

Il signor Beilschmidt, o Ludwig come era diventato per Alice, si limitava ad annuire al lavoro fatto, apparentemente senza emozioni, qualche volta senza neanche alzare gli occhi dalla scrivania, ma le rare volte in cui diceva «Ben fatto» o «Grazie» il cuore di Alice brillava di gioia. Quel giovane tedesco aveva qualcosa di diverso da chiunque avesse mai conosciuto, lo aveva notato fin dal primo giorno, qualcosa di buono e triste e sensuale e forte e tenero in quegli occhi che sembravano non posarsi mai su nessuno. Ad Alice piaceva.

«Buongiorno, signor Lud… Beilschmidt!», salutò altisonante.

Lui come al solito era arrivato in ufficio prima ed era già affaccendato sopra una pila di fogli che sembravano attirargli molta attenzione.«Buongiono, signorina Vargas», rispose distrattamente.

«Ha visto che bella giornata oggi, c’è un sole splendido!». Si diresse verso l’ampia finestra e ne scostò le tende serrate; una calda luce gioiosa e rassicurante inondò la stanza. Al signor Beilschmdt la cosa non sembrò dispiacere più di tanto visto che si limitò a battere un po’ gli occhi per abituarli alla luce, senza dire niente.

«Ha del lavoro importante da finire? Le serve una mano?»

«Momentaneamente no…», rispose l’uomo senza alzare gli occhi dai documenti che stava leggendo.

«Allora…», fece Alice pensando, «posso… farle un caffè?». Beilschmidt la guardò: era ormai assodato che il caffè italiano stava diventando una dipendenza non indifferente per il tedesco, soprattutto da quando aveva scoperto che la sua giovane collaboratrice era particolarmente abile nel prepararlo.

«Un caffè lo gradirei, in effetti». Lieta di essere utile Alice si mise subito al lavoro, accendendo un piccolo fornello che si trovava nell’ufficio stesso e sistemando zuccheriera e tazzine su un vassoio.

Beilschmidt sistemò ordinatamente i fogli su cui stava lavorando e li mise da un lato, poi alzò improvvisamente dalla sua sedia e si diresse alla porta. «Mi assento un attimo, torno subito»

Alice fece un cenno d’assenso e continuò il suo lavoro. Diede una rassettata veloce alla stanza e alla scrivania e gettò un’occhiata sui fogli, probabilmente doveva essere qualcosa di importante se il signor Ludwig sembrava così preso. Fu richiamata ai suoi doveri dal rumore gorgogliante della caffettiera; la mise sopra il vassoio e soddisfatta si accinse a sistemarlo sulla scrivania del suo datore, così che trovasse tutto pronto.

Non ci è concesso sapere con quali magiche arti riuscì a compiere quanto segue ma, in un lasso di tempo infinitesimale, Alice inciampò su qualcosa di invisibile (o più verosimilmente su sé stessa) facendo finire disastrosamente caffè, caffettiera e zucchero sulla linda scrivania del signor Beilschmidt. La ragazza ci mise qualche secondo a realizzare quello che aveva combinato: i documenti su cui stava lavorando Beilschmidt giacevano lì, completamente inzaccherati di caffè bollente, altre chiazze erano sparpagliate su penne, agende e quant’altro si fosse trovato alla portata della furia di quella rovinosa caduta, compreso un cappotto appoggiato sullo schienale della sedia. Ecco, era fatta anche questa volta; una settimana era fin troppo. Alice non ebbe neanche la forza di alzarsi e tentare di pulire alla bell’ e meglio, rimase seduta sul pavimento a guardare attonita quello che aveva combinato, scoppiando in un pianto dirotto.

In quel mentre rientrò Beilschmidt. Appena vide Alice per terra, scossa dai singhiozzi, si precipitò su di lei. «Mein Gott ! Signorina, cosa è successo?!»

«Mi dispiace, mi dispiace…», riusciva solo a dire, «volevo solo preparare del caffè!»

Il ragazzo si guardò intorno, avvertendo l’odore fra il dolciastro e l’amarognolo della bevanda e come era finita sulla sua scrivania.

«Mi dispiace, sono scivolata e… se mi vuole licenziare la capisco!»

Ludwig la guardò per un attimo e la aiutò ad alzarsi porgendole una mano: «Licenziarla? Non le sembra di esagerare?»

«Ma… i documenti che stava leggendo sono rovinati, erano importanti!»

«Affatto, erano solo vecchi conti che analizzavo per stimare i profitti dell’azienda negli anni passati»; doveva confessare che, benché lei continuasse a singhiozzare, asciugandosi gli occhi, quella scena lo aveva quasi divertito e… intenerito. «Non è successo niente. Si è fatta male?».

Alice scosse la testa, lo guardava come trasognata. «Davvero non vuole licenziarmi?»

«Non ne vedo il motivo, per un’inezia simile», rispose tranquillamente, «lei è troppo emotiva, signorina».

«Il fatto è che… sono una pasticciona», disse e ripensò a tutte le volte che i suoi datori i lavoro, esasperati, l’avevano mandata via.

«È un’ottima collaboratrice. Ora ripulisca tutto e si metta al lavoro».

Da quel giorno cambiò qualcosa di impercettibile in Alice. Adesso era ancora più convinta della necessità di mantenere a tutti i costi quel lavoro; non avrebbe resistito a non vedere più il signor Ludwig.

NOTE

(1)Buongiorno signor Beilschmidt… io sono la nuova segretaria!

(2)Sono lieta di fare la vostra conoscenza.

(3)Dio mio!

   
 
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