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Autore: Cassidy_Redwyne    03/10/2013    3 recensioni
Quattro amiche diversissime fra loro, eppure inseparabili, vengono a conoscenza del prestigioso liceo di St. Elizabeth. In cerca di una nuova sistemazione scolastica, le ragazze decidono di iscriversi, del tutto ignare di ciò che le attende all’interno dell’istituto.
L’aspetto e il comportamento degli studenti, infatti, sono davvero bizzarri, per non parlare di quei quattro affascinanti ragazzi in cui le protagoniste si imbattono durante i primi giorni di scuola… si tratta di un colpo di fulmine o di un piano magistralmente architettato alle loro spalle?
Tra drammi adolescenziali e primi batticuori, le quattro sono pronte a smascherare una volta per tutte il segreto che si cela fra le mura del misterioso istituto.
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Night si passò una mano tra i capelli sudati, soffocando uno sbadiglio. Sentiva che, se si fosse lasciato andare anche solo per un attimo, sarebbe crollato lungo disteso sul pavimento. Era a pezzi, dopo aver pulito tutte le classi. Da solo.

Dopo avergli rifilato un calcio nello stomaco che l’aveva piegato in due ed essere fuggita, infatti, Gonnellina al Vento si era rinchiusa nella classe della sezione F ed era sempre lì da almeno tre ore.

Dopo aver spento le luci della B, Night si avvicinò di soppiatto alla porta della classe dove la Stevens si era barricata, controllando l’ora sul cellulare: era tardissimo! Ma con che cosa stava pulendo l’aula per metterci tutto quel tempo, uno spazzolino da denti?

Il pensiero di quella ragazza matta come un cavallo suscitava in lui reazioni contrastanti. L’aveva conosciuta da meno di due giorni e già sentiva di odiarla, ma allo stesso tempo lo incuriosiva. E poi, quell’accento… mancava da troppo tempo dall’Irlanda, cos’era successo nel frattempo agli adolescenti? Che razza di sostanze stupefacenti mettevano nei loro porridge a colazione?

Non si era mai imbattuto in una ragazza simile prima d’allora. Era isterica ed insopportabile, picchiava più forte della metà dei suoi ragazzi e sapeva che lo avrebbe messo sicuramente nei guai con Gérard, andando a peggiorare la delicata situazione in cui si trovava con il custode. Eppure, nel momento in cui i loro visi si erano trovati uno di fronte all’altro, così vicini che i nasi avrebbero potuto sfiorarsi, Night aveva avuto altri pensieri. Pensieri che non provava da tanti anni e che, a dirla tutta, nemmeno pensava che certe cose gli suscitassero.

Si affacciò alla porta della classe con fare circospetto. Era troppo stanco per poter reagire alle sue probabili provocazioni.

Ma non accadde nulla.

Gonnellina al Vento era profondamente addormentata su uno dei banchi.

Night si stropicciò le palpebre, credendo che la stanchezza gli stesse giocando qualche brutto scherzo.

No, la ragazza dormiva veramente. E stava pure russando.

Night fu travolto da un’ondata di rabbia. Infuriato, afferrò la scopa e fu tentato di abbatterla sul cranio della ragazza, ma dopo un istante l’aveva già posata a terra e si era messo a spazzare con aria rassegnata.

Dopo aver finito di pulire la classe al posto suo, Night ripose scopa e cassetta al loro posto, soffocando uno sbadiglio, e si avvicinò ad Angie.

La ragazza dormiva in una posizione davvero improbabile. Era seduta, con la testa poggiata sul banco da un lato, come un qualsiasi studente che sonnecchia durante una lezione particolarmente noiosa, ma aveva afferrato le gambe del banco con le braccia, come se lo stesse abbracciando.

A vederla, l’ombra di un sorriso gli balenò per un attimo sul volto.

Si voltò e si incamminò verso la porta, deciso ad andarsene. Per quel che gliene importava, Gonnellina al Vento avrebbe potuto rimanere con il suo nuovo amico banco fino all’indomani mattina. Così magari Gérard le avrebbe dato un’altra punizione.

Era già soglia quando qualcosa lo costrinse a voltarsi. Combattuto con se stesso, guardò Angie, che nel frattempo aveva iniziato a mugugnare parole incomprensibili nel sonno, ma dopo un istante distolse lo sguardo e uscì con decisione dalla classe.

Percorse solo pochi metri prima che i sensi di colpa lo obbligassero a tornare sui suoi passi, dentro la classe, fino al banco dove giaceva la ragazza.

Sospirando, provò a staccarle le mani con cui stringeva convulsamente le gambe del banco, ma la ragazza aveva i pugni serrati e, malgrado tutti i suoi sforzi, non riuscì a liberarla.

Night imprecò fra i denti. Ma chi gliel’aveva fatto fare? Se almeno si fosse mostrata un po’ collaborativa…

Afferrò la ragazza per la schiena e la tirò su, con lo stesso garbo con cui avrebbe sollevato una cassa per caricarla su un camion dopo che la suddetta gli fosse finita sull’alluce, impallidendo quando le sue mani sfiorarono inavvertitamente il petto di lei. Merda.

Era rimasto così scioccato da quel contatto – e dall’enormità delle sue tette – che ci mise un attimo ad accorgersi che Angie, la quale aveva finalmente mollato la presa con le mani, era rimasta attaccata alla parte superiore del banco con le gambe. Fottuta merda.

Iniziò così un avvincente tira e molla tra Night e il banco, in cui il ragazzo cercava disperatamente di liberare Angie, scuotendola come se agitando uno shaker per cocktail, con l’unico risultato di lasciare la ragazza ugualmente abbarbicata al banco e profondamente addormentata.

Dopo che Night, che continuava a bestemmiare tra sé, chiedendosi cos’avesse fatto di male nella sua vita, si fu trascinato dietro la ragazza e il suo inseparabile amico fino alla porta della classe, il banco si decise infine a lasciarli liberi. Si staccò da Angie e rotolò a terra, esprimendo tutto il suo disappunto con uno schianto metallico che rimbombò per mezz'ora nelle classi deserte.

Night implorò pietà, chiedendosi per la seconda volta nel giro di mezzo minuto cos’avesse combinato di male nella sua vita per meritarsi tutto ciò.

Angie, invece, continuò beatamente a ronfare.

****

La mattina dopo, preludio del nostro terzo giorno di scuola, ci eravamo appena svegliate e, come al solito, non eravamo esattamente in orario.

Arianna era filata in bagno a farsi una rapidissima doccia, io mi stavo vestendo in tempo record e Beth era ancora troppo assonnata per rendersi conto di ciò che le stava accadendo intorno. Quanto ad Angie, non c’era stato verso di svegliarla ed era ancora nel dormiveglia, mormorando parole incomprensibili nel sonno, tra le quali riuscii a cogliere almeno tre imprecazioni piuttosto colorite.

Mentre indossavo la camicia dell’uniforme, un urlo agghiacciante mi fece sobbalzare. Era proprio Angie che, forse non più nel dormiveglia, era appena venuta a sapere che Night l’aveva riportata in camera nostra, la sera prima.

«VOI GLIELO AVETE CONCESSO?!» inveì contro Beth che, stordita com’era, si limitò a sorriderle con aria assente.

«Angie, guarda che ti ha fatto solo un favore» intervenni, sospirando.

Lei mi fulminò con lo sguardo, Beth si limitò ad un rumoroso sbadiglio e in quell’esatto momento la porta del bagno si spalancò, riversando nella camera una densa nuvola di vapore, dalla quale comparve un’Arianna alquanto seccata.

«Cos’è tutto questo baccano?» sibilò, spegnendo il phon con rabbia.

Notando l’espressione furente di Angie, un lampo di consapevolezza le attraversò lo sguardo.

«È venuta a saperlo?» domandò poi, facendo vagare lo sguardo tra me e Beth.

«NON PARLARE COME SE NON CI FOSSI!»

Io mi affrettai ad annuire, mentre Beth, che probabilmente non doveva aver capito neanche una parola di quella conversazione, fece sì con la testa e ci rivolse un altro sorriso assente.

Arianna levò platealmente gli occhi al cielo.

«Angie» mormorò poi, inchiodandola con lo sguardo.

Dall’altra parte della stanza la ragazza riccia la stava fissando con aria cocciuta, le braccia incrociate al petto in un gesto di sfida.

Dal canto mio, iniziai a sudare freddo. La temperatura della camera sembrava improvvisamente essersi abbassata di qualche grado.

«Night ci ha detto che eri profondamente addormentata su un banco, quando ti ha trovata. Abbracciata al banco, ha detto proprio così» spiegò Arianna, fingendo di pensarci su. «Lui ti ha fatto solo un favore, ok?»

La ragazza parlava in tono paziente, come se stesse cercando di convincere una bambina particolarmente testarda a fare il bagno ma, man mano che proseguiva, la sua voce si faceva sempre più seccata,coperta a stento da un velo di pacatezza.

«Noi non gli abbiamo concesso un bel niente, dato che non c’eravamo. E comunque, se non volevi farti riportare in braccio da quel tizio, potevi rimanere sveglia.»

Scoccatole una sguardo di fuoco in risposta, Angie scattò in piedi e corse verso il bagno, cercando di raggiungerlo prima che vi tornasse Arianna, che però la bloccò sulla porta, brandendo il suo phon come un’arma.

E, mentre le due iniziavano l’ennesimo litigio, stavolta su chi delle due dovesse entrare per prima al gabinetto, io mi limitai a scuotere la testa con aria rassegnata, mentre Beth mi rivolgeva l’ennesimo sorriso assente di quella mattina.

 

Le lezioni mattutine passarono abbastanza rapidamente, specialmente nelle ore del nostro coordinatore di classe, il professor Anderson. A spiegare era davvero in gamba e rimpiansi amaramente il fatto che non fosse altrettanto capace di tenere a bada i bollenti spiriti dei nostri compagni.

Fare lezione, infatti, era pressoché impossibile, sia per lui che per gli altri professori. Era come se i ragazzi non riuscissero a stare seduti e a concentrarsi per più di cinque minuti consecutivi e, con un certo orrore, mi resi conto che la stessa cosa cominciava a succedere anche a me. Mi stavano contagiando!

La mia situazione, poi, era aggravata dalle presenza dei tre individui a cui avevo avuto la sfortuna di capitare accanto.

Shadow che, con grande soddisfazione di tutt’e tre le mie amiche – e mio sommo orrore – ormai aveva scoperto le sue carte. Non potevo più negare l’evidenza che ci stesse spudoratamente provando con me e intanto provavo a decodificare i segnali opposti inviati dal mio corpo, cercando di non uscirne matta: il cervello, che mi diceva di ignorarlo, perché era dannatamente scorretto, e gli ormoni, che mi dicevano di saltargli addosso e possibilmente anche in fretta.

A completare il quadretto, ci si mettevano Angie e Night ed i loro continui litigi, che mi facevano venire l’emicrania e rendevano la voce dei professori un leggero brusio continuamente ostacolato dai loro “SMETTILA!” o “Sei stato tu!” o ancora “Falla finita, Gonnellina al Vento!”

Ero disperata. Più volte fui sul punto di chiedere a qualche professore di cambiare posto, per poi guadagnarmi probabilmente la nomea di studentessa più irrequieta dell’istituto, pronta a essere spostata di banco dopo appena tre giorni di scuola. Ricordandomi com’erano esagitati i nostri compagni di classe, poi, pensai che forse quel titolo era già stato assegnato.

Dopo le lezioni, salimmo in camera a lasciare gli zaini e a riprenderci psicofisicamente prima di andare in mensa. All’appello mancava solo Beth, che era andata a portare gli appunti di quella mattina a Ben, il suo compagno di banco, quel giorno assente per la febbre.

****

A metà dei gradini, Beth aveva già il fiatone.

Mentre cercava di mettere insieme le forze per proseguire lungo le scale, la ragazza si chiese distrattamente come facessero gli studenti dei piani più alti a salirle e a scenderle tutti i santi giorni, senza neanche usare l’ascensore.

L’ascensore qui lo usano per altri scopi, pensò, la mente che le tornava inquieta a quella strana capsula e alle sue trasformazioni. Perché diamine le avevano “migliorate” in quel modo?

Scacciò quel pensiero dalla testa ed iniziò a leggere le targhette sulle porte, mentre proseguiva lungo il corridoio sempre più vuoto. Quarto piano, stanza numero 34, così le aveva detto Ben.

Quando finalmente ebbe trovato quel che cercava, fece per bussare, ma in quel momento l’occhio le cadde sul numero del piano, scritto sulla parete di fronte alle porte delle camere. Con orrore, vide che era il terzo.

Dio santo Beth, ma perché sei così rintronata?

Mentre si allontanava a passo svelto dalla camera 34 sbagliata, pensò che era stata fortunata ad accorgersi dell’errore prima di mettersi a bussare: se le avessero aperto e si fosse trovata davanti il Ben sbagliato, avrebbe pure dovuto spiegargli che non era neanche in grado di leggere i numeri dei piani.

Beth si lanciò sui gradini, destreggiandosi tra i ragazzi diretti in mensa che procedevano nel senso opposto al suo, rassegnandosi all’idea di un’altra rampa da percorrere e pensando già al necrologio che avrebbero scritto su di lei quando l’avessero trovata morta stramazzata sulle scale.

Era così concentrata sulla salita da percorrere, possibilmente senza perdere un polmone lungo il tragitto, che non fece caso ai ragazzi che superava. Quando il suo sguardo incrociò per una frazione di secondo quello di un familiare ragazzo moro, era già troppo tardi.

Beth si sentì afferrare per il cappuccio della felpa e le mancò l’equilibrio. Cercò disperatamente di rimanere attaccata al corrimano, ma qualcuno alle sue spalle continuava a strattonarla e perse la presa sul ferro, rovinando all’indietro.

Gli occhi della ragazza si sgranarono per l’orrore, mentre precipitava nel vuoto. Gridò per il terrore, ma dopo un attimo era già atterrata. Sul morbido.

Scattò subito in piedi, le gambe che le tremavano per lo spavento e, voltandosi, vide che John era dietro di lei, a terra, ai piedi delle scale. Capì in un attimo quello che il ragazzo avrebbe voluto farle e sentì la rabbia annebbiarle il cervello.

«Ma dico, sei impazzito?» urlò, fulminandolo con lo sguardo.

Ma cosa passava nella mente di quell’individuo? Se fosse caduta all’indietro, come John molto probabilmente avrebbe voluto, si sarebbe aperta la testa in due. Finendogli addosso, però, Beth aveva fatto sì che John si ritrovasse coinvolto e, a giudicare dall’espressione sofferente del ragazzo, si doveva essere fatto molto più male di lei.

«Tu sei pazzo» proseguì Beth, scuotendo la testa.

«Stupida mocciosa» gemette lui, alzandosi in piedi a fatica. «Mi fai fare sempre la figura del debole.»

«Io stupida?» Beth era senza parole. «Che gran faccia tosta! A quanto pare non ti è bastato spingere nel laghetto la mia migliore amica, ci mancava il trauma cranico! Be’, ti ringrazio per essertelo procurato al mio posto.»

John non disse nulla. Teneva lo sguardo basso e la ragazza lo vide portarsi una mano alla testa e soffocare un gemito di dolore quando si sfiorò la nuca con le dita.

L’irritazione abbandonò per un attimo il volto di Beth. «Ehi, tutto bene?»

Il ragazzo continuava a non dire nulla e lei fu travolta da un’ondata di preoccupazione. Sembrava essersi fatto davvero male e il fatto che non stesse neanche rispondendo a tono alle sue provocazioni era un pessimo segno.

«Ti porto in infermeria» esclamò, afferrandolo per un braccio.

Lui si liberò con uno strattone. «Assolutamente no. Non ce n’è bisogno.»

Beth levò gli occhi al cielo. «Ma cos’è che stai dimostrando, esattamente? È una prova di virilità?»

John le lanciò un’occhiata perplessa, ma Beth non lo degnò di uno sguardo e ne approfittò per farsi più vicina al ragazzo, gli occhi fissi sulla sua testa.

Lui fece per indietreggiare, ma Beth riuscì ugualmente a tastargli la nuca e, quando percepì le dita inumidirsi, il cuore le si impennò nel petto per l’ansia.

Non appena le ebbe di nuovo davanti al volto, i suoi sospetti trovarono conferma: sangue.

«Tu in infermeria ci vieni eccome» fece lei, in un tono che non ammetteva repliche.

Gli appunti di Ben potevano aspettare, pensò poi, mentre trascinava John giù per le scale.

****

Quando Beth ci raggiunse in mensa, trafelata, noi l’avevamo ormai data per dispersa.

«Beth!» esclamai, scattando in piedi.

«Dove sei stata?» domandò Arianna.

«Ho portato John in infermeria» spiegò lei tutto d’un fiato, appoggiandosi al tavolo al quale eravamo sedute.

Noialtre ci scambiammo uno sguardo perplesso.

«In infermeria?» ripetei, soffocando a stento l’irritazione nel sentire nominare quell’odioso ragazzo.

«Lo hai picchiato?» Angie si era improvvisamente interessata al discorso.

Beth si affrettò a scuotere la testa.

«È stato picchiato?»

«No, Angie» sospirò l’altra. «Secondo voi riesco a mangiare qualcosa?» aggiunse, guardandosi intorno nella mensa ormai semideserta.

La maggior parte degli studenti aveva già finito di mangiare da un pezzo ed era uscita a godersi la breve pausa prima dell’inizio delle lezioni pomeridiane.

«Penso di sì» feci io, seguendo il suo sguardo.

«Sappi che non voglio arrivare in ritardo a lezione» intervenne Arianna. «Quindi sbrigati.»

Beth annuì di slancio e corse verso il bancone, dal quale tornò poco dopo vittoriosa, con un vassoio stracolmo di cibo tra le mani.

La ragazza si sedette al tavolo e rimanemmo a farle compagnia mentre lei mangiava il più veloce possibile, sotto gli occhi attenti di Arianna, che smetteva di fissarla solo per poter lanciare un’occhiata al suo orologio da polso, per poi tornare svelta a controllare l’altra.

«Avevo una fame…» biascicò Beth, a bocca piena.

«Cosa è successo a John?» chiesi a un tratto.

«È caduto dalle scale» rispose lei, tra un boccone e l’altro.

Rimanemmo stupite di fronte a quella risposta vaga, a cui non seguirono altre spiegazioni, complice forse lo sguardo minatorio di Arianna.

Come mai Beth lo aveva portato in infermeria? Non lo odiava tanto? Forse era rimasta coinvolta. Mi rassegnai all’idea che le mie domande non avrebbero trovato risposta, almeno per il momento. Oltretutto sapevo bene che, se Beth avesse voluto tenere quell’episodio per sé, non mi avrebbe raccontato un bel niente, in barba alla nostra amicizia, esattamente come era accaduto con quella faccenda, l’anno prima.

Scacciai quel pensiero fastidioso dalla mente. Le cose erano diverse con Beth, adesso.

Dopo che la nostra amica ebbe finito di mangiare, salimmo in camera a prendere gli zaini e poi ci precipitammo al piano di sotto per le lezioni pomeridiane.

Quel giorno avevamo un’ora di matematica e una di musica, che in teoria doveva essere un po’ più rilassante della prima ma si rivelò altrettanto estenuante, per tutti meno che per Beth. La mia amica, infatti, con le sue conoscenze musicali e il fatto che sembrasse aver preso il tè con tutti quanti i membri dei Beatles, si guadagnò subito i favori del professor Caldwell.

Dopo le lezioni, Beth avrebbe voluto andare a vedere come stava John ma, quando la accompagnai in infermeria, ci venne riferito che il ragazzo era andato in camera sua subito dopo le medicazioni. Non avendo idea di dove fosse la sua stanza, Beth si rassegnò a seguirmi in camera.

«Non è che ti sei presa una cotta per lui?» scherzai, voltandomi di colpo verso di lei mentre procedevamo lungo il corridoio, dirette alla nostra stanza.

«Assolutamente no!» tuonò lei, in tono così accalorato che mi fece trasalire. «Ma che ti salta in mente?!»

«Ehi, scusa» mormorai, aggrottando le sopracciglia. «Guarda che stavo scherzando. Lo so che a te…»

«Scusami, non so cosa mi sia preso» si affrettò a dire lei, interrompendomi. Doveva essersi accorta di aver esagerato. «Sono solo preoccupata, tutto qua. Sembrava essersi fatto davvero male.»

 

Quella sera ero di ritorno dalla mensa, dopo cena, quando incrociai Shadow davanti alla porta di camera sua.

«Ehilà, Kia!» esclamò lui, vedendomi.

«Ehm… ciao» risposi, dopo aver lanciato nervosamente un’occhiata alle mie spalle. Angie, Beth ed Arianna non si vedevano all’orizzonte. Dovevano essere ancora sulle scale e non sapevo se essere contenta o dispiaciuta del fatto che fossimo soli.

«Posso proporti una cosa?» fece lui all’improvviso, tamburellando con le dita sulla porta. Sembrava di colpo un po’ meno sicuro di sé.

Mi sentii improvvisamente la gola secca e il cuore iniziò a palpitarmi nel petto. Oddio. Cos’è che voleva propormi?

Shadow intanto continuava a fissarmi e realizzai che il copione prevedeva che in quel momento io dessi qualche cenno di vita, cosicché lui potesse farmi quella benedetta proposta.

«Dimmi.»

«Domani sera organizziamo una festa in giardino. Ti andrebbe di venire?» Dopo un momento, aggiunse: «Con me?»

Rimasi immobile. Quella pausa era chiaramente un invito che non aveva niente a che fare con la festa, un invito che dovevo rifiutare. Era anche l’occasione perfetta per dirglielo una volta per tutte, onde evitare malintesi.

Feci un respiro profondo e lo fissai dritto negli occhi, ma tutti i miei buoni propositi andarono a farsi benedire quando ricambiai quello sguardo gentile, affascinante e soprattutto pericolosamente speranzoso e colmo di aspettative, che mi fece diventare le gambe di gelatina.

«Certo» risposi senza neanche rendermene conto. NO. NO. NO!

«Fantastico!» esclamò lui, con rinnovata sicurezza.

Mi morsi la lingua. Non potevo credere di aver accettato sul serio. Razza di deficiente.

«Ma scusa, vi permettono di organizzare una festa in giardino?» domandai, nel vano tentativo di allontanare da me i sensi di colpa. Davvero vano.

«Sì» rispose lui, facendosi pensieroso. «Sembra quasi che ci tengano a farci conoscere nuove persone.»

La aggiunsi mentalmente alla lista di stranezze di quell’istituto, tra i preservativi e l’ascensore dei ritocchi estetici. Stava diventando lunga.

Shadow mi diede appuntamento per l’indomani ed entrò in camera sua, giusto un attimo prima che le ragazze spuntassero dalle scale.

Mi affrettai a raggiungerle, senza dire loro una parola sulla festa alla quale avevo appena malauguratamente accettato di partecipare.

 

Quella notte non riuscii a prendere sonno e avevo come il vago sospetto che Shadow c’entrasse qualcosa.

Mi rigirai più e più volte nel letto, attorcigliandomi nelle lenzuola alla vana ricerca di una posizione comoda. Inutile, avevo gli occhi sbarrati.

Angie, oltretutto, russava come un trombone: quando finalmente chiudevo gli occhi e mi rilassavo, lei iniziava a rumoreggiare ancora più forte, facendomi venire voglia di urlare.

Non potevo neanche mettermi a leggere, dato che Arianna aveva espressamente chiesto di non accendere la luce, dicendo che era stanca e non voleva essere disturbata. Non potei fare a meno di chiedermi come facesse a dormire con l’orchestra che Angie scatenava russando e a svegliarsi con la pallida luce di un abat-jour.

Dopo quella che mi parve un’eternità, sentii infine le palpebre farsi pesanti. Così, quando intravidi Beth alzarsi in piedi e avviarsi verso la porta, pensai di essermi finalmente addormentata e di stare sognando.

 

Beth non riusciva a dormire.

Era da quando aveva messo piede nel letto che non prendeva sonno, con Kia che si rotolava tra le coperte come un criceto rabbioso e Angie che russava ininterrottamente a bocca spalancata. Dopo aver fissato il soffitto per quella che le parve un’eternità, si alzò a sedere e scivolò giù dal letto, lasciando le sue amiche addormentate.

Senza neanche chiedersi che cosa stesse facendo, arraffò la chiave della camera dal comodino, aprì la porta con un cigolio e uscì, chiudendosela alle spalle.

Attraversò il corridoio in punta di piedi, completamente scalza. Si guardava intorno e si sorprese a sperare di incrociare qualcuno, ma era notte fonda, chi mai sarebbe stato così pazzo da andarsene in giro a quell’ora?

Solo io, ovviamente, pensò Beth scuotendo leggermente la testa, quando un rumore di passi alle sue spalle la smentì clamorosamente.

Si voltò, confusa e un po’ inquieta, e si trovò davanti Lucas, che camminava lungo il corridoio a testa bassa, come se fosse immerso nei suoi pensieri. Il bel ragazzo biondo era a torso nudo e Beth era così presa da quella visione celestiale che ci mise un po’ ad accorgersi che aveva qualcosa tra le dita. Qualcosa che lasciava ben poco all'immaginazione.

Preservativi: servitevi pure, pensò la ragazza, inarcando un sopracciglio.

Lucas non dava segno di averla notata, almeno finché non sollevò la testa e i loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo. Il ragazzo sgranò gli occhi e le puntò il dito contro. All’improvviso, sembrava terrorizzato.

Dal canto suo, Beth si sentì morire. Aveva fatto qualcosa di male? C’era un serial killer alle sue spalle armato di coltello e lei non se n’era accorta? Si sforzò di pensare a un’ipotesi più spaventosa di un serial killer e le venne in mente solo Gérard. Ma, dopo essersi voltata, vide che non c’era traccia di quell’inquietante bidello né di assassini muniti di coltelli. Non c’era nessuno. Ma allora cos’è che aveva spaventato tanto Lucas?

Tornò a guardare il ragazzo e fece un passo nella sua direzione, ma lui indietreggiò di scatto, l’orrore che si faceva strada sul suo volto.

«Ma cos...»

«UN FANTASMAAA!» ululò lui, bianco come un cencio, voltandosi di scatto e correndo via, probabilmente verso la sua stanza.

Prima che il terrorizzato grido di Lucas potesse svegliare qualcuno, Beth si lanciò sulle scale e cominciò a scendere in preda al panico, diretta al piano terra.

Possibile che quel cretino l’avesse presa davvero per un fantasma? Era a piedi nudi e aveva una lunga camicia da notte bianca, ma non credeva di avere un viso così inquietante, soprattutto dopo gli effetti di quella stramaledetta macchina. Forse.

Era così occupata a riflettere che le ci volle un po’ per rendersi conto che ad ogni suo passo un rumore sordo rimbombava in tutta la scuola. Maledicendosi fra sé, rallentò l’andatura.

Il pavimento gelido le stava facendo rabbrividire le piante dei piedi, mentre attraversava silenziosamente l’atrio.

Beth si arrestò solo quando il portone d’ingresso le si stagliò di colpo davanti e a quel punto vi si avvicinò, chiedendosi distrattamente se si potesse uscire. Figurati.

Provò comunque a spingere in avanti il portone e quello, contro ogni previsione, si aprì con un cigolio. Beth trasalì per la sorpresa. Forse era stata una svista degli inservienti.

Superò la soglia come se stesse sognando e si ritrovò di colpo all’aperto, esposta ad un refolo di vento che la riportò bruscamente alla realtà. Si affrettò a scendere i gradini che la dividevano dal vialetto e il suo sguardo corse al robusto cancello in fondo al giardino, chiedendosi se qualcuno dei suoi selvaggi compagni di scuola ne avesse mai tentato la scalata per fuggire.

Mentre abbandonava il vialetto coperto di aghi di pino e si addentrava nel cuore del giardino, Beth alzò la testa e lanciò un’occhiata alla luna piena che illuminava quella notte senza stelle, che brillava fulgida come un faro in quel mare notturno.

Rabbrividì al tocco dell’erba che, umida di guazza, le inumidiva i piedi nudi. Il silenzio accompagnava i suoi passi, donandole la quiete che quella notte aveva invano cercato nel sonno.

Mentre camminava lentamente nel buio, un’improvvisa folata di vento portò all’orecchio di Beth una melodia, costringendola a voltarsi. Non era possibile, c’era davvero qualcuno in giardino a quell’ora della notte… e non era certo un qualsiasi qualcuno!

Illuminato dal pallido chiarore della luna, John stava suonando la chitarra, seduto su una panchina.

Beth spalancò la bocca, senza riuscire a credere a ciò che vedeva. Ma, se anche gli occhi la stavano ingannando, la musica che John stava suonando suonava perfettamente reale alle sue orecchie.

«Che ci fai qui a quest’ora?» non riuscì a trattenersi dall’esclamare, avvicinandosi a grandi passi.

Il ragazzo si bloccò dal pizzicare le corde della chitarra e alzò gli occhi su di lei, scoccandole uno dei suoi consueti sguardi di superiorità.

«Potrei farti la stessa domanda, mocciosa» disse poi con voce tagliente, chiaramente scocciato da quell’interruzione. Senza aspettare una sua replica, abbassò lo sguardo sulla chitarra e tornò a suonare senza curarsi di lei.

Beth sbuffò, irritata dai suoi modi sgarbati. Avrebbe potuto tornare indietro o proseguire attraverso il giardino, ma non poteva ignorare il fatto che fossero probabilmente gli unici studenti a zonzo a quell’ora della notte, se escludeva quell’idiota di Lucas. Ignorarsi così platealmente non era da lei, a cui, a dire il vero, non sarebbe dispiaciuta un po’ di compagnia. Certo, avrebbe preferito di gran lunga quella di un cactus a John che, a giudicare da come la squadrava, sembrava della stessa idea, ma ogni tanto ci si doveva anche accontentare, dopotutto.

Così, forse anche per ripicca dopo come John l’aveva apostrofata, Beth si lasciò cadere sulla panchina accanto a lui, rabbrividendo al contatto del legno contro la sua pelle nuda. Se non altro, pensò, John non l’aveva scambiata per uno spettro, vedendola, o aveva quantomeno deciso di tenerlo per sé.

«Non sapevo suonassi la chitarra» proruppe lei. «Proprio come John L...

Lui si voltò verso di lei e la zittì, posandole un dito sulle labbra, sulle quali forse indugiò un momento di troppo.

Beth impallidì e si scostò bruscamente, turbata da quel contatto. Non aveva potuto fare a meno di notare che le dita di John erano bollenti. Quelle stesse dita che adesso erano tornate a scorrere sicure sulle corde della chitarra, emettendo suoni malinconici.

Nel sentirlo suonare, Beth provò un brivido che non aveva niente a che fare con il freddo. Le costava caro ammetterlo, ma John ci sapeva davvero fare.

Ma i brividi d’emozione ben presto lasciarono il posto a quelli di freddo, dato che il vento continuava a soffiare ininterrottamente, senza un attimo di tregua.

Beth si strinse nella camicia da notte, maledicendosi per essere uscita solo con quella. Ma cosa le era saltato in mente, credeva di girare il remake di The Ring?

«Su, vieni» borbottò John all’improvviso, poggiando la chitarra a terra.

Beth lo guardò, perplessa. «Scusa?»

John le fece segno di avvicinarsi e Beth lo fissò con tanto d’occhi, credendo di esserselo solo immaginato. Dopo avergli scoccato uno sguardo diffidente, la ragazza si decise infine ad obbedire. Gli si fece un po’ più vicina, muovendosi molto lentamente e senza mai perderlo d’occhio un istante, come se si aspettasse una trappola da un momento all’altro.

Ma non sembrava esserci nessun inganno. John le circondò le spalle con un braccio e la attirò a sé, in un gesto che a Beth parve improvviso e repentino, almeno paragonato ai suoi movimenti.

A contatto con il corpo del ragazzo, che in confronto a lei pareva una stufa, Beth arrossì un poco e deglutì, cercando di non farsi prendere dal panico. Quella situazione non le piaceva per niente. John era il ragazzo che aveva offeso Lennon, dopotutto, non poteva certo scordarlo! Ma faceva freddo, diamine se faceva freddo, e John era l’unica fonte di calore che aveva a disposizione.

Meglio che morire assiderati, si rassegnò infine Beth, poggiando la testa contro la spalla del moro. Chiuse lentamente gli occhi, dimenticandosi per un attimo di detestare John con tutta se stessa perché, semplicemente, in quel momento non era lui. 
Fa’ finta che sia una stufa a legna. Dai, non dovrebbe essere poi così difficile.

«Non ti mettere a dormire, però» mormorò il ragazzo ad un tratto. A Beth non sfuggì una vaga nota divertita nel suo tono di voce, al posto del solito astio.

Per tutta risposta, lei emise un grugnito di protesta, che lo fece scoppiare a ridere.

Beth realizzò che non lo aveva mai sentito ridere prima d’allora e aprì gli occhi per potergli lanciare un’occhiata, così, per assicurarsi che non stesse avendo un’allucinazione.

John si stava sistemando i capelli corvini con gesti nervosi e, nel farlo, Beth intravide delle bende, probabilmente il risultato dell’incidente di quel pomeriggio. Era sul punto di chiedergli se stava meglio, ma alla fine optò per rimanere in silenzio. C’era un’insolita quiete fra di loro, come se niente di tutto ciò che era accaduto fra di loro fosse mai successo, e Beth non aveva intenzione di romperla.

Rimasero a lungo in quella posizione, finché il ragazzo non si riscosse, come se si fosse appena improvvisamente risvegliato da un sogno.

«Mi è venuto freddo» borbottò, il tono tornato tagliente. «Se non ti dispiace, io me ne vado.»

La allontanò da sé e si alzò lentamente in piedi, afferrando la chitarra e facendo per incamminarsi lungo il vialetto.

«Va bene» replicò lei, in un moto di stizza. Fece per aggiungere qualcosa, ma nell’aprire bocca le sfuggì un sonoro sbadiglio. «Tanto mi stavi facendo addormentare.»

Contro ogni previsione, John si voltò verso di lei, un’espressione indefinibile dipinta sul volto.

«Torniamo dentro, allora» disse, tendendole la mano.

Beth la fissò con aperta diffidenza, ma poi, rendendosi conto che si era così stravaccata sulla panchina che molto probabilmente non sarebbe riuscita ad alzarsi da sola, si convinse e la strinse.

John la tirò su con slancio, apparentemente senza alcuna difficoltà. Ma, proprio mentre Beth si trovava a mezz’aria, il ragazzo si liberò dalla sua stretta e si avviò sul vialetto per conto suo, lasciandola da sola, immobile e confusa.

«Bel cavaliere che sei, prima fai tutto il gentiluomo e poi non mi aspetti neanche!» gli urlò dietro con rabbia.

Tentò di rincorrerlo lungo il vialetto, imprecando sottovoce per gli aghi di pino che le si conficcavano nelle piante dei piedi, ma il ragazzo era molto più avanti di lei.

In un attimo John era arrivato al portone della scuola e, come notò Beth con rabbia, non si degnò neanche di girarsi verso di lei. Lo sentì farfugliare qualcosa, prima di entrare, ma non riuscì a capire le sue parole.

«Che hai detto?» esclamò, seguendolo. «Avanti, John!»

Quando entrò all’interno della scuola, però, lui era già scomparso.

«Ah, quel deficiente!» sbottò e, salendo le scale due gradini per volta, Beth se ne ritornò in camera sua.

 

Le labbra di Beth erano incredibilmente morbide.

John aveva fatto quell’inaspettata scoperta nel preciso momento in cui aveva fatto per zittirla. Non avrebbe voluto toccarla, in realtà, ma il suo era stato un gesto istintivo: con Annie, dopotutto, era abituato a farlo di continuo. Dopo un attimo, però, si era reso conto che con questa ragazza non aveva alcuna confidenza e che non avrebbe dovuto farlo.

Eppure, il suo dito aveva esitato, premuto sulle labbra di lei. Non erano come quelle di Annie, che si lamentava sempre di non potervi mettere il burro di qualcosa perché finiva sempre per mangiarselo. Erano piene e morbide, e John si sorprese ad indugiare su quei cuscinetti, finché lei non si scostò bruscamente da lui, guardandolo storto.

Solo a quel punto il ragazzo aveva realizzato ciò che aveva fatto e si era rimesso a suonare, sforzandosi di ignorare quella fastidiosa presenza accanto a lui.

Quando l’aveva vista emergere tra gli abeti ed i pini, come una specie di ninfa, a John era quasi venuto un colpo. Poi aveva realizzato chi fosse e aveva maledetto tutti i santi che gli erano venuti in mente, prima di arrendersi all’evidenza che quell’odiosa ragazza non si sarebbe schiodata dalla sua panchina. Quel pomeriggio, infatti, aveva potuto rendersi conto che, oltre ad essere insopportabile, Beth o come caspita si chiamava era pure testarda come un mulo.

John aveva continuato a suonare, ma si era accorto da un pezzo che la ragazza tremava come una foglia e avrebbe voluto darle la sua giacca di pelle, ma continuava a dirsi di non farlo.

«Su, vieni» aveva borbottato infine, voltandosi verso di lei, dopo aver poggiato delicatamente la chitarra a terra.

Lei l’aveva guardato come un timoroso animale selvatico, prima di avvicinarsi. John le aveva passato un braccio intorno alle spalle, come era accaduto mille altre volte con Annie ma, nel preciso momento in cui l’aveva fatto, aveva realizzato che forse darle la sua giacca sarebbe stata un’idea migliore.

Beth era troppo vicina. Decisamente troppo vicina. John era paralizzato e non riusciva a pensare a nient’altro che non fosse la sua testa poggiata contro la sua spalla, i suoi capelli mossi dal vento che gli solleticavano la guancia, la sua pelle fredda stecchita a contatto con la sua. E poi c’era il suo profumo, intenso e del tutto sconosciuto, che lo stava stordendo come se stesse fumando dell’erba.

Lanciò un’occhiata di sottecchi alla ragazza e vide che aveva gli occhi chiusi. Sembrava stesse dormendo e un risolino gli sfuggì dalle labbra.

«Non ti mettere a dormire, però.»

Un’improvvisa folata di vento gli scompigliò i capelli, che vide bene di risistemare, anche perché Beth aveva aperto di scatto gli occhi, forse disturbata da quel refolo.

C’era una strana tranquillità fra di loro e, dopo un lungo tormento interiore, John decise che quell’improvvisa vicinanza non gli piaceva e lo metteva a disagio. Non poteva certo ignorare il modo in cui lei lo aveva trattato davanti a tutti.

Fece appello a tutto se stesso per resistere, perché c’era qualcosa in lui che lottava per emergere e per mantenere quella pace fra di loro, ma alla fine non riuscì più a sopportarla.

«Mi è venuto freddo» borbottò, senza riuscire a pensare a nient’altro di meglio da dire.

Scostò bruscamente la ragazza da sé e si alzò in piedi. Senza il corpo di lei premuto contro il suo, gli pareva di essere tornato a respirare.

«Va bene» fece lei di rimando.

La sua voce era come una miriade di spilli, che si andarono a conficcare nella schiena di John e non furono per niente piacevoli. Il ragazzo levò gli occhi al cielo, chiedendosi perché dovesse capitare proprio a lui, e non poté fare altro che girarsi.

Con una mano strinse la sua chitarra, da cui non si separava mai, e tese l’altra alla ragazza.

«Torniamo dentro, allora.»

Ancora una volta, Beth lo fissò poco convinta, ma alla fine allungò la sua.

John la tirò su con slancio e per un solo, lungo attimo, poté sentire il calore che sprigionavano le loro mani.

È tutto così fottutamente romantico, pensò, impallidendo. Decisamente troppo romantico per me.

Ruppe quell’assurdo contatto e si avviò sul vialetto per conto suo, con lo sguardo della ragazza che gli bruciava sulla schiena.

Ignorò gli improperi che lei gli lanciò dietro e percorse a passo veloce i pochi metri che lo separavano dal portone d’ingresso.

Quando lo ebbe raggiunto, fu tentato di girarsi verso Beth, ma poi pensò che lei avrebbe visto la sua espressione e non era affatto una buona idea. Chissà cos’avrebbe pensato.

«Dannata mocciosa, mi fai fare sempre la figura del debole» borbottò prima di entrare.

  
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