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Autore: applestark    06/10/2013    0 recensioni
Sandy ha 18 anni ed un passato difficile alle spalle. Si è trasferita a Baltimora da poco ed è intenzionata a trovare suo padre, il quale è sparito dalla sua vita senza dirle il motivo.
Jack Barakat è il chitarrista degli All time low, ed è intenzionato a togliersi di dosso l'immagine dell"idiota".
Il loro incontro cambierà un bel pò di cose. Capiranno entrambi che la perfezione non esiste, ed è inutile continuare ad inseguirla.
"Now all I do is sit and count the miles from you to me. Oh, calamity!"
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Gaskarth, Jack Barakat, Nuovo personaggio, Rian Dawson, Zack Merrick
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I

Sandy
 
“E’ il tuo diciottesimo compleanno, Sandy. E sai cosa significa questo? Significa che finalmente potrai gestirti da sola, che non hai più bisogno di me, che infondo puoi cavartela da sola.
Il tuo sogno era quello di andare via da questo posto, no? Allora vai, insegui il tuo sogno, acchiappalo tra le mani e non lasciarlo andare più.”
 
Le parole di mia madre continuavano a riecheggiarmi nella testa.
Era la notte del mio compleanno, il cielo fuori era buio, la mezza notte era scoccata da poco e finalmente il Primo Novembre era giunto. Che giorno curioso per nascere, no?
Non sapevo se il suo fosse stato un augurio oppure una bestemmia. Non riuscivo a capire se lei fosse contenta di abbandonarmi oppure felice del fatto che sua figlia fosse cresciuta.
Aveva sempre giocato ad essere la mia migliore amica, ma non aveva mai notato tutto il mio sgretolamento, le cattive compagnie, il disagio interiore che portavo dentro e che non mi aveva abbandonata proprio mai.
Mi permetteva tutto ciò che volessi, anche di saltare la scuola. Proprio per quel motivo le espulsioni erano per me all’ordine del giorno. Non mi piaceva andare in quel posto, odiavo il confronto ed avevo un serio problema di socializzazione. Ero una sociopatica, una… una ragazza diversa.

Era il due novembre, precisamente due giorni dopo che mia madre mi avesse concesso il suo apparentemente liberale e dolce “arrivederci”.
Mio padre non l’avevo mai più visto da quando avevo circa sei o sette anni, ma sapevo che viveva in America, nello stato del Maryland.
Non che mi interessasse tanto trovarlo, ma quello forse era il posto giusto da dove ricominciare.
 Edward Wate, questo è il nome di mio padre, l’uomo al quale non ho mai perdonato il fatto di avermi abbandonata.
Correva via dall’asfissiante modo di fare di mia madre, Terry Stewart, ma non avrebbe mai dovuto farlo tagliando tutti i rapporti con me, con sua figlia.
Eppure, era come se la bambina che avevo dentro non riuscisse ad odiare completamente suo padre, e il pensiero di poterlo ritrovare, anche solo per dirgli “Ti odio, fanculo”, mi faceva sentire… stranamente e vagamente… felice.
 
Il mio aereo atterrò a Baltimore con circa un’ora di ritardo.
Se ancora non l’ho detto, la sfiga mi perseguita  da quando sono nata. Secondo una mia vecchia amica, si trattava del mio giorni di nascita, stavo sulle scatole a un bel po’ di anime che ogni anno mi infliggevano la sfiga addosso come regalo di compleanno.
Io non badavo molto a queste cose, però mi arrabbiavo brutalmente.
L’ira era un’altra delle cose che non riuscivo a manovrare, tenere sotto controllo. Potevo sembrare acida a primo impatto ma ero certa che, nel profondo di me stessa, si celasse una brava, buona e dolce ragazza.
Io non l’avevo mai vista, ma sapevo che c’era.
Ovviamente non ero mai stata negli Stati Uniti prima di quel momento, a dirla tutta, non mi ero mai spostata dall’Irlanda, dal paesino nei pressi di Leitrim, contea nella quale avevo vissuto tutta una vita.
Non potevo permettermi un albergo, io e mia madre eravamo andate avanti a forza di sforzi, dunque avevo affittato una lurida stanza nella villetta di campagna di una signora, una certa Margareth. Doveva avere minimo sessant’anni, forse molto di più, e mi aveva affittato la stanza a poco prezzo, quindi avevo accettato sin da subito.
Non mi ero iscritta a nessun college, non ancora, quindi dovevo trovarmi un lavoro al più presto.
Mi erano rimasti pochi dollari nella tasca della giacca verde militare, che utilizzai per il taxi.
 
“Salve, mi porti a Lincoln Street, grazie.” Dissi al conducente, il quale mi rispose con un “Certo” che sapeva così tanto di america…o, per bacco, il loro accento era così dannatamente marcato!
Durante il viaggio rimasi in silenzio, osservavo la strada recentemente asfaltata con il suo colore grigio topo, il cielo era di uno strano azzurro, le nuvole in cielo erano gonfie come palloncini, quasi sul punto di scoppiare in una dirompente tempesta.
Avevo addosso una pesante giacca verde ma qualche brivido mi percorreva le braccia, non sapevo se si trattasse di paura o era una questione fisiologica.
Non avevo mai varcato i confini della mia contea in Irlanda, il mondo per me era solo quello che vedevo nelle scorrevoli immagini del telegiornale,  e in quel momento ero così…spiazzata.
Avevo un numero sul cellulare,  era di mio padre, ma ogni volta che provavo a chiamarlo mi veniva un groppo in gola  e lasciavo andare.
Avevo avuto mia madre per tutto quel tempo, che con i suoi alti e bassi era riuscita a farmi crescere più o meno bene, nonostante i miei gravi problemi di autostima, la completa assenza di vestiti della mia taglia nell’armadio.
C’era una fissa che mi perseguitava: quella di indossare abiti più larghi in modo da nascondere le curve. Purtroppo non ero fatta di un ammasso di ossa e un pancino piattissimo come il resto delle ragazze, e questo mi gravava sulle spalle.
Persa nei meandri della mia mente non mi ero nemmeno resa conto di essere arrivata a destinazione. Presi dalla tasca laterale della mia tracolla una mappa della zona –eravamo in periferia- e poi scesi dal taxi, pagai il conducente e la polvere che provocò il slittare dei pneumatici sul terreno fangoso mi sporcò i jeans.
Sbraitai, e poi mi trascinai  fino all’isolato 5.
Sul foglio che avevo tra le mani c’era scritto: Famiglia Gaskarth, isolato 5, prima villetta a destra. E poi il loro numero, che la signora mi aveva gentilmente dato.
Cercai di sistemarmi per avere un’aria più o meno presentabile e poi bussai al citofono, in attesa di qualche risposta.
-Chi è?- chiese una voce dopo una manciata di minuti.
-Sono Sandy Wate, la ragazza che ha preso in affitto una delle camere… quella irlandese-
-Ah, certo. Entra pure-
Dalla voce si capiva che l’età della donna poteva variare dai sessanta o settant’anni, e questo poteva considerarsi un vantaggio visto la vita tranquilla che la maggior parte dei nonnetti vive.
Posai la mano sulla maniglia e immediatamente la donna aprì la porta.
-Salve!- esclamai, pulendomi i piedi sul tappeto all’entrata, sul quale c’era scritto a caratteri cubitali “Welcome”.
-Ciao Sandy, benvenuta a Baltimore. Vieni dentro, scommetto che tra poco verrà a piovere-
L’età era quella che avevo ipotizzato, la signora era bassina ed aveva un caschetto rosso, gli occhi erano due cerchietti blu cobalto.
-Io sono Margareth come ben già sai, lui invece è mio marito-
Sorrise, e mi fece cenno di seguirla verso il salotto.
Io ero piuttosto imbarazzata visto che non sapevo cosa fare, cosa dire. Strinsi il trolley forte tra le mani e feci quello che mi disse.
Suo marito era un uomo con i capelli brizzolati e un sorriso raggiante.
-E così sei tu l’irlandese? Piacere di conoscerti, sono William, William Garkarth-
-Si, sono io. Il piacere è tutto mio, sono Sandy Wate-
Sorrisi appena e poi roteai lo sguardo, visto che non sapevo più cosa aggiungere.
Probabilmente la signora comprese il mio imbarazzo e mi si avvicinò.
-Vieni, ti faccio vedere la tua camera-
Annuii e la segui verso le scale, che salimmo piano piano una ad una.
 
-Eccoci- esclamò la signora, indicandomi una stanza, l’ultima del corridoio.
-Ti sembrerà strano il fatto che mettiamo in affitto le stanza della nostra casa a così basso prezzo. In realtà pensiamo che sia un gesto carino, molti studenti studiano all’Università di Baltimora, la nostra villetta è spaziosa e quindi…-
-E’ molto generoso da parte vostra, sul serio.-
Margareth sorrise compiaciuta. –Tu cosa studi?-
-Niente…ancora niente- balbettai in imbarazzo. –Ma mi troverò un lavoro subito, cercherò un’altra sistemazione, non si preoccupi!-
La signora posò una mano sul mio braccio e sorrise.
-non ti preoccupare, pagami l’affitto solo quando hai soldi abbastanza. Ti avverto…nella stanza c’è anche una piccola cucina, è una sorta di monolocale-
-Si, avevo visto la foto su internet!- risposi, ricredendomi di quanto carina fosse la stanza, molto meglio della foto sul sito.
-Giusto… adesso ci sono le tecnologie. A presto, Sandy.-
-Arrivederci!-
 
Chiuse la porta alle mie spalle e lasciai al centro della stanza la valigia e la tracolla.
La camera era molto spaziosa, un letto a due piazze si trovava attaccato al muro, le cui pareti erano di un azzurro chiaro, molto rilassante.
All’angolo della stanza c’era una cucina minuscola e un tavolo pieghevole, con un solo sgabello. Vicino alla finestra un piccolo incavo con una porticina celava il bagno, con un water e una doccia striminzita. Per fortuna c’era un balconcino che dava alle campagne adiacenti alla casa.
“Oh, qui posso fumare” mi consolai, poi andai a gettarmi sul letto.

 
  
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