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Autore: Belarus    09/10/2013    2 recensioni
Erano mercenari il cui nome era ignoto all’INTERPOL, alcuni erano schedati nei gruppi speciali degli eserciti delle rispettive nazioni, altri avevano un passato da cittadini onesti e rispettabili, alcuni avevano lavorato nei modi più disparati, ma tutti avevano una qualche dote peculiare capace di isolarli dalla massa.
«Oh…» mormorò fioco e disturbato l’auricolare.
«Oh cosa Francis?» domandò preoccupato temendo già la risposta dell’amico.
«Mi sono dimenticato di dirvi che questi collegamenti sono a tempo… pardon!»
«Pardon un cazzo!»

[Storia partecipante al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP]
{FrUk-Spamano- accenni AmePan}[Attenzione: Linguaggio volgare!]
Baci Belarus.
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Casino Royal – Slow Down The Heist
Personaggi: Antonio Fernandez Carriedo[Spain]; Romano Vargas[South Italy]; Francis Bonnefoy[France]; Arthur Kirkland[England]; citati: Alfred F.Jones[USA]; Kiku Honda[Japan]; Ivan Braginsky[Russia]; Natalia Arlovskaya[Belarus].
Note: Terzo capitolo e il tempo scarseggia, quindi provvederò a pubblicare in fretta anche gli ultimi due capitoli, che arriveranno prima del 17 Ottobre. Fatto questo piccolo annuncio, specifico che il prompt scelto e utilizzato funge da schermo alle azioni di tutti i protagonisti, anche se per il momento è chiaro solo con Francis, Antonio e Romano. Leggetelo più come un contesto, una sorta di trasposizione in sentimento piuttosto che come fenomeno meteorologico.
Altro avvertimento: il corsivo è utilizzato per le parole in lingua straniera e le comunicazioni in auricolare.
Traduzioni a piè di pagina.
NoteII: La storia partecipa al contest “Pas a Pas” indetto da Fanny_rimes sul forum di EFP.
Prompt: Sotto la pioggia.



Casino Royal – Slow Down The Heist





Casino Royal, ore 12:47.




Ispirò nuovamente percependo il rivolo malsano scivolare placido lungo la trachea sino ai polmoni, tentando invano di beneficiare di quella rinomata tranquillità dietro di cui si celavano i fumatori accaniti. Non gli era mai piaciuto fumare, lo faceva di rado e nella maggior parte dei casi si trattava di qualche tiro fatto per il semplice gusto di qualcosa di diverso. A suo modo avrebbe anche potuto trovare confortante il sapore amarognolo che impastava le labbra e costringeva a chiederne sempre di più, vi avrebbe potuto trovare un ché di malinconico e affettuoso. Pensandoci bene, era un po’ come baciare le labbra del suo piccolo italiano, una lotta continua a maldestra che Antonio combatteva strenuamente soltanto per tenerlo accanto a se.
Si morse il labbro, strofinando il polpastrello rovinato sul corrimano umidiccio delle scale poste sul retro del casinò. Le tempie si contrassero per qualche secondo in un’emicrania incipiente, che lo coglieva spesso quando era costretto a sopportare interminabili attese o più probabilmente quando a rischiare non era solo lui. Portò le iridi verdi sull’orologio nascosto sotto il giaccone scuro, le lancette continuarono inesorabili a muoversi ticchettando sul polso come una tortura.
Avrebbe dovuto comportarsi in maniera differente, Romano glielo ripeteva spesso e più che volentieri. Il loro non era un mestiere adatto a deboli di cuore o sentimentalisti, bisognava avere sangue freddo e raccogliere quel po’ di egoismo per preoccuparsi della propria incolumità e della buona riuscita della missione. I compagni erano una sorta di bonus da mantenere solo se le possibilità lo consentivano, ma non era indispensabile che tutti dovessero rientrare a Praga. La scomparsa di qualcuno non avrebbe interferito con l’andamento degli affari e in fondo nessuno nel mondo avrebbe pianto la loro morte. Avrebbe dovuto rinchiudersi in una bara d’indifferenza e avaro interesse, senza curarsi di chi come lui conduceva quella vita di muta sopravvivenza. Avrebbe dovuto, ma Antonio non era mai stato il tipo da tollerare simili situazioni, né mai lo sarebbe diventato. Tutti all’Across disattendevano quei canoni, chi più chi meno, ma accadeva, era inevitabile.
«Romano ci sei?» chiese in un bisbiglio nascosto dal fumo di sigaretta.
Si sarebbe potuto definire puro interesse lavorativo, con quel tanto di freddezza che era richiesta a un mercenario professionista, ma lui non aveva mai provato quel genere d’interesse per le persone che gli stavano accanto. Ben che meno per Romano.
«Fa silenzio Carriedo, non sei autorizzato ad aprir bocca per il momento!»
La voce di Kirkland nell’auricolare avrebbe dovuto farlo desistere da quel genere di domande, ma le lancette continuavano a ruotare nel quadrante del suo orologio e l’italiano era in ritardo. Un minuto e quindici secondi, pur sempre troppo per gente come loro.
«Romano?» insistette ancora senza ottenere risposta.
«Carried-Frog chiudi quella fogna e continua a giocare!» un ringhio infastidito minacciò di distruggergli il timpano.
Volse le spalle alla porta da cui era uscito circa dieci minuti prima, abbandonando le sale da gioco del Grand Casino già affollato da donne ingioiellate e uomini in giacca e cravatta, per attendere sotto il cielo carico di pioggia di Montecarlo.
Sino a quel momento avevano raccolto trentaquattro mila euro in slot truccate e svariati giochi dalla dubbia difficoltà, ma la quota che avrebbero dovuto riportare alla base non era neanche raggiungibile con quei colpi. Dovevano ancora occuparsi dei tavoli da Chemin, Blackjack e Poker, il caveau, però avrebbe messo fine a quei giochetti sciocchi e paradossalmente rischiosi. Spettava a lui e Romano la stoccata finale, peccato che dell’italiano non avesse notizie da almeno due ore.
«Perché non risponde?! Dov’è?!» le parole uscirono con maggiore forza e nervosismo.
«Carriedo ti ho detto di star zitto!» intimò Kirkland dalla camera d’albergo.
Antonio serrò istintivamente la mano sulla ringhiera, la sigaretta ricadde esanime molti metri più in fondo, in una pozzanghera dell’asfalto.
Odiava il tono con cui l’inglese gli si rivolgeva consuetamente, odiava tutto di quella persona, lo tollerava appena e solo per rispetto a Francis. Sentire ignorare le proprie richieste con una tale incuranza e freddezza, però lo rendeva intrattabile a dispetto di tutti.
«Dimmi dov’è Romano o vado a cercarlo. Adesso.» minacciò fissando un punto indecifrato innanzi a se.
Il crosciare dell’acqua oltre il parapetto parve farsi più opprimente, la sottile linea di costa ben più cupa di quanto non fosse in piena notte. Un lampo oltre la scarpata dall’altra parte della capitale squarciò il cielo per qualche secondo coprendo il suono della porta.
«Bastardo chiuditi quella cazzo di bocca! Non stiamo giocando ed io non ho intenzione di rimetterci la testa, ho già i miei fottuti problemi con quella merda di caveau da aprire!» abbaiò una voce alle sue spalle, mentre la porta si richiudeva con un tonfo soffuso.
I polmoni di Antonio parvero allargarsi, irrorati da una boccata d’aria gelida e umidiccia. Il consueto sorriso si dipinse improvviso e incontrollato sulle sue labbra, le lancette dell’orologio tacquero di colpo quando i suoi occhi incrociarono quelli tremuli dell’italiano. Gli posò muto una mano sul capo, carezzando con attenzione le ciocche ribelli che solo la notte precedente aveva visto poggiate al proprio petto.
Comprese il nervosismo dell’altro solo quando lo vide chinare il ciuffo, senza emettere alcun mugugno di fastidio o ribellione. Sapeva che l’idea di tentare non spaventava l’italiano, ma il doversi far carico della buona riuscita di un tal esperimento con all’origine le richieste di Ludwig doveva averlo messo sin troppo sotto pressione.
«Romano calmati…» sussurrò, sfiorandogli la guancia.
«Sono calmissimo, non vedi?» Antonio si lasciò sfuggire un mezzo sorriso divertito.
Suoni concitati e affrettati si fecero strada nel suo cervello, mentre Arthur Kirkland si preparava a seguire passo dopo passo ogni loro spostamento. La precaria tranquillità di quel momento si ruppe inevitabilmente quando l’inglese diede inizio all’operazione.
«Kiku modifica le ricezioni, thanks… so, voi due, giù per la tromba delle scale dovrebbe esserci la porta blindata di servizio, una volta aperta dovreste trovarvi nel corridoio che conduce agli accessi del personale. Raggiungete la quinta da sinistra, dritto e giù ancora a sinistra, contatene altre sette e vi troverete davanti al centro di controllo… l’altra porta la sbloccherà Alfred quando sarete lì vicino, muovetevi.»
Antonio diede un’ultima occhiata veloce alla porta che si trovava alle loro spalle, quando fu certo che all’interno del casinò tutto stesse procedendo senza problemi, seguì Romano giù per la scalinata umidiccia da cui s’intravedeva parte della spiaggia del Principato. Si accostò all’italiano, mentre quest’ultimo scassinava la porta blindata che il personale della struttura sfruttava per l’accesso. Quando fu finalmente aperta, lo anticipò lungo il corridoio in cemento su cui svettavano decine di telecamere a circuito chiuso, Alfred e Kiku avevano badato a bloccarle temporaneamente consentendo loro il passaggio, ma era sempre opportuno non cullarsi troppo e procedere con attenzione. Scrollò per qualche secondo abiti e scarpe, mentre una piccola chiazza d’acqua si allargava ai suoi piedi. Lasciare impronte avrebbe rappresentato un errore irreparabile e non potevano certo permettersi di sbagliare solo per colpa di un acquazzone. Discesero oltre la quinta porta, costatando come il vociare del casinò non fosse percepibile a causa della mole delle pareti, il cui spessore di piombo aumentava proporzionalmente a ogni piano percorso. Rallentarono prontamente quando il centro di controllo fu ormai prossimo, il vociare proveniente dall’interno li aiutò a calcolare quanti uomini fossero impiegati nel monitoraggio delle telecamere e delle varie porte d’accesso. Romano scivolò silenzioso accanto allo spagnolo, oltrepassando prontamente la soglia e acquattandosi nella parete limitrofa con la propria beretta in pugno. Antonio lo imitò prontamente, allontanandosi per alcuni metri sino alla porta antiproiettile.
«La porta è aperta, da qui in poi avete trentadue secondi per raggiungere l’accesso monitorato, entrate e inserite le tessere che avete nelle giacche, entrambi o scatterà l’allarme.» mormorò la voce dell’inglese quando anche Romano fu accanto allo spagnolo.
La serratura scattò prontamente con un sibilo vaporoso, codici criptati si susseguirono sulla minuscola tastiera a riconoscimento digitale posta sulla parete, disattivando le procedure di sicurezza impiantate sulla copertura pavimentaria e sulle pareti.
Erano stati calibrati secondo cinque combinazioni corrispondenti alle corporature degli unici uomini autorizzati all’accesso in quella parte del casinò, sarebbe bastato un solo grammo superiore alla soglia, un solo centimetro di altezza o larghezza del busto e la porta si sarebbe bloccata alle loro spalle lasciandoli rinchiusi in una scatola senza vie di fuga.
Superarono quasi contemporaneamente le barriere protettive in vetro che erano state innalzate alla fine del cunicolo. Tolsero entrambi dalle giacche le card magnetiche che Alfred aveva riprodotto, la serratura alle loro spalle scattò nuovamente svelando un nuovo corridoio.
«Siamo dentro Kirkland.» comunicò Romano, poggiandosi alla parete nivea.
«Il corridoio che conduce al caveau si trova sulla vostra destra, imboccate quello e superate i tre centri di controllo, oltre troverete il caveau, da lì in poi spetta a voi.» indicò nuovamente tramite l’auricolare.
Antonio intravide il volto dell’italiano cambiare improvvisamente colorito, diede un’occhiata innanzi a se e si concesse un sospiro fioco.
«Corridoio?! Quale cazzo di corridoio dovrei prendere?!» sbottò prontamente Romano, serrando i guanti.
«Ce ne sono parecchi Kirkland… quale?» chiese Antonio continuando a guardarsi attorno.
«Ho detto alla vostra destra, non vi ho chiesto di contare i corridoi.» sibilò acido con nervosismo.
Antonio e Romano si morsero contemporaneamente il labbro evitando inutili diverbi.
Quella era una delle poche regole che un po’ tutti all’Across tentavano d’imporsi: niente liti, niente risse, nessun gesto avventato, mai intralciare le operazioni. Accadeva di rado che mettessero da parte certi rancori o che ingoiassero insulti, ma sporadicamente s’imponevano comportamenti consoni, almeno per qualche decina di secondi. Dopo avrebbero sempre avuto il tempo di farsi guerra.
«Kiku dì a Francis di rientrare e far attenzione sul tetto, c’è nebbia temo, Alfred vai.» gracchiarono contemporaneamente i due auricolari.
Antonio si staccò in fretta dalla parete dirigendosi di gran lena verso il primo centro di controllo posto nel cunicolo. Estrasse nuovamente la tessera e provvide a disattivarla con il medesimo metodo utilizzato per il precedente settore, Romano lo superò di corsa inserendo la propria nel secondo e nel terzo. L’ultima porta si aprì per metà costringendoli a oltrepassare un lieve gradino, si accostarono l’uno all’altro osservando il blocco in leghe di piombo che era stato incastonato direttamente alle fondamenta del Grand Casino. La sala s’illuminò di blu non appena la porta alle loro spalle si fu richiusa, il contatore di ossigeno cominciò la propria lenta discesa sul monitor del server a metà sala.
«Caveau trovato, cominciamo, tenete libere le uscite.» annunciò quando gli furono innanzi.
Romano accanto a lui strinse i denti accovacciandosi accanto alla serratura, diede una veloce occhiata e Antonio gli si accostò pronto a mettere fuori fase le componenti dell’ingranaggio principale.
Francis aveva spiegato loro solamente cosa toccare, evitando di far troppa confusione tra termini e settori da controllare. Le operazioni erano relativamente poche se ben eseguite, qualora però una delle parti non fosse stata facilmente rimuovibile aveva provveduto a indottrinarli sui vari metodi alternativi. Non erano particolarmente complessi, ma il rischio di far scattare qualche congegno secondario di controllo era pur sempre alto e loro non attrezzati a quelle eventualità.
Allungò la mano verso la serratura ove avrebbe dovuto fare pressione per permettere a Romano di sfilare i blocchi superiori, ma la voce del compagno lo bloccò a mezz’aria.
«Ma porca puttana! Questo coso ha due chiusure, non una!»
Le iridi verdi si soffermarono sbigottite per qualche istante sui due chiavistelli che erano stati impiantati sulla serratura originaria. Vi passò la mano sopra, mentre un peso inammissibile calava sulle sue spalle.
«And then?» soffiò stanca la voce di Kirkland dall’albergo.
Il pugno dell’italiano si schiantò irritato contro la parete del caveau. La superficie rimase immobile, ma un rombo lugubre parve aleggiare tra le pareti illuminate perendo in un eco.
«Non ho idea di dove cazzo devo mettere le mani! Ecco cosa brutto idiota di un inglese!» ringhiò con gli occhi già lucidi per l’ansia.
Antonio gli posò una mano sul ginocchio piegato nella sua direzione, tentando di rassicurarlo.
L’idea di aprire un caveau non era piaciuta molto neanche a lui, avrebbe preferito di gran lunga operare nel proprio settore e non rischiare le coperture di tutti mettendosi in gioco proprio con uno dei sistemi di sicurezza più rinomati al mondo. Ciò nonostante si era ritrovato in quella situazione senza nessun margine d’errore cui attingere, aveva fatto del proprio meglio per imparare in fretta come andassero trattati quel genere di congegni, ma il risultato era comunque fine a se stesso. Né lui, né Romano erano Francis. Non si erano mai occupati di scassinare nulla, figurarsi aprire un caveau di quel genere con un misuratore d’ossigeno a gravare memore oltre le loro nuche. Non era preparati agli imprevisti.
«Romano calmati, magari è lo stesso procedimento…» bisbigliò abbozzando un sorriso.
Era l’unica speranza cui riusciva ad aggrapparsi in quel momento, per quanto ingenua, sciocca e improbabile.
«Magari! Quindi nel dubbio tentiamo, così al massimo ci giochiamo il culo entrambi, che dici?!» ringhiò l’italiano scostandogli la mano con nervosismo sempre peggiore.
«State fermi e zitti, vi passo Francis… vediamo di risolvere questa cosa.»
Lo spagnolo la ritrasse con un sorriso snervato, scostò alcuni riccioli scuri ricaduti innanzi agli occhi. L’auricolare emise prontamente un suono metallico, il rombo della pioggia che batteva implacabile dal tetto dell’Hotel annunciò il collegamento ancor prima che il francese potesse parlare.
«Fran?» chiese un po’ più rincuorato, tornando a fissare la serratura.
«Oui, Antoine... sono uguali o diverse?» la voce di Francis giunse vagamente disturbata, saltando fortunatamente la consueta sequela di chiacchiere che lo accompagnavano costantemente.
«Uguali, ma c’è un collegamento in mezzo, non so come-» cominciò, accorgendosi di quanto fosse complicato persino il descrivere quella massa di chiavistelli, chiusure e pesi che gli si parava innanzi.
«N’est pas un problem, ti ho spiegato come distaccare il blocco di chiusura quando è inserito nel vano del circuito, fa lo stesso da entrambe le parti e butta via quello che ti rimane in mano, non ti serve!» annunciò serio.
Si concesse un sospiro rilassato ricordando istantaneamente le spiegazioni di quel pomeriggio.
Procedendo per gradi sarebbe riuscito a smontare quel caveau in un massimo di due minuti, ammesso che non sorgessero nuovi imprevisti e Francis gli esponesse le giuste procedure, fatto su cui Romano accanto a lui non riponeva la benché minima fiducia.
«Ma che cazzo di spiegazione eh?!» ringhiò aggrottando la fronte.
«Mon mignon rilassati per una volta e lascia fare ai grandi, vite!» lo quietò prontamente il francese.
Le mani di Antonio corsero al secondo blocco, dopo che il primo fu libero dalla serratura a pressione stagna. Si arrovellarono per qualche secondo sulla destra sino a che anche il fermo centrale si fu allentato tanto da permettergli di sfilarlo dalla parte inferiore. Lo abbandonò accanto a se, mentre Romano continuava a imprecare in ogni lingua a lui nota o nota al genere umano.
«Rilassati un corno! Sei appollaiato su un tetto a non fare un cazzo, ci sono io qua, non tu! E ora che c’è bastardo?» chiese quando Antonio ebbe avvicinato il viso alla porta del caveau.
Attese qualche istante in riserbato silenzio, uno strano sibilo simile a un ticchettio continuava a provenire dalla chiusura circolare. Pensò fosse opera della pioggia che crosciava dall’auricolare, poi malauguratamente a una bomba, ma sarebbe stato incosciente posizionarne una in quel punto giacché le fondamenta dell’intero complesso si trovavano impiantate nelle pareti limitrofe. Per di più sarebbero andati in fumo miliardi di euro e metà della scogliera su cui poggiava il Grand Casino.
«Lo senti anche tu questo rumore Romano?» chiese dubbioso, non sapendo a che altro pensare.
L’italiano lì accanto si sporse verso il blocco di piombo, poggiandovi sopra il guanto di pelle scura. Lo allontanò prontamente e Antonio comprese di non essere l’unico a percepire quel ticchettare incessante.
«Oh…» mormorò fioco e disturbato l’auricolare.
«Oh cosa Francis?» domandò preoccupato temendo già la risposta dell’amico.
«Mi sono dimenticato di dirvi che questi collegamenti sono a tempo… pardon!» annunciò semplicemente dopo qualche istante, curandosi almeno di velare quell’affermazione con delle scuse.
Antonio per la prima volta nella propria vita meditò di ucciderlo nel peggior modo che gli venisse in mente, ma desistette ben presto ripiegando su una semplice vendetta. In fondo Francis era già sfortunato di suo e lui troppo ingenuo a credere che le cose si sarebbero risolte con tanta facilità.
«Pardon un cazzo! Scatterà l’allarme!» s’infervorò l’italiano lì accanto, balzando in piedi.
«Su tranquille, interrompi i collegamenti laterali! Arthùr smetti di minacciarmi, s’il vous plaît, mi confondi! Antoine, dopo averlo aperto, il tempo si bloccherà da sé e il caveau sarà a vostra disposizione!»
Romano ringhiò a mezza voce l’ennesima imprecazione, ma tornò a lavoro non appena il francese ebbe terminato con le proprie indicazioni. Antonio lo osservò, mentre impacciato e teso faceva scattare i pistoni di blocco laterali, per permettere alla porta a tenuta stagna di aprirsi e mostrare il contenuto del caveau. Un silenzio assordante, interrotto solo dal ticchettare del timer e del contatore di ossigeno, parve gravare su di loro per un paio di minuti, finché anche l’ultima chiusura non ricadde sul pavimento in cemento armato.
«Ci siamo… è aperto, raccogliamo tutto e richiudiamo, Fran tieni sotto controllo l’auto e la porta.» annunciò lo spagnolo non appena le proprie mani furono allontanate dalla maniglia circolare.
Il caveau si spalancò innanzi a loro rivelando il proprio contenuto.
Adesso avrebbero avuto la responsabilità di una buona decina di miliardi da trasportare a Praga.



Hôtel de Paris, Tetto, ore 01:08.




Lasciò scorrere i polpastrelli ricoperti dai guanti tra le ciocche fradice che continuavano imperterrite a sfuggire al codino, scostandole quel tanto che bastava per avere una visuale completa di Place du Casino e del retro dell’edificio. Nella sua mente continuavano a susseguirsi i suoni cauti dei compagni all’interno del caveau, intenti a riempire i cappotti con il necessario da riportare a Praga.
Era una sorta di marchio della società quello, prendere lo stretto indispensabile e abbandonare il resto. Non si poteva certo dire che fossero ingordi durante i furti e in fondo quella caratteristica aveva sempre giocato a loro favore. Nessuno si aspetterebbe che dei rapinatori lasciassero miliardi dopo aver scassinato banche o società, sin troppo surreale e inspiegabile, così alla fine delle indagini a rimetterci era sempre qualche povero addetto alla sicurezza o socio mal visto dal resto degli intestatari.
«Frog vedi di non distrarti e continua a controllare la strada!» minacciò una voce nel suo orecchio.
Francis serrò la presa attorno al calcio del fucile, il suono sgradevole della pelle bagnata dei guanti accompagnò il suo ringhio di disapprovazione.
«Non vedo come potrei distrarmi qui sopra Arthùr!» soffiò offeso, ingoiando una decina di gocce di pioggia.
Una mezza risata sgusciata fuori con supponenza da qualche piano più giù crepitò nell’auricolare.
«Riusciresti a distrarti anche in mezzo al nulla, confido nelle tue scarse capacità intellettive.»
«Qui le uniche cose che mi distraggono sono la tua voce e questa pioggia! E già tanto se riesco a vedere la porta d’uscita con questo tempo!» si lamentò, mentre il tono si alzava di qualche decimo.
Quella condizione era inadatta a qualsiasi operazione che richiedesse la sua collaborazione e quel presuntuoso di un inglese non voleva saperne di dargli retta. Aveva provato a spiegargli con calma quanto la pioggia potesse influire sul lavoro di un cecchino, come la visuale si riducesse sino al minimo consentito e la mira potesse perdere di precisione, ma Arthur era stato inamovibile e lui aveva fatto la parte dell’isterico. Se non fosse stato per quelle piacevoli attività che condividevano da anni ormai, lo avrebbe preso a pugni, o forse sarebbe stato meglio ricorrere ad altri metodi. Fare a pugni con Arthur non conveniva a nessuno.
«Non fare il melodrammatico, devi guardare solo in una direzione!» sbuffò stanco.
«Disse il sopracciglione la cui mira non andava oltre i dieci metri…» sibilò velenoso, continuando a fissare sotto di se.
«Oltre i dieci metri non rappresenta un pericolo, idiot!» scattò prontamente, costringendo Francis a socchiudere un occhio per l’acuto incline a perforargli un timpano.
«Spero di poterti dare sempre ragione, mon chéri.» frusciò con un mezzo sorriso intenerito.
Antonio e Romano ancora nel caveau contarono il denaro per la terza volta.
Ne avrebbero preso solo il necessario ed era chiaro che all’arrivo a Praga non dovesse mancare neanche un solo spicciolo o l’impresa sarebbe stata catalogata dal tedesco come “riuscita parzialmente”, cosa che infastidiva tutti alquanto. Era sempre più opportuno dunque controllare per un minimo di cinque volte, prima di sbloccare telecamere, sistemi di allarme e reinserire i codici di chiusura alle porte blindate o si correva il rischio di dover ricominciare il colpo con una percentuale di possibilità minore di quella iniziale.
«Chiudi il becco adesso e dimmi se Alfred sta combinando qualche guaio.»
Francis si fece sfuggire una mezza risata, Arthur Kirkland era l’uomo più controverso che avesse mai conosciuto nella sua vita. Da dove tirasse fuori quel tono apprensivo da genitore in ansia, ogni qualvolta Alfred svolgesse un qualsiasi lavoro, per il francese era ancora un mistero.
«Oh, quindi non devo guardare più in una sola direzione?» chiese con tono fortemente ingenuo.
«Francis!» il richiamo lo costrinse a una smorfia dolorante.
«Oui, oui…»
Spostò lo sguardo lungo Place du Casino, che scintillante e chiassosa si allargava alla sua sinistra oltre l’angolo di visuale che gli permetteva di scorgere anche il retro dell’edificio, ove Antonio e Romano erano entrati circa dieci minuti prima. Le iridi blu affondarono oltre le vetrate colorate del Casino Royal, superando le colonne di marmo ocra dell’accesso sino alla sala in cui si stavano svolgendo le partite. Trovò il ciuffo di Alfred tra la folla riunita attorno al tavolo da Poker, decine di uomini e donne intenti a scambiarsi occhiate ammirate per il giovane talento che stava sbancando il gruppo di professionisti. Allontanò sereno la propria attenzione, riportandola sulla piazza, scorgendo di sfuggita la balconata che dava sulla scogliera.
«Sta vincendo, tranquille, anche se fa chiasso come semp-Natalie?» si bloccò quando qualcuno fece ciondolare pigramente un bicchiere di vodka.
«Now who hell is Natalie?» ringhiò la voce del britannico dalla camera 143.
In altre occasioni Francis probabilmente vi avrebbe riso su, confortandosi tacitamente per quella vena di gelosia che Arthur si ostinava a nascondere dietro cumuli di lamentele e offese poco romantiche, ma quella non era proprio la serata adatta alle loro messe in scena.
Assottigliò lo sguardo con più attenzione, ma la pioggia gli impedì nuovamente di vedere chiaramente chi fosse la donna placidamente accomodata sulla panchina accanto alla scogliera. Strappò in fretta il fucile con mirino dal cavalletto posizionato poco prima, ignorando l’uscita dell’edificio da cui i suoi due compagni sarebbero dovuti venir fuori da un momento all’altro. Portò la lente alla pupilla, zoomando sull’ombrello scuro sotto di cui la figura si era rintanata. Solo allora, tra una goccia di pioggia e l’altra scorse tre cubetti di ghiaccio immersi in quella che certamente doveva essere vodka e quelle iridi di un blu talmente scuro da apparire innaturale. Un respiro nervoso sgorgò dalle sue labbra quando fu tristemente certo della propria intuizione.
«La sorella di Ivan è davanti al Casino.» sbottò laconico, tamburellando l’indice sul grilletto.
Arthur dalla camera al quarto piano si rinchiuse in un minuto di silenzio, forse confuso o non ancora pienamente consapevole della situazione.
«La sorella di… che sta facendo?» quando la sua voce venne nuovamente fuori dall’auricolare, il tono parve sin troppo greve.
Il francese non se ne stupì per nulla.
Quella ragazza era diventata uno dei loro peggiori incubi da quando aveva scoperto la loro collaborazione con il fratello. Da quanto Francis sapeva, i due non si vedevano da quando il maggiore andò via per arruolarsi nell’esercito abbandonandola nell’orfanotrofio in disuso in cui erano cresciuti. Ivan ne era talmente terrorizzato da non riuscire a pronunciare neanche il suo nome, reazione che un po’ tutti avevano creduto immotivata, finché non avevano ritrovato Natalia a pedinarli in qualsiasi operazione richiedesse la comparsa del fratello in nome del suo ruolo nell'INTERPOL. A ben pensarci durante una missione Jan, uno dei loro agenti, ci aveva quasi rimesso un braccio per colpa dell’ossessione di quella donna. Averla tra i piedi proprio durante il pieno dell’operazione non volgeva certo a loro favore, anche se c’era comunque la remota possibilità che lei non fosse lì per loro, ma per un altro lavoro. In fondo Ivan era dall’altra parte del mondo, qualsiasi informazione quella donna avesse raccolto non doveva aver a che fare con il fratello.
«Rien, sta bevendo un drink, ma credo sia meglio far uscire Alfred… subito.» meditò, quando la bionda si fu alzata dalla panchina.
Continuò a seguirla, mentre abbandonava l’ombrello tra le mani del concierge e ritornava all’interno del Grand Casino rigirandosi il pesante bicchiere tra le mani sottili. La tenne sotto tiro sino a che non si fu accomodata a un tavolo, insieme a due ragazzi dalle corporature asciutte.
Non doveva essere a conoscenza della presenza dello statunitense o non si sarebbe fatta problemi ad agire neanche in quella sala colma di gente. Ciò nonostante c’era sempre il rischio che si chiedesse il perché di quella folla attorno al tavolo da poker e decidesse di indagare in qualche modo. La situazione avrebbe potuto degenerare da un momento all’altro se solo i suoi occhi si fossero posati su Alfred.
«Penso io ad avvertirlo, tu continua a tenerla d’occhio e pensa anche a Carriedo e-» annunciò l’inglese, mentre il battere della tastiera del giapponese, lì accanto, si faceva più insistente e affrettato.
Francis le lanciò un’ultima occhiata preoccupata, riportando memore le proprie iridi sulla porta blindata sul retro dell’edificio. Il crosciare della pioggia, parve divenire intollerabile quando un brivido gli sferzò la schiena e il grilletto scattò muto con il sibilo funereo del silenziatore ad accompagnarlo.
«… Francis? Frog?!»









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Note dell’autrice:
Traduzioni.
- “And then?”: E allora? [eng.]
- “N’est pas un problem”: Non c’è problema [fr.]
- “Tranquille”: Tranquillo [fr.]
- “S’il vous plaît!”: Per piacere! [fr.]
- “Now who hell is Natalie?”: Chi diavolo è ora Natalia? [eng.]


  
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