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Autore: Ivola    09/10/2013    5 recensioni
Le storie di Panem sono varie e numerose. Avete mai sentito parlare dei promessi del Distretto 6, quei due ragazzi che avrebbero fatto di tutto pur di ammazzarsi a vicenda e non sposarsi? Loro sono solo una sfocatura, come tanti altri.
Klaus e London. London e Klaus.
Un altro matrimonio combinato, le persone sbagliate, un cuore solitario, e tutto ciò che (non) può essere definito amore.

▪ VI: « Che cosa mi stai facendo? » ansimò la ragazza, tentando di aggrapparsi alle sue spalle. Era decisamente una domanda stupida, visto che era piuttosto evidente cosa il ragazzo stesse facendo. [...]
Klaus non si degnò neanche di rispondere, ben concentrato a muoversi sul suo corpo con gli occhi distanti e le labbra socchiuse. Non aveva né la voglia né la forza di ribattere, per cui la zittì con un bacio rabbioso. « Taci » le sussurrò, corrugando la fronte e mantenendo le labbra a pochi centimetri dalle sue nel caso London avesse deciso di parlare ancora.

▪ XIII: « Perché lo state- no, perché lo stai facendo? »
L’altro lo guardò bene negli occhi, con un’espressione che Klaus non seppe decifrare.
[...]
« Mert szeretlek » rispose Ben semplicemente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Triangolo
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Note: Stavolta vi direi una bugia se affermassi convintamente che questo capitolo non mi piace per nulla come il precedente... cioè, lo affermo lo stesso, ma non convintamente. Sì, dai, un pochino sono soddisfatta. E sono curiosa di vedere le vostre facce, ma... ci separano gli schermi dei computer.
Buonsalve! Sono tornata, purtroppo per voi. No, se ve lo state chiedendo, non vi libererete facilmente di me. Anzi. Sarò sempre nei vostri sogni/incubi a rompervi le scatole con Blur.
Comunque... che dovevo dire? Ah! Il flashback è ambientato durante la rinomata notte di Ben e Klaus... cioè, forse in realtà si capisce, ma ci tenevo a precisarlo, non si sa mai. Che poi sono proprio brilli lì, piccini ♥ Quella parte, in ogni caso, viene da una one-shot che scrissi molti anni or sono, che tratta proprio di quella notte (senza particolari perché io e il lemon non andiamo d'accordo) e di quello che successe veramente... però forse la pubblicherò solo quando avrò finito tutta Blur.
Le cose si complicheranno molto più di quello che immaginate. Si accettano ipotesi (y)
Altra cosa: sul Capodanno non sono sicura, sinceramente, ma credo che i Panemiani "festeggino" l'ultimo dell'anno a modo loro lo stesso.
Grazie ancora a tutti quelli che preferiscono/ricordano/seguono questa storia, vi amo ♥
E grazie soprattutto a enjoywithpanda e radioactive per aver recensito lo scorso capitolo - sempre per mancanza di tempo non ho ancora risposto, ma giuro sulla Klondon che lo farò!
Buona lettura ♥


Il titolo del capitolo viene da "Megalomania" dei Muse.
... che è stata una delle canzoni a ispirarmi gran parte di Blur.

Questo banner è stato realizzato sotto la gentile concessione di SimoBrev's Pics; ϟ






 





















Blur

(Tied to a Railroad)






011. Eleventh Chapter – Paradise comes at a price.




Aveva smesso di nevicare da poco.
Il giardino del maniero dei Bridge era silenzioso e buio, ma una strana e pacifica calma vi incombeva come un manto protettivo almeno quanto la soffice neve che si era posata delicatamente in giro.
Klaus era uscito per fumarsi una sigaretta e, nonostante stesse congelando dal freddo, fece un paio di tiri nella tranquillità totale, mentre una brezza invernale gli scompigliava i capelli e gli pungeva il viso. La pace, tuttavia, durò solo pochi istanti.
Una palla di neve gli arrivò violentemente tra le scapole, facendolo inciampare in avanti e facendogli cadere la sigaretta nella neve.

« Ma che-? » provò a dire, girandosi, quando un’altra manciata di neve gli arrivò sul petto e un’altra sul braccio.
I due gemelli stavano ridacchiando mentre lo squadravano con cipiglio divertito. 
« Andiamo, non hai mai giocato a palle di neve? » domandò London, spostando il peso da un piede all’altro e incrociando le braccia.
« Con voi due non vale » borbottò Klaus, scrollandosi la neve di dosso. « Praticamente vi mimetizzate. »
Entrambi scoppiarono a ridere a quella constatazione, mentre il moro si stringeva nelle spalle e alzava gli occhi al cielo. Sbuffò una nuvoletta di freddo, sfregandosi le mani.
« In effetti perderesti in partenza » commentò Ben.
« Oppure è solo una scusa perché non sa giocare » aggiunse London, stringendo la mano del gemello con noncuranza, che ricambiò la stretta.
Klaus si soffermò giusto un istante su quel gesto, poi scosse la testa. 
« Mi dovete una sigaretta. »
« Fumare fa male » controbatté l’albino. « Dovresti ringraziarci, piuttosto. »
« Ringraziarvi? » sibilò l’altro. « L’unica cosa che dovrei fare è mandarvi a- »
London lo bloccò sbuffando: « Klaus, mancano dieci minuti alla mezzanotte. Vediamo di cominciare bene l’anno nuovo, sì? »
Il ventunenne sembrò riflettere per qualche istante. « Quindi in questi dieci minuti posso fare qualcosa di sconsiderato per concludere quest’anno di merda? »
« Se vuoi » ridacchiò Ben. « Anno più, anno meno, le persone non cambiano. »
L’espressione infastidita di Klaus si trasformò in un sorrisetto sarcastico. « Può darsi. Però conosco un ottimo posto dove andare a festeggiare. Senza offesa, la cena di vostra madre è buona, e sicuramente molto più di quella di London » – e qui la ragazza gli lanciò un’occhiataccia eloquente – « ma ho bisogno di svagarmi un po’. »
« Tu hai sempre bisogno di svagarti un po’ » obiettò la moglie.
« Chissà perché » disse Klaus, continuando a sghignazzare.
London stava per ribattere di nuovo, ma Ben bloccò sul nascere quella che sarebbe potuta diventare una discussione interminabile. 
« E dove vorresti andare? »
« Vi fidate di me? »
I due gemelli si scambiarono uno sguardo d’intesa vagamente divertito e risposero all’unisono: « No. »
Klaus non mutò neanche di poco la sua espressione compiaciuta. « Risposta esatta. »

Almeno un centinaio di corpi si ammassavano in uno spazio stretto e dal soffitto basso, urtandosi in continuazione e sudando per il calore dell’ambiente.
Nonostante il sovraffollamento, le persone continuavano a muoversi, a urtarsi, a ballare e a sudare, mentre qualcuno mandava giù in un sorso bicchieri pieni di alcolici. Le luci erano vecchie e malridotte, ma riuscivano a mantenere comunque il loro effetto originale, mandando bagliori colorati per la sala.
Una musica assordante proveniente da alcune casse alle pareti copriva ogni altro rumore, lasciando scivolare via dalla pelle di quella gente ogni sorta di problema.
Quello era l’unico locale del genere dell’intero Distretto Sei, situato in un luogo sperduto persino della zona ovest, dove anni e anni prima, durante la rivolta, le bombe erano cadute a devastare quella porzione di terreno.
Discoteche all’avanguardia esistevano solo a Capitol City, ma gli abitanti dovevano arrangiarsi e festeggiare l’ultimo dell’anno come meglio credevano. E la zona ovest non aveva regole, né orari, né proibizioni. La gente vi trovava un appiglio, uno sfogo.
E se da un lato era sbagliato che la persone entrassero agnelli e uscissero lupi, dall’altro non c’era altro modo per distrarsi da quella situazione buia in cui vivevano gli abitanti di Panem.
Altri locali simili pullulavano di gente a quell’ora – e i più dovevano ritenersi fortunati visto che i Pacificatori non facevano ronde da quelle parti –, ma Klaus aveva scelto proprio il più affollato e rumoroso per passare la notte. Per quale oscuro motivo neanche lui lo sapeva.

« Klaus, aspetta! » gridò London, cercando di stare al passo del ragazzo, mentre lui si addentrava in quell’intreccio di gambe e braccia con disinvoltura.
« Muovetevi » mimò lui con le labbra, visto che urlare con quella musica assordante era inutile.
London trascinò Ben tenendolo per mano e tra spinte e spallate riuscì a raggiungere lo stesso angolo in cui si era appostato Klaus.

« Allora? » domandò lui, incrociando le braccia. « Che ve ne pare? »
La ragazza inarcò le sopracciglia. « E’ un porcile! »
« No, è un locale. »
Il moro si aspettò di ricevere uno schiaffo, ma evidentemente Ben doveva aver bloccato al volo la gemella. « Era meglio casa nostra » fece lui, quindi.
« Ah, ma lasciatevi un po’ andare! » protestò l’altro. « Avete ventun’anni, non quaranta. »
Entrambi, pur facendo fatica a cogliere ogni parola, compresero quello che lui voleva dire e forse uno dei due stava per ribattere qualcosa, ma Klaus, prima che potessero aggiungere altre stronzate, prese London per il polso e la trascinò qualche metro più avanti, trascinando di conseguenza anche il fratello perché la ragazza gli teneva la mano ben stretta.
« Lasciami! » sbraitò lei, strattonando il braccio invano.
« Vi offro da bere, contenti? »
L’espressione di Ben si incupì leggermente, ma Klaus non ci fece caso e, sbracciandosi per superare una decina di persone davanti al bancone, raggiunse un paio di sgabelli relativamente isolati.
« Cosa prendete? » domandò il moro, cacciando dalla tasca dei pantaloni una banconota di Panem.
« Non voglio bere » sbuffò London, liberandosi finalmente dalla presa dell’altro. Si massaggiò il polso e gli lanciò uno sguardo arrabbiato. « Voglio andare a casa. »
« E giocare a scacchi con tuo padre? Interessante » ribatté il ragazzo, con le sopracciglia aggrottate.
« Smettetela » disse Ben, frapponendosi tra i due prima che potessero continuare quella stupida discussione. « London, ormai siamo qui, è inutile tornare indietro. Klaus, prendile qualcosa di leggero, io non voglio niente. »
« Oh, d’accordo. Maledetti Bridge astemi » borbottò Klaus, prima di indirizzare uno sguardo all’albino che lui non seppe interpretare.

Continuarono a bere per un’altra mezz’oretta buona, mentre la pioggia cominciava a diminuire, lasciando intravedere il cielo sempre più nero.
Dovevano essere le due di notte come minimo, ma la zona ovest non riposava mai.
Parlottarono ancora un po’, nel frattempo che nel locale entrava qualche altro cliente senza nome e senza storia.
Più bicchieri bevevano, più i suoni diventavano ammalianti e le luci più accese. Ogni tanto venivano colti da un capogiro, ma niente che li potesse far smettere.
Non si curavano del fatto che probabilmente li avrebbero riportati a casa svenuti e ubriachi fradici, non si curavano di niente. Era una notte strana, quella.
Dopo qualche minuto di inatteso silenzio, Klaus parlò. 
« Devo confessarti una cosa. »
Ben si sporse dall’altro capo del tavolo per ascoltarlo meglio, confuso dai fumi dell’alcool. « Che cosa? E perché a me? »
« Sta’ zitto » lo ammonì il moro, come se quello che stesse per rivelargli gli sarebbe costato molto caro.
Ben si fece tutt’orecchi.

« Vedi, ecco… » cominciò lui, guardando il bicchiere che aveva tra le mani per evitare lo sguardo limpido dell’altro, come se specchiarvisi sarebbe stato troppo doloroso o insopportabile. « Ti sembrerà stupido – fottutamente stupido – ma, insomma… »
Il ragazzo che aveva di fronte fece un’espressione interrogativa.
« Io la amo, quella puttana di London. »
Ben sembrò assorbire quelle parole lentamente, ma non parve aver compreso appieno. « Come? » chiese, frastornato.
« Hai capito » borbottò Klaus, raddrizzandosi sulla sedia, che ormai sembrava troppo scomoda.
« Perché me lo dici? » domandò l’altro con il tono alterato dall’ubriachezza.
« Mi sentivo in dovere di dirtelo » rispose quasi in un sussurro il moro, socchiudendo gli occhi.
Quando li riaprì, si ritrovò il volto dell’altro ornato di un’espressione puramente spaesata.
Klaus appoggiò i gomiti sul tavolo e si prese la testa tra le mani. 
« Assurdo, vero? »
Ben lo guardò negli occhi, cercando forse anche una minima traccia di bugia, ma non ne trovò. Klaus distolse lo sguardo, sperando in cuor suo che il giovane Bridge un giorno avrebbe dimenticato quel discorso, ma qualcosa gli diceva che non se ne sarebbe liberato facilmente.
Aveva appena confessato e in quel momento si sentiva esattamente come un criminale punibile con la morte.

« Ma tu… ma voi… » balbettò Ben, incapace di aggiungere altro. « Hai detto che vi odiate… »
« La odio » confermò il moro. « E lei odia me, però… » lasciò la frase in sospeso, corrugando la fronte. Era come se si sentisse terribilmente in colpa.
« Sai, non credo che lei provi le stesse cose per te » disse l’albino con convinzione, ma cercando di non essere troppo rude. Non lo avrebbe mai pensato prima, ma adesso Klaus gli faceva compassione, quasi. Lo stava rivalutando con occhi diversi. Gli occhi di un suo pari.
« Credi che non lo sappia? » biascicò il ragazzo.
Ben stava per ribattere, ma accadde tutto così in fretta che non ebbe neanche il tempo di ragionare.
Klaus si alzò, gli andò vicino e, senza dire una parola di più, gli avvicinò la nuca velocemente, facendo incontrare le loro labbra ancora inumidite dal liquore.
Ben spalancò gli occhi, ma non riuscì a non pensare, anche se per un solo e minuscolo istante, che il ragazzo fosse un abile manipolatore, oltre che un
discreto baciatore.
Evitando di immaginare cosa sarebbe potuto accadere se solo avesse risposto, lo allontanò da sé, spintonandogli le spalle.
« Che stai facendo? » chiese, sconvolto, con ancora il – piacevole – sentore del sapore di Klaus sulla propria bocca.
L’altro scrollò le spalle. 
« Non ti facevo così stupido. »
 

*



London scoppiò a ridere per l’ennesima volta quella serata, reclinando la testa all’indietro e aggrappandosi al braccio di Ben per evitare di cadere.
« Non sapevo che qualche bicchiere le avrebbe fatto così male » constatò il ragazzo, reggendola con un’espressione quasi allarmata.
Klaus rise a sua volta per la scena, portandosi un braccio della moglie dietro le spalle, e così il gemello fece con l’altro, nel tentativo di sorreggerla.

« Oh, vi voglio così bene! » disse London, accompagnando quelle frasi senza senso con versi altrettanto insensati.
« Questa è la fase allegra » fece invece il moro, continuando a camminare vero casa al passo con l’altro, per quanto gli era possibile. « Dopo arriverà la fase triste. »
« Tu lo sai bene, vero? » chiese Ben, retorico.
« Io ci ho fatto l’abitudine… lei no. »
Rimasero in silenzio per qualche minuto buono, mentre London ridacchiava e cantava motivetti sconosciuti ad entrambi, rompendo la tensione di quella strana situazione che si era venuta a creare. La normalità non era in grado di durare a lungo, in effetti, quando si trattava di loro tre.
Klaus, procedendo per la strada, non aveva potuto fare a meno di pensare a tutto quello che gli era successo negli ultimi tre anni, a tutto ciò che in parte era cambiato.
Erano passati poco più di cinque mesi da quando lui e London avevano deciso di collaborare per la storia dell’erede e, anche se entrambi provavano ancora a negarlo, qualcosa si era inevitabilmente modificato nel loro rapporto, andando ad aggiungersi a tutte le cose che gli confondevano il cervello e minacciavano di farlo impazzire.
Era un periodo particolarmente strano della sua vita. Tutto ciò in cui aveva creduto sino a quel momento si stava annullando con una velocità innaturale, come a deriderlo per tutti gli errori che aveva commesso e che avrebbe continuato a commettere.
Klaus non aveva il coraggio di domandarsi perché London non fosse ancora rimasta incinta, ed entrambi non facevano altro che rimandare il problema, trovando scuse su scuse.
La verità era che l’erede era diventato solo un stupido pretesto per andare a letto insieme e, finché non fosse dispiaciuto a entrambi, sarebbe andato tutto a meraviglia. Peccato che, comunque, tutto ciò non faceva altro che sfocare i contorni di quel mondo fittizio che si era condensato intorno a loro. Mondo che, prima o poi, si sarebbe inevitabilmente dissolto per lasciare spazio alla realtà, ben più confusa di quanto entrambi potessero pensare.

« Klaus? » mormorò Ben.
« Che c’è? »
« Da quanto ci state provando? » domandò flebilmente. Klaus all’inizio non capì a cosa stesse alludendo e corrugò la fronte. Poi comprese, conoscendo la natura indagatrice dell’altro.
« Cinque mesi » rispose, tenendo lo sguardo puntato a terra.
« E… ancora niente? » Non era una domanda invadente, piuttosto aveva l’aria di qualcuno che stava cercando di capire o di mettere a posto le cose, anche se apparentemente non c’era nulla che non andasse.
Klaus aspettò qualche istante prima di ribattere. 
« Ti sembra di vedere bambini in giro? »
« Una gravidanza non dura cinque mesi » obiettò Ben.
« Oh, non è ancora rimasta incinta, d’accordo? » sbottò Klaus; stava per aggiungere qualcos’altro, ma London smise di ridacchiare e si rivolse a lui: « State parlando di me? »
« Sì, Londie, stiamo parlando di te » replicò il moro, con il tono stizzito di chi è stato punto nel vivo dall’argomento. « Sta’ zitta. »
Ben gli riservò un’occhiata di rimprovero. « Non trattarla così. Ti sta facendo un favore. »
Klaus si bloccò. Odiava che le persone gli facessero la paternale o il terzo grado, figurarsi nel caso di Benjamin Bridge, l’unico su cui forse aveva più dubbi al mondo.
« Lo so » si limitò a rispondere, anche se la verità era che ormai non si trattava più di un favore e basta – solo gli stupidi non l’avrebbero capito –, ma non gli pareva il caso di sottolinearlo in quel contesto. Dopotutto lui e London erano pur sempre i gemelli incestuosi del Distretto Sei, nonostante ora la situazione gli sembrasse estremamente complicata. Ben diceva di amare London, London diceva di amare Ben; eppure il primo li aveva convinti a sposarsi e la seconda non sembrava così ripugnata all’idea di andare a letto con lui, quello che definiva il proprio peggior nemico.
Perché i Bridge erano costantemente legati a lui quando in realtà sarebbero dovuti essere legati solo a loro stessi? Non riusciva a venirne a capo, per quanto la cosa gli desse una profonda soddisfazione.
Ben stava per dire qualche altra cosa, ma London inciampò sul selciato, quasi trascinandosi anche gli altri due per terra. 
« Ahia! » esclamò, con il sedere a terra e le gambe piegate di lato. « Mi date una mano? »
Klaus sbuffò, ma la tirò immediatamente in piedi, stringendole un braccio intorno alla vita per sorreggerla. London sorrise – sembrava proprio una bambina con quell’espressione allegra e i capelli scombinati – e lo baciò di slancio a fior di labbra. Durò meno di un secondo, ma sembrò che il tempo si fosse fermato, perché riuscì a cogliere ogni più piccolo dettaglio di quella scena: il naso arrossato dal freddo della moglie, qualche rado fiocco di neve tra i suoi capelli, la bocca che sapeva ancora di gin, l’espressione improvvisamente rattristita del gemello…
Quando il tempo prese a scorrere di nuovo, London si voltò verso Ben e baciò anche lui allo stesso modo. E il momento precedente perse tutta l’importanza che gli aveva dato.
Guardò altrove, lasciando la ragazza completamente nelle mani del fratello, che per qualche strano motivo continuava a fissarlo senza vergogna o discrezione.

« Ehi, Ben » mormorò lei, appoggiando la testa sulla spalla del gemello. « E’ vero che Klaus mi ama? »
Klaus tornò a voltarsi di scatto verso i due.
« Chiediamolo a lui » disse l’altro con un sorriso infinitamente triste. « Klaus, è vero? »
Il moro non rispose, le labbra socchiuse da cui fuoriusciva una nuvoletta di respiro condensato. E con questa erano tre volte che Ben gli faceva quella domanda, nonostante sembrasse già convintissimo della risposta.
« Torniamo a casa, si è fatto tardi » replicò, voltando loro le spalle e ricominciando a camminare per primo.
 

*


Era passata poco più di una settimana da quello strano Capodanno trascorso insieme e, dopo una lunga giornata, London stava per addormentarsi, stesa su un fianco, quando si sentì abbracciare da dietro. La sua schiena incontrò il petto nudo di Klaus e le loro gambe quasi istintivamente si intrecciarono.
« Sei ancora sveglio? » chiese piano lei con tono assonnato.
« Mmh-mh » mormorò il ragazzo in risposta, poggiando il mento sulla sua spalla, al che London, a contatto con il filo di barba di lui, borbottò qualcosa sul fatto che si sarebbe dovuto radere più spesso. « Non riesco a dormire. »
La moglie sbadigliò e portò un braccio sotto il cuscino per stare più comoda. « Io ho sonno. »
Klaus strofinò le labbra contro la sua spalla. « Pensavo che il fatto di girarti dall’altro lato fosse superato. »
London non poté fare a meno di sorridere sarcasticamente. « Perché, ti dispiace? »
« Mi dà fastidio » spiegò lui. « Sei l’unica che lo fa in mia presenza. »
« Sono una puttana speciale, non credi? » fece la ragazza.
« Sei mia moglie » affermò invece lui, stringendo le braccia saldamente intorno alla sua vita. « Purtroppo » aggiunse poi.
« Oh, sono passata allo stadio avanzato! » London fece la finta offesa, ma continuò a sorridere senza motivo. La verità era che le faceva immensamente piacere essere stretta così… possessivamente. Le dava una strana di sensazione di sicurezza.
Klaus continuò a passare le labbra sulla sua pelle liscia. 
« Può darsi. Un giorno sarai anche la madre di nostro figlio, non ti suona strano? »
« Fin troppo » ribatté lei. « Anche se questo giorno mi sembra sempre più lontano. »
Il discorso sfumò velocemente. Entrambi avevano cominciato a pensare la stessa cosa.
« Perché non sei ancora rimasta incinta? » Una domanda ovvia, ma che non aveva un’altrettanto ovvia risposta.
« Non lo so, Klaus » disse velocemente la ragazza. « Eppure sono già passati cinque mesi, quasi sei. »
« Senza contare il fatto che sei stata più volte a letto con me in cinque mesi, quasi sei, che in tutto il resto della tua vita » puntualizzò lui, non senza una punta di scherno.
London si sentì improvvisamente le guance accaldate, come accadeva sempre quando veniva messa di fronte a delle verità scomode, ma diede la colpa al calore delle coperte invernali. 
« Oh, smettila. »
« E’ la verità » replicò cristallinamente l’altro. « C’è qualcosa che non va. »
Rimasero qualche minuto in silenzio, a riflettere. A quel punto era palese che ci fosse qualche sorta di problema.
« Beh » disse London, ormai dimentica della stanchezza. « Ci sono anche persone che provano per anni… Ma forse noi non abbiamo il lusso di aspettare tutto questo tempo. »
Klaus la strinse di più a sé, come se la cosa che aveva appena detto l’avesse colpito. A dire il vero a nessuno dei due importava davvero di quel maledetto erede, ma dovevano pur dare un filo logico a quell’anomala situazione che si era venuta a creare, o tutti gli anni passati a combattersi l’un l’altro avrebbero perso il proprio senso – qualora ce ne fosse stato uno.
« Mia madre conosce un medico » continuò London, con una nota di risentimento nella voce. « Forse dovremmo farci visitare. »
« E’ necessario? » borbottò lui.
La ragazza si voltò dall’altro lato, per poterlo guardare negli occhi, nonostante il buio non lo permettesse del tutto. 
« Credo proprio di sì » rispose. « Adesso dormi, ci pensiamo domani. » Detto ciò, gli si accucciò accanto e Klaus si accorse che provare a dormire e a ignorare i fantasmi nella sua testa, in quella posizione, non doveva essere poi tanto difficile.
 

*


L’inverno stava trascorrendo nella sua placida tranquillità, tra rade nevicate e monotone piogge gelide. Il Distretto Sei era da sempre soggetto a continui cambiamenti climatici e, se da un lato le estati erano calde e afose, il periodo invernale poteva essere tra i più freddi di Panem.
Klaus detestava l’inverno per molteplici motivi, ma allo stesso tempo non sapeva dare delle spiegazioni precise; non era esattamente la sua stagione. Il freddo gli metteva ansia e lo spingeva a fare i conti con se stesso, cosa che detestava fare circa da quando aveva cominciato a capire come andasse il mondo.
In quel momento se ne stava seduto sulla poltrona di fronte al caminetto scoppiettante; erano all'incirca le undici del mattino e, nonostante ciò, c’erano talmente tante nuvole che sembrava pomeriggio inoltrato. Piovigginava e lo strepitare delle fiamme lo aiutava a non pensare a nulla.
London era andata a parlare con il medico per la terza volta in quelle settimane e sarebbe stata di ritorno a breve, portandogli magari qualche notizia in più.
Tutte quelle stupide analisi che avevano fatto fino a quel momento non avevano portato a nulla e questo non faceva altro che spazientirlo e renderlo nervoso. Finché non gli sarebbe giunta nessuna novità non si sarebbe rilassato neanche un po’, quindi si limitava a concentrarsi su altro, anche se abbastanza blandamente.
Cos’altro c’era nella sua vita, a parte i Bridge, d’altronde?
La sua famiglia neanche la considerava più; sua madre lo andava a trovare ogni tanto e con suo padre non aveva più parlato. Un’occupazione vera e propria non ce l’aveva, se si escludeva fare il mentore per circa due settimane nel periodo degli Hunger Games. Klaus quasi non ci pensava più. Tutti i tributi che venivano affidati a lui e a Ludmille Schnee morivano dopo pochi giorni dalla Cornucopia. Era l’ennesima frustrazione della sua vita, ma più di dare dei consigli non riusciva proprio a fare nulla. Dopotutto i Giochi erano soltanto una questione di fortuna; e lui, a suo tempo, ne aveva avuta.
Sentì in lontananza la porta d’ingresso sbattere e poco dopo London entrò nel salotto.
La prima cosa che notò, involontariamente, fu la sua espressione atterrita. Fu così strano vedere un’espressione del genere sul volto della ragazza che gli sfuggì uno sguardo interrogativo.

« Che ha detto? » disse, cercando di non far trasparire il nervosismo dalla sua voce.
London non rispose, limitandosi a fissarlo. Klaus non capì se lo stesse guardando sul serio o meno.
Lo scoppiettare delle fiamme era l’unica cosa che colmava quel pesante silenzio.

« London, che cosa diavolo ti ha-? »
« Klaus » lo chiamò la moglie, con un tono che non le aveva mai sentito prima, un tono tremolante e insicuro. « Sei sterile. »

 















   
 
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