Un terribile Tifone
Prodigio e incubo
L’estrema
vetta del monte Olimpo raggiungeva appena la metà
dell’altezza della Sua sagoma. Quando espose le Sue fattezze
alla vista dei
quattro dei, il Mondo parve zittirsi e farsi piccolo, e inchinarsi
perché non
poteva fare altro; anche le gocce che cadevano dal cielo sferzando la
terra
rallentarono la loro corsa. Le nubi si prostrarono e
l’azzurro che vi pulsava
dietro brillò, quando la Sua testa squarciò il
tetto del Mondo; ma l’oscurità provvide
subito a cicatrizzarsi, come un tessuto cosciente, come
un’entità viva che teme
la purezza della luce dei cieli e che questa raggiunga i mortali.
Il mostro era
un ammasso informe di corpi e detriti, non
c’era altro modo di descriverne le fattezze. I due arti che
provocavano boati e
terremoti sconquassanti erano composti da una moltitudine di rocce
sinuose,
lisce e viscide, incastrate a caso fra di loro in modo da comporre due gambe sbozzate,
sprovviste di piedi. Le
braccia, anch’esse senza dita alle estremità,
erano della medesima
composizione, smisuratamente lunghe e dotate di
un’incredibile snodabilità. Il
torso, invece, consisteva in un insieme iridescente di serpi, che si
contorceva
e si dimenava continuamente producendo uno sfarfallio di riflessi
sfuggenti. In
prossimità di quelle che potevano essere chiamate spalle
spuntavano due immense
ali di pipistrello, all’apparenza prive di vita dal momento
che non
presentavano peli o cute, solo un’ossatura dello stesso
colore della notte regnante.
La testa era un grumo informe di ossa, pietre, arbusti, terra e magma
appiccicati insieme, circondato da un alone di pennacchi grigiastri; vi
pendeva
una lunghissima barba di serpenti sibilanti, che oscillava minacciosa
ad ogni
passo come una tenda. Due pozzi rossi come braci sputarono lingue di
fuoco intravedendo
il quartetto di divinità.
Di fronte a
quello spettacolo, Pan ed Hermes furono in grado
solo di restare a bocca aperta, assaliti da un freddo senso di
inferiorità.
Definirlo prodigio, o incubo? Una simile creatura poteva essere solo
figlia di
un dio, o meglio, del capriccio di un dio. Perciò, forse,
era entrambi: sia
prodigio che incubo. Gea si era senz’altro ingegnata, e il
suo intento si era
materializzato: la sua furia cieca poteva abbattersi su Zeus e
sull’Olimpo
senza mezzi termini.
Tifone si
arrestò, e parve aver cambiato idea riguardo
qualcosa. Inclinò l’assurdo corpo
all’indietro e, per mezzo di una bocca che
non possedeva, emise un ululato agghiacciante che si propagò
dovunque e fece
tremare ogni cosa. Era come se tutti gli animali del Mondo parlassero
insieme,
in un coro di rabbia e frustrazione, accompagnati dal suono di un
mastodontico
corno.
Pan si
sentì dilaniare e si tappò le orecchie, incapace
di
impedire alle corde vocali di vibrare, e qualcosa lo forzò
ad accasciarsi. Non
ci fece caso, ma anche Hermes ebbe una reazione simile. Zeus invece non
aveva
perso tempo, perché era già scomparso dal loro
fianco: si era spostato con
incredibile velocità compiendo un balzo, e adesso aleggiava
a mezz’aria, ogni
muscolo carico di tensione come una molla contratta al massimo della
sua
capacità.
-Fate qualcosa!
Distraetelo!- urlò Athena, spintonando i due
compagni che aveva vicino. -Io devo recuperare la Folgore!
Hermes ebbe un
sussulto, e i suoi occhi si fecero
improvvisamente piccoli e sperduti, come se si fossero accorti solo ora
di
quello che realmente stavano vedendo. -La Folgore? Cosa?
Come…- farfugliò.
Athena lo
ignorò. Proiettò un braccio in avanti con un
agile
gesto, e la sua lancia penetrò l’aria ribollente
per miglia e miglia, emettendo
un boom sonico, fino a tintinnare senza successo sul ginocchio amorfo
di
Tifone. Allora Athena serrò la mascella, e il dio alato avrebbe
giurato che stesse
ringhiando.
-L’ha
sottratta a Zeus, inglobandola nel suo corpo- disse
lei, senza voltarsi. -Fratello, non deludere nostro padre. So che non
vuoi, e
non lo farai. Trova il tuo scopo in questo scontro!- Poi si volse,
finalmente,
e guardò accigliata Pan, che era ancora impietrito dallo
scempio che l’aspetto
di Tifone emanava. -Ehi, tu! dio della natura!
Il satiro,
fuori di sé com’era, emise un belato strozzato e
il suo collo si gonfiò di ansia.
Prima di
riferire a Pan ciò che pensava, Athena cercò di
comprendere dove l’arma che aveva scagliato si fosse
nascosta, lasciando che le
pupille lampeggiassero frenetiche laggiù dove
l’inferno trovava posto. -Credi
che io non abbia paura?- disse, abbassando il tono della voce, e
rivelando
un’inaspettata dolcezza. Hermes la squadrò da
testa a piedi, scosso da incredulità.
-Chiunque dimorava nella casa dell’Olimpo è
fuggito in preda al terrore più
puro e sconfortante, davanti a Tifone. Se tu e tuo padre foste arrivati
qui
qualche ora fa, non avreste trovato nessuno! Ma è giusto e
buono rispondere
alla paura in qualche modo, altrimenti sarà lei a fare da
padrona su di te-
Posò una mano ricoperta di lividi sulla spalla nuda di Pan,
e la strinse con
forza, e Pan ne sentì il calore diffuso. -Se ti trovi qui,
con me, e tuo padre,
e il padre di tutti noi, un motivo c’è. Zeus non
fa mai niente senza uno scopo
preciso, senza prima studiare un piano. La sua mente oltrepassa la
capacità
delle nostre. Dobbiamo fidarci di lui, come lui ha fatto e fa con noi!-
Poi
portò le dita all’elmo, riflettente i baluginii
del cielo gonfio, e se lo tolse
con un gesto secco. Nel mentre Tifone veniva colpito al viso da un
essere che al
suo confronto era delle dimensioni di una zanzara, Zeus, costringendolo
a
mostrare l’altra guancia e lamentarsi sottilmente. -Abbiamo
l’occasione di far
vedere al Mondo che possiamo proteggerlo dal male e dalla follia della
vendetta. Non sprechiamola!- disse la dea della giustizia.
Athena diede le
spalle ad Hermes e figlio, abbandonò in
terra l’elmo rilucente e mostrò loro la sua
lunghissima chioma rosseggiare
nell’atmosfera pesante, una fiamma inestinguibile di speranza
e austerità. Li
abbandonò intraprendendo un’agile corsa, con la
quale svanì e riapparve
direttamente ai piedi del demone-mostro, in cerca della sua lancia.
-E sia-
bisbigliò Hermes, ignorando la scossa famelica che
una zampa di Tifone causava sfregando contro un colle. Pan
deglutì più volte e
gli si avvicinò, e percepì la sua forza
d’animo; in questo modo riuscì a rallentare
i battiti del cuore, delucidare la mente, e rilassare il respiro.
-Padre- disse,
-Cosa facciamo?
-Giochiamo-
disse Hermes, mostrando, inaspettatamente, un
sorriso.
-Cosa
significa?
-Tu dovresti
essere il primo a capirmi, figlio.
Pan
fissò il padre senza essere capace di dire
alcunché,
scaldato in qualche modo dalla sua espressione facciale.
-Facciamo
quello che siamo abituati a fare, Pan: perché è
la
sola cosa che sappiamo fare alla perfezione, la cosa per la quale siamo
nati.
Zeus non deformerebbe mai la nostra immagine chiedendoci di compiere
gesta per
noi impossibili…- Il suo sguardo divenne sereno, nonostante
l’immensa ombra
minacciosa del figlio di Gea e Crono rumoreggiasse alle sue spalle.
-…Gioca la
tua parte, Pan!
A quale vita
spensierata e colma d’amore leggero s’era
abbandonato, il dio-satiro, fino a quel giorno! Rincorrere questa e
quella
ninfa, raccontare barzellette alle cortecce di pino, collezionare gusci
di
chiocciole, gracchiare alle spalle dei cacciatori, giocare al tiro al
bersaglio
con i falchi, dondolarsi dalle fronde dei sempreverdi…e,
sempre, provvedere
all’integrità della natura, il suo regno,
ciò che la sua vita stessa era
chiamata a proteggere, oltre che farne la propria allegra dimora.
In quella
circostanza, invece, dinanzi alla minaccia di
Tifone, come poteva comportarsi? Come mi
sarei comportato, se fossi stato da solo? si disse, riempito
di fiducia
dalle parole di Hermes. Qualcosa
farò,
sono pur sempre un dio.
Il colosso
levò entrambe le braccia in alto e, mugghiando,
le scaraventò in basso per contrastare una forza. Quella
forza erano le braccia
di Zeus, scagliatesi incontro al volto di Tifone. Quando la coppia di
arti si
scontrarono, l’una centinaia volte più grandi
dell’altra, diedero vita ad un’esplosione,
e una bomba d’aria creò una bolla di vuoto, che si
espanse a dismisura e
respinse l’acqua che il cielo lasciava cadere.
Una donna dai
capelli rossi era intenta a spezzare le difese
rocciose di una gamba del mostro, accusando colpi precisi con la lancia
dorata.
Dove l’arma cercava di conficcarsi, la roccia si lamentava e
nascondeva ulteriormente
un oggetto accecante, lampeggiante di turchese e arancione e giallo
vivido:
l’arma più potente che il più grande
fabbro del Mondo avesse mai forgiato, la
Folgore. Fino ad allora mai nessuno era stato tentato dal desiderio di
impossessarsene, l’oggetto che Efesto stesso aveva plasmato
con le sue mani
prodigiose. Facendo attenzione a non rimanere sepolta sotto la mole
titanica di
Tifone, Athena allungava il braccio e lo ritraeva, imprecava e tuonava
con la
voce severa, nel tentativo di liberare la micidiale arma di suo padre
da
grinfie egoiste.
Pan ed Hermes
avevano preso a compiere ampi cerchi attorno
al nemico, così da attirare e frammentare la sua attenzione.
Se non altro, in
questo modo avrebbero di certo favorito Zeus, il quale ora giaceva a
terra,
sotto decine di metri di detriti, scagliato lì dal
contraccolpo che lo scontro
con Tifone aveva causato. Questi si alzò e riprese il volo,
fece della voce un
canto di guerra e caricò all’indietro un destro
formidabile: non si accorse
però che Tifone stava facendo altrettanto, e con una
rapidità sconcertante.
Entrò
in azione Pan, che stava seguendo attentamente la
scena, e spaventando il temporale strillò: -Alle tue spalle,
Zeus!
Quella voce
fragorosa venne udita proprio in tempo dal padre
degli dei, che si voltò e parò con successo il
colpo di Tifone a ginocchia
unite; lo respinse e utilizzò il braccio del mostro come
fosse una rampa di
lancio, correndoci sopra. Tifone tentò di allontanarlo come
si fa con un
insetto, con l’altro braccio, ma quando questo fu sul punto
si avventarsi su
Zeus egli lo schivò con un salto e continuò a
correre, sempre più vicino al
volto inumano del demone. Compì a sorpresa un secondo salto,
unì le braccia
sopra il capo e roteò su se stesso, dando al proprio corpo
l’aspetto di una
micidiale trivella: spalleggiato dal flash di un torrente di fulmini,
trapassò
ruggendo la fronte di Tifone, da parte a parte, il quale non ebbe
prontezza di
riflessi per contrattaccare.
Per alcuni
istanti Pan ed Hermes credettero che fosse fatta,
che Tifone fosse stato debellato: si riunirono e si permisero un
sorriso,
cercando con lo sguardo Zeus. Anche Athena abbassò la picca
d’oro, distendendo
l’espressione sofferente che le si era andata ad imporre in
volto.
Ma fu un
attimo, un breve attimo di sollievo. Tifone smise
di ondeggiare incertamente, si riassestò, e, mollando
schiaffi al vento, lanciò
un grido spaventoso e odioso che fece piangere il Mondo e tremare la
terra, e aprire
e poi richiudere un cerchio celeste nel cielo.
Si
udì nuovamente la voce di Zeus, irrequieta e furiosa,
attirare a sé uno sciame di folgori. Fu in quel modo che i
tre dei che lo
supportavano poterono vedere dov’era: stava alle spalle di
Tifone, ricoperto di
liquami nauseabondi e ogni genere di sporcizia.
-La mia
Folgore! Athena, la Folgore!- disse, mal celando
disperazione.
Sua figlia,
purtroppo, ancora non aveva cantato vittoria.
Dai piedi di Tifone, urlò: -Pan, Hermes, dovete fare in modo
che si sposti! Io
lo colpirò a questa gamba, la Folgore è qui!
Del
demone-mostro i quattro dei avevano capito ogni cosa, o
per lo meno tutto quello che il suo aspetto e il suo comportamento
davano ad
intendere; ma c’era una sola cosa che non avrebbero mai
potuto afferrare, e
cioè che era in grado di percepire il significato delle
frasi che loro si
scambiavano. Il fatto che non possedesse una bocca non valeva a dire
che era
incapace di prendere, a suo modo, parte ad una conversazione. Per
questo
motivo, quando Athena parlò a Pan ed Hermes, questi
piantò un pugno pauroso al
suolo, quasi l’avesse spostato alla velocità del
suono, in prossimità della
posizione della dea della giustizia.
Di lei non si
udì più la voce, né si vide la
presenza, in
mezzo al nuvolone di polvere e fuoco che s’era sollevato.
-Nooo!- si
udì forte; era Zeus. Si avventò sul mostro,
incanalando
ogni goccia di forza che il suo corpo sovrumano era capace di produrre
nei
pugni serrati, e li infilzò sul dorso di Tifone.
Dapprima ogni
suono fuggì, si rintanò nella dimensione del
silenzio e il Mondo tacque per una frazione di secondo, imbalsamandosi.
Il
tempo si dilatò e ad Hermes e a suo figlio sembrò
che tutto andasse a rilento,
che si allontanasse e si riavvicinasse da loro nel compiere un
profondissimo
respiro. Poi il padre degli dei diede dimostrazione di cosa le sue
capacità, se
spinte oltre al limite, potevano fare: per un breve istante
l’aria si tinse di
un bianco insostenibile, e i suoni parlarono di nuovo, scoppiando in un
temibile cigolio, un lamento che intimorì l’Olimpo
stesso. Tifone gridò di
dolore, la schiena di serpi sventrata; era ormai stato inesorabilmente
sbilanciato, e stava precipitando in avanti.
La
casa degli dei
verrà sepolta!, pensò Hermes, una
maschera indefinibile a modificargli la
faccia. Zeus per fortuna doveva aver pensato la stessa cosa,
perché era
scomparso da dove si trovava. Pan lo vide spostarsi in
prossimità del petto di
Tifone e alzare le grosse mani con l’intento di sostenerne il
peso: sotto di
lui, il tetto dell’Olimpo chiedeva pietà.
Con un gemito
di dolore Zeus ricevette sui palmi delle mani
la mole di Tifone. Era allucinante, incredibile, impossibile! Ma doveva
resistere, non poteva cedere. Ogni atomo del suo corpo lo implorava di
abbandonare la presa, di lasciare che l’Olimpo affrontasse il
suo destino; ma
Zeus rispondeva loro con coraggio e fierezza, scuoteva il capo e
cercava di
ignorare il dolore, lo sfrigolio delle ossa, la capacità di
levitazione messa a
durissima prova, nella mente e nel cuore l’immagine di Athena
messa in ombra
dal pugno assetato di morte di quella belva assassina.
-Dobbiamo fare
qualcosa anche noi!- belò Pan, pervaso da una
smania incontrollabile, forse dovuta alla visione del padre degli dei
costretto
a dover sorreggere da solo il peso dell’astio di
Gea…esattamente ciò che Ella
desiderava. Allora zoccolò sino ai piedi di Tifone e vi
assestò un colpo netto
e schioccante, che la pietra non poteva respingere; ecco, la Folgore
era lì,
scoperta, libera della sua prigione, splendente e grandiosa! La
acciuffò, prima
che le carni inumane del nemico si richiudessero. Non appena
l’arma fu nel
palmo della sua mano, Pan ne percepì il potere: una
vibrazione gli attraversò
il braccio, il torso e anche le zampe. Compieva molta fatica ad
impugnarla, era
come se gli stesse prosciugando la linfa vitale; ma allo stesso tempo
provava
brama di possessione verso di lei, desiderava utilizzarla e distruggere
e
creare, comandare e sottomettere.
-Pan, cedila
subito a Zeus! Soltanto lui può detenerne il
controllo!
Fu grazie al
comando imperativo di Hermes, che il satiro
riacquistò lucidità e capì quali
davvero erano le sue condizioni attuali: stava
morendo. Il suo corpo si stava incenerendo, deperiva e si anneriva a
gran
velocità, tra le scintille ronzanti che la Folgore emetteva
nel ripudiare il
suo controllore. Scrutando suo padre vide che gli stava porgendo una
mano:
quindi non esitò neppure un attimo e scagliò
l’arma lontano. Il suo corpo tornò
lesto ad uno stato ottimale. La Folgore finì dritta fra le
dita di Hermes che,
conscio di cosa questa era in grado di fare a chi non era degno di
possederla,
indirizzò subito tutto il potere curativo di cui poteva fare
uso su se stesso,
in particolar modo sulla mano che stringeva il fulmine. Poi
chiamò il padre
degli dei, cercando di non risparmiare il fiato: -Zeus, eccola! La
Folgore!
A quello
bastò capire cosa stava accadendo. Volse il capo
barbuto, imperlato di fatica, e la vide. Mutò
d’espressione come se fosse stato
un bocciolo di margherita accarezzato dal sole per la prima volta.
Accadde
tanto rapidamente che non fu possibile distinguere uno spostamento
dall’altro:
Zeus abbandonò la presa dal corpo semidistrutto di Tifone,
agguantò la Folgore
che Hermes aveva provveduto a porgergli , e il Mondo sospirò
di luce. Un
fulmine che s’avrebbe detto fosse di diamante
trapassò al cuore il figlio di Gea
e Crono, ancora nell’atto di cedere al suolo, facendogli
compiere
un’improbabile e colossale capriola all’indietro;
sbalzato di centinaia di
miglia, si piantò sul crinale di una catena montuosa ad
occidente, dividendosi
a metà. Non proferì alcun lamento, ma
l’aria parve solidificarsi tanto fu il
chiasso e l’arroganza della scossa di terremoto scaturita.
Ora che
l’Olimpo era stato messo in salvo, Zeus scese di
quota, e quando posò piede sul terreno incenerito, accanto a
Pan ed Hermes, fu
chiaro quanto era sfinito e quanto agognasse il riposo. La Folgore, nel
suo
pugno, si era ingigantita di dimensioni e luminosità, e
canticchiava toni
elettrici alternando note basse ad altre molto alte.
-Avete agito
bene, figli miei- ebbe la forza di dire, gli
occhi stanchi volti ai piedi, conficcati al suolo come poderosi tronchi
di
quercia. Poi venne trapassato da un’idea. -Athena. Athena!-
implorò. Cercò il
punto dove ricordava d’averla vista l’ultima volta,
posò la Folgore e cominciò
a scavare, a respingere massi, ad ansimare più di quanto non
stava facendo. Anche
gli altri due si unirono a lui, in silenzio rispettoso.
E Tifone, era
morto? O per meglio dire, rientrava nelle sue
possibilità la morte?
In base a
quanto seguì di lì a poco, no.
Zeus dovette
interrompere la disperata ricerca, perché
incomprensibili parole di pietra, insulti di lava, versi
raccapriccianti si
stavano indirizzando a lui. Si voltò, e inorridì:
Tifone aveva in qualche modo
ricomposto l’integrità del proprio corpo,
probabilmente utilizzando pezzi del
Mondo stesso. Il dorso, così come diverse altre sezioni, ora
erano composte di
terra, scintillante di pietruzze e minerali vari, pezze e rammendi
incastonati
in un grumo di serpi lamentose e intrichi di rocce umide.
Ancora Tifone
si ergeva minaccioso sull’Olimpo, sugli dei,
sulla vita.
Cosa mai altro
avrebbero potuto fare, le divinità rimaste,
se non ingaggiare un ulteriore duello?
Zeus, ritornato
in possesso della fidata Folgore, si levò in
cielo come un proiettile e scagliò saette, una di seguito
all’altra, senza fare
economia di colpi. Hermes volava attorno al capo del demone per
confonderlo,
torreggiando sul paesaggio, imitando una falena ipnotizzata dalla
lanterna. Pan
invece correva attorno alle ciclopiche zampe, fuggendo quando queste si
issavano e schiacciavano, e riavvicinandosi e provocando quando se ne
stavano
inerti.
La nuova
resistenza con la quale Tifone si opponeva
all’inesorabilità della Folgore era da non
credere. Sebbene i lampi e i fulmini
volassero violenti, e crepitanti, e maestosi e fantastici, tutti quanto
il
primo, il demone era in grado di non esserne schiacciato. Se ne
rimaneva
colpito direttamente, mostrava segni di cedimento, ma si limitava ad
arretrare
o perdere l’equilibrio; se invece trovava il corretto
tempismo per deviarli con
le braccia snodate, quelli rimbalzavano, deviavano la loro corsa e si
perdevano
nella tempesta, allontanandosi e svanendo in un eco secco e soffocato.
Quando non ci
fu più altra scelta, Zeus decise di passare al
corpo a corpo, ancora una volta. Avrebbe richiesto un ulteriore immane
dispendio di energie, ma era disposto a farlo: l’idea,
sconcertante e
intollerabile, che sua figlia Athena avesse perso la vita a causa di
quell’aborto oscuro iniziava ad offuscargli la mente.
Calci e pugni,
schivate, sollevamenti, grida e fulmini. La
pioggia tagliente, il mattino invisibile, l’incertezza
crescente.
Quando Zeus
ebbe una portentosa intuizione. Un’idea, un
sussurro al cuore, un sorriso. Si allontanò più
che poté da Tifone, il corpo
tumefatto, e disse ai suoi figli di avvicinarsi, tanto quanto bastava
da
prendere del tempo affinché l’antagonista non li
raggiungesse prima di un certo
lasso di tempo, vista la sua goffa lentezza sulle lunghe distanze.
-Dobbiamo
attendere che sprofondi nel suolo, vi rimanga
impantanato- disse Zeus, dopo aver preso faticosamente fiato. La
Folgore
proiettava sul suo volto una luce cristallina e netta che ne metteva in
risalto
lo sfinimento.
-Padre, vuoi
che ti curi?- gli domandò Hermes, anch’egli
stremato. Più volte si era visto intrappolato tra le grinfie
di Tifone e ne era
rimasto schiacciato, salvandosi per pura fortuna.
L’altro
rispose negativamente con un cenno, piegandosi in
due così da alleviare il peso di dolori indescrivibili.
Con rispetto e
ammirazione, Pan chiese: -Cos’hai in mente di
fare?- Era sfinito, giunto al limite delle forze fisiche e mentali, ma
la sua
voce era ancora fresca e grintosa.
Tifone stava
muovendo soverchianti passi nella loro direzione,
lasciando intorno a sé una pioggia di lapilli e rocce
incandescenti. Dopo
averlo studiato attentamente, Zeus si rivolse ai due dei spiegando loro
in che
modo avrebbero dovuto comportarsi in seguito, senza tralasciare nulla
riguardo
l’intuizione che aveva avuto poco prima. Loro compresero,
annuirono con
fermezza ed ebbero risposta, e conferma, del perché fosse
proprio Zeus a fare
da padrone nella vasta famiglia divina dell’Olimpo.
Chissà
se il piano che Zeus aveva architettato comprendeva
un’imprevedibile reazione di Tifone. Si, perché
questi, anziché proseguire sul
cammino, stava adesso sradicando un’intera montagna che si
trovava nelle
vicinanze e, facendo uso di una potenza fisica che a dei e uomini non
era
permesso neanche di sognare, voleva
sollevarla. Le sue braccia rocciose erano divenute parte integrante
della
montagna, che staccandosi dal suo letto antico migliaia di millenni si
produsse
in un ruggito tetro e violentissimo, graffiante, simile al suono che si
può
udire quando un meteorite si schianta su di un pianeta delle sue stesse
dimensioni, disintegrandolo.
Tifone
innalzò la montagna sopra la testa; divenne alto
più
del cielo, oltrepassò di migliaia di miglia le nubi e, in un
modo assolutamente
scioccante, la tempesta che non aveva accennato ad attenuarsi fino ad
allora
scomparve senza lasciare traccia. La luce del sole inondò il
Mondo, rivelando
agli occhi stanchi delle divinità quanti danni
quest’ultimo avesse accusato. Non
esisteva più niente. Fiumi, mari, colline o pianure: nulla.
Una grande
sconfinata zona ridotta a piattume incolore, segnata solo dalle orme
del
combattimento.
Il ruggito
della montagna volante non cessò neanche quando
Tifone la abbassò, con l’intenzione di scagliare
infiniti miliardi di
tonnellate di peso addosso alla famiglia divina. Questa non avrebbe
potuto,
ovviamente, scampare in nessun modo all’impatto. Non avrebbe
mai fatto in tempo
a spostarsi prima che la pietra la raggiungesse, seppellendola e
lasciando di
lei solo un ricordo.
Il sole venne
una seconda volta oscurato, ma non a causa di
perturbazioni atmosferiche. La montagna cadeva. Tifone si
unì al frastuono
gridando vittoria, mentre le orbite focose dei suoi occhi vomitavano
lava.
Eppure,
chissà per quale motivo, un ampio sorriso era
stampato in mezzo alla folta barba iridescente di Zeus.
La terra
tremò spaventosamente, e Tifone barcollò. Il peso
della montagna sopra di lui lo stava sopraffacendo, rendendo le sue
movenze
impacciate e smisuratamente più lente di prima.
Hermes, vicino
a suo padre, stava dirigendo un fascio
luminoso che dalle sue mani e dal bastone d’oro si immetteva
nel corpo
affaticato di Zeus, affinché ne sanasse le fatiche e
rigenerasse le ferite. Doveva
disporre di tutte le energie possibili, per compiere un ultimo gesto.
E Pan,
dov’era? Pan si trovava a molte miglia di distanza, in
un punto molto, forse troppo ravvicinato rispetto a Tifone: un punto
dove esso
non avrebbe mai sospettato si nascondesse il nemico. Il dio satiro si
stava
gonfiando in petto, stringendo a più non posso i pugni. Si
stava preparando per
esibirsi nella più incredibile burla che il Mondo avrebbe
mai visto: aprì la
bocca, e un verso che non aveva niente di animale, o di umano, o di
mostruoso
si propagò nell’aere come lo squillo unanime di
una moltitudine di trombe.
Persino Hermes
e Zeus dovettero coprirsi le orecchie, tanto fu grande il fastidio e lo spavento.
Tifone cosa
fece? Si spaventò. Credette di trovarsi in
presenza di una creatura più colossale e spietata di lui, e
provò a girare il
capo informe: ma non ci riuscì, perché il peso
della montagna l’aveva
sbilanciato troppo. La riportò allora con immensa fatica
sopra di lui, così da
ritrovare l’equilibrio: ed ecco cosa lo fece cadere in
trappola. Non poteva
immaginare che, sotto di lui, nel sottosuolo, qualcuno aveva scavato
una
miriade di tunnel in modo da indebolire le fondamenta del Mondo.
La terra venne
scossa da un ennesimo terremoto, mentre
Tifone sprofondava fino alla vita nel Mondo. Fu in
quell’istante che Zeus,
riprese gran parte delle forze, impugnò fieramente la
Folgore, si sollevò in
cielo e tuonò l’ultimo canto, quello della
vittoria: un lampo abbacinante, e la
montagna che Tifone impugnava venne trapassata dalla punta alle radici.
Un
enorme fulmine dalla radiosità intollerabile era calato dal
cielo, creatosi
dalla Folgore, bucando da cima a fondo la montagna, forandole le
interiora, e
poi colpendo lo stesso Tifone. A questi si smontarono le braccia, che
divennero
un ammasso di pietre rotolanti. Tutto quello che sorreggevano ricadde
al basso,
debellando e cancellando una minaccia che solo mediante cooperazione, e
un po’
di fortuna, era stato possibile contrastare.
L’ultimo
boato, l’ultimo sospiro di una vendetta cercata e
non esaudita.
Mentre Zeus si
riuniva ai suoi figli in terra, rinvigorito
da un’estasi trasparente, sbucò dal suolo una
testa scarmigliata di ciuffi
rossi: Athena. Dopo essersi scrollata di dosso un mare di terriccio, si
abbandonò nell’abbracciò che le
donò il padre degli dei non appena la vide, e
poi nelle grida di festa che le rivolsero Hermes e Pan.
-Grande idea,
quella di seppellirlo!- si complimentò Zeus
-Ho ricevuto chiaramente il tuo messaggio!- Athena ammiccò
soddisfatta; era pur
sempre la dea dell’astuzia e della giustizia, gesta simili
potevano essere
compiute da nessun’altro che lei.
-E che dire del
prodigioso Pan?- continuò Zeus, aprendo la
grande mano in direzione del satiro, che mostrò uno dei suoi
migliori sorrisi
birbi. -Niente da togliere anche a te, figlio mio, Hermes!- Prese
sottobraccio
il dio alato, strattonandolo scherzosamente e senza tenere a bada la
forza dei
muscoli.
Athena si
guardò attorno, estraniandosi dai festeggiamenti
per capacitarsi di quanto il Mondo fosse rimasto coinvolto nella
devastazione. La
tomba che simboleggiava l’ultimo atto del combattimento con
Tifone aveva preso
a sputare refoli di fumo nero, a vomitare fiamme, cenere e lava. Un
vulcano
stava prendendo vita, il cui cuore era lo spirito stesso del figlio
della
vendetta di Gea.
La dea
sospirò a lungo, più volte, quasi rammaricata.
Pan,
udendola, gli si avvicinò.
-Hai motivo di
essere triste, Athena. Io più di tutti posso
sentire…la sofferenza della natura.
L’altra
si volse, e le iridi smeraldine le si tinsero di un
calore comprensivo e audace. -Ricostruiremo tutto…siamo gli
dei dell’Olimpo.
Come distruggiamo, edifichiamo- Poi, con fare ironico,
indicò il dio satiro con
un indice. -Dovresti presenziare più spesso alla casa degli
dei…ti sei
dimostrato coraggioso e degno di valore. Potremmo trovare uno scranno
anche per
te!
Mentre
ponderava sul fatto di dimorare sull’Olimpo, Pan
venne distratto dagli schiamazzi che Hermes si lasciava scappare sotto
il peso
dei bicipiti di Zeus, e inconsciamente portò una mano sulla
sacca dalla quale
non si separava mai: i polpastrelli entrarono in contatto con il suo
mitico
flauto. L’indole spensierata e amante della
libertà, della gioia e delle
passioni che lo caratterizzava lo portò ad accostare il
flauto alle labbra ed
incominciare a suonare. Athena si mise a ridere, e
improvvisò un balletto sul
posto, mentre Zeus e suo figlio continuavano a respingersi a vicenda
con fare
affettuosamente virile.
No, non avrebbe mai potuto abbandonare la sua vita. La sua eterna caccia alle ninfe, i dirupi selvaggi e scoscesi. Sarebbe accorso se la sua presenza fosse stata richiesta, ma il dio Pan avrebbe continuato a dimorare nelle campagne e nei boschi, per i monti inabitati e le foreste, pronto a burlarsi del viandante e confidare i propri segreti al ronzio dell’alveare.