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Autore: yingsu    16/10/2013    1 recensioni
«Back to the chick that lost control, back to the pain that can’t be shown.»
«Vediamo un po’ quale signorina avrà l’onore di rappresentare il Distretto Due quest’anno» disse ad un tratto Calla, avviandosi verso una delle bocce di vetro. Non importava quale nome ci sarebbe stato su quella strisciolina di carta, tanto qualche altra ragazza bramosa di vincere si sarebbe offerta volontaria. Era così da quando aveva memoria, motivo per cui dopo i primi due anni il terrore che aveva provato alla mietitura era stato sostituito dalla noia e dal desiderio di tornare a casa.
[...] «Ci sono volontari?» domandò retorica, e una voce seguita da una mano alzata si levò dal silenzio, precedendo qualsiasi altra. «Io! Mi offro volontaria come tributo» gridò lasciando Roel con gli occhi spalancati, i muscoli paralizzati.

▪ MIETITURA 72nd Hunger Games ◊ Liv Nerys ◊ DISTRETTO 2
▪ SPIN-OFF de "Die on the front page, just like the stars".
▪ PREQUEL de "I'm frozen to the bones".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovi Tributi, Tributi edizioni passate
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Anche la neve morirà domani.'
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Dedicato a radioactive

 e alla gallina del brodo.

 

 

Senza di te non posso sopportare il suono della pioggia.

 

 

 

 

 

«Back to the intro, back to the back of the back of the door I watched you close
Colors washed by the endless tides, by the end of the cycle faded slow
Back to walls with the holes punched in by the ends of a fist with knuckles swole
Back to the chick that lost control, back to the pain that can’t be shown
»

|  WOODKID FEAT ANGEL HAZE→ I LOVE YOU|

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pioveva.
Era stato il fastidioso picchiettare dell’acqua sui vetri a svegliarlo, quella mattina. A ricordargli che avrebbe dovuto abbandonare quella chioma bionda scompigliata che sbucava dalle coperte per correre a casa a darsi una sistemata – e magari cambiarsi anche i vestiti con i quali era stato costretto a dormire. E così aveva fatto, si era limitato a lasciare un piccolo bacio sulla tempia alla sua storica ragazza e, con maniacale delicatezza, era sgusciato fuori dalle lenzuola, salutando rapidamente la signora Nerys già ai fornelli, intenta a preparare la colazione.

Se fosse stato un giorno normale si sarebbe fermato ancora per un po’, ma sapeva che sua madre era furiosa per il suo mancato ritorno a casa – l’ennesimo in quella settimana – e che probabilmente gli aveva già preparato una camicia pulita e dei pantaloni.

Santa donna.

Schivate le accuse e giustificato il suo pernottamento fuori casa con una banale scusa, si era diretto a lavarsi con la faccia di un cane bastonato e, una volta pulito e sistemato, attese di essere fuori dal campo visivo di sua madre per scompigliarsi i capelli perfettamente laccati da un lato in una pettinatura che lo faceva sembrare un idiota – odiava quella stupida piega, e detestava ancora di più quando qualcuno si ostinava a sistemargli i capelli.

 

 

 

Piovigginava, ma questo non avrebbe cambiato le cose, né ritardato la tanto attesa mietitura  in diretta del Distretto Due. Si passò una mano fra le ciocche bagnate cercando fra le file gli splendidi occhi blu della sua fidanzata, ma lo sguardo che intercettò non fu quello sperato e, qualche riga più indietro, Thyra gli sorrise facendogli l’occhiolino.

Nauseante.
Girò in fretta il capo guardando il palco, attendendo con impazienza l’inizio di tutta quella farsa che era ormai solito sopportare. Prima avrebbero incominciato, prima avrebbero finito, e prima lui sarebbe potuto andare da qualche parte con Liv, a continuare il vaneggiamento della notte prima sul loro futuro matrimonio.

Osservò con finto interesse le sedie posizionate sul palco riempirsi una ad una, riconoscendo le persone sedute: il primo posto era occupato dal Sindaco, accanto a lui c’era l’accompagnatrice Calla Twigge, una donna dai capelli color pervinca raccolti in una strana pettinatura, costituita principalmente da due corna che sfidavano la forza di gravità; sulle due restanti seggiole erano accomodati Enobaria e Brutus, due vicintori delle passate edizioni.

Insomma, tutto noiosamente uguale –  fatta eccezione dei capelli di Calla, per lo più solita a cambiare acconciatura ogni anno.

Sospirò facendo passare nell’asola il primo bottone della camicia, così da evitare di morire strozzato o vomitare sulla schiena del ragazzo davanti a lui – gli indumenti stretti al collo gli avevano sempre fatto quell’effetto – mentre il Sindaco si accingeva a leggere il noioso discorso su come fosse nata Panem. Roel avrebbe quasi giurato di saperlo ripetere a memoria, come una vecchia filastrocca, ma si astené dal provare a farlo. Attese composto, dritto con la schiena fino a quando l’uomo non presentò Calla, invitandola a raggiungere la pedana.

«Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!» cantilenò con quella sua voce irritante prima di intrattenere la folla con un fiume di parole senza capo né coda.
Roel alzò lo sguardo al cielo: aveva smesso di piovere.

Sorrise in direzione di Liv per vedere se lei lo stesse guardando, ma riusciva ad intravederla con le spalle leggermente chinate in avanti, mentre si rigirava fra le dita la catenina che portava al collo.
Era turbata, se n’era accorto anche la sera prima, come se qualcosa la disturbasse e spaventasse allo stesso tempo.

«Vediamo un po’ quale signorina avrà l’onore di rappresentare il Distretto Due quest’anno» disse ad un tratto Calla, avviandosi verso una delle bocce di vetro.

Non importava quale nome ci sarebbe stato su quella strisciolina di carta, tanto qualche altra ragazza bramosa di vincere si sarebbe offerta volontaria. Era così da quando aveva memoria, motivo per cui dopo i primi due anni il terrore che aveva provato alla mietitura era stato sostituito dalla noia e dal desiderio di tornare a casa.

«Thyra Volz!» affermò l’accompagnatrice guardando la folla, mentre lo sguardo di Roel si spostava sulla bionda che prima gli aveva strizzato l'occhio.

La osservò camminare con passo insicuro fino ai gradini, salire sul palco e affiancare la donna dai capelli a corno. Se nessuno si fosse offerto – cosa altamente improbabile – avrebbe scommesso tutto sul fatto che Thyra sarebbe morta dopo cinque minuti, magari infilzandosi per sbaglio con una lancia.

«Ci sono volontari?» domandò retorica, e una voce seguita da una mano alzata si levò dal silenzio, precedendo qualsiasi altra.

«Io! Mi offro volontaria come tributo» gridò lasciando Roel con gli occhi spalancati, i muscoli paralizzati: Liv.

 

 

 

 

L’aria non affluiva più ai suoi polmoni come avrebbe dovuto, era come se qualcuno gli avesse appena scaraventato contro un peso da cento chili frantumandogli la cassa toracica.

Voleva gridare, chiamarla e raggiungerla, ma il suo corpo era in uno stato di shock e niente rispondeva più ai suoi comandi.

Una sola domanda non detta sulle labbra schiuse: perché?

Fu un attimo di scompenso, il tempo che lei raggiungesse Thyra sul palco, e poi riuscì a muoversi, a rompere la riga. Ci vollero tre pacificatori per tenerlo fermo e riportarlo al suo posto, tre uomini che lo trascinarono mentre guardava lei sul palco, bellissima nel suo vestito celeste.

Mi dispiace, gli sembrò di vederla mimare con le labbra mentre lui lentamente sprofondava nella disperazione. Non sentì le battute di Calla riguardo al loro giovane amore, non sentì nemmeno Liv ripetere il suo nome – l’unica cosa di cui era conscio era il sangue che gli pompava nelle orecchie.

Poteva offrirsi volontario, poteva andare con lei agli Hunger Games e fare in modo che sopravvivesse fino alla fine… ma poi? Cosa avrebbe fatto quando sarebbero rimasti solo loro due? Suicidarsi e lasciarla vincere non avrebbe risolto le cose, non gli avrebbe dato il matrimonio e la famiglia che da anni progettavano. No, così facendo avrebbe dato a lei la possibilità di vivere e rifarsi una famiglia, ma era troppo egoista per riuscire ad immaginarla fra le braccia di un altro che non l’avrebbe mai amata come avrebbe fatto lui.

Non poteva offrirsi: restando a casa le avrebbe dato l’occasione di vincere e di tornare da lui, a pezzi oppure intera. Non si accorse della seconda estrazione e del secondo volontario, lo vide salire sul palco e basta, non capì nemmeno quale fosse il suo nome, ma non gli importava di lui.

Aveva ancora quella domanda negli occhi: perché?

Il Sindaco lesse il lungo e noioso Trattato del Tradimento mentre lui continuava a fissarla, le iridi verdi puntate su quella bellissima ragazza dai capelli biondi, sulla sua tigre – com’era solito chiamarla.

Sentiva le lacrime pizzicargli gli occhi, la rabbia far sì che il suo stomaco si accartocciasse su se stesso. Perché si era offerta senza dirglielo?

I tributi si strinsero la mano. Suonò l’inno di Panem, e poi la vide sparire dentro il portone del Palazzo di Giustizia.

 

 

 

 

Lasciò che fossero i genitori di Liv i primi ad entrare a salutarla, utilizzando i tre minuti della loro visita per smaltire la rabbia, per non entrare e sputarle addosso tutto quello che sentiva in quel momento – aveva tirato un pugno ad Hoyt, il suo migliore amico, e lo aveva fatto solo perché gli aveva chiesto se sapeva che Liv si sarebbe offerta.

No, non lo sapeva.

Inspirò profondamente stringendo i pugni, aspettando pazientemente il suo turno mentre tentava di riassumere nella sua testa le cose che avrebbe voluto dirle. Gridarle contro era fuori discussione, poteva essere una delle ultime volte in cui l’avrebbe vista e avrebbe potuto parlarle, ma non riuscì a concludere il pensiero che un nodo gli attanagliò la gola, stringendolo in una morsa soffocante. Piangere sarebbe stato come dirle non credo in te, so che morirai e ti sto dicendo addio.

Ma lei non sarebbe morta, non poteva morire.

Vide la madre di Liv uscire con gli occhi lucidi, il padre le stringeva dolcemente le spalle mentre l’accompagnava fuori. Era una donna forte, e Liv aveva preso da lei.

Un attimo di lucidità lo investì, e in quel momento capì perché lo aveva fatto, perché aveva alzato la mano ed era salita su quel palco: voleva vincere, voleva dimostrare ai suoi genitori che valeva qualcosa. Dopotutto era stato lui a dirle che avrebbe potuto vincere, le aveva dato la speranza che la sua famiglia non sembrava avere, ed ora ne avrebbe pagato le conseguenze.

Toccava a lui.

I pacificatori lo scortarono fino alla porta e, una volta entrato, finalmente la vide – sembrava un angelo con quel vestitino e i capelli biondi ad incorniciarle il viso, ma non trovò la forza di parlare.

Tre minuti erano troppo pochi.

Non disse nulla, la strinse al petto strattonandola per il polso, riscoprendosi a tremare come un bambino terrorizzato da un incubo, l’unica differenza era che lui non aveva la certezza che tutto ciò che aveva vissuto fino a qualche attimo prima non era realmente accaduto.

«Liv…» mormorò piano lasciandole un bacio fra i capelli, invitandola poi ad alzare il viso.
Non era lei quella spaventata fra i due.

«Io so che puoi farcela, ricordati quello che ti ho insegnato» le sussurrò con la voce che vibrava un poco, accarezzandole le labbra con le sue.

Doveva tornare da lui, solo questo. Chiedeva troppo? Forse.

Due minuti e i pacificatori sarebbero tornati.

Solo due minuti, quante cose si possono fare in due minuti?

La ragazza annuì passandogli le dita fra i capelli, catturando poi la sua bocca in un bacio lento e straziante – o forse così era sembrato a lui.

Quando si separarono lei lo guardò negli occhi portando lentamente le dita dietro il collo, sfilando la catenina che le adornava la gola «Tienila tu, non voglio che me la sequestrino perché pensino che ci abbia nascosto un’arma» gli disse facendo ciondolare la piccola pietruzza azzurra.

Roel la guardò con l’aria distrutta – era stato lui a dargliela, avrebbe voluto che la tenesse con sé durante le settimane alla capitale, ma era anche vero che avrebbero potuto  portargliela via prima dell’ascesa nell’arena. Allungò una mano a recuperare la collana, stringendola piano nel pugno «Te la ridarò quando sarai tornata…» sussurrò passandole le dita fra i capelli.

Avevano poco tempo, troppo poco.

«Resta con i favoriti ma non ti fidare di nessuno, e cerca di farti venire in mente qualcosa per piacere al pubblico…» era un consiglio, l’ultimo, probabilmente banale e scontato, ma non gli veniva nient’altro «… anche se a Capitol City ti adoreranno, dopotutto sei splendida» concluse con un mezzo sorriso.

Sessanta secondi.

Il tempo scorre troppo in fretta quando hai un mare di cose da dire e fare, e lui voleva dirle che l’avrebbe aspettata, che l’amava come nessuno avrebbe mai potuto fare, e come avrebbe mai potuto amare nessun’altra.

La baciò ancora, conscio che quella sarebbe davvero potuta essere l’ultima volta in cui le sue braccia la stringevano – pensarlo faceva male, ma gli Hunger Games sono questo, dopotutto.
«Ti amo, ma questo già lo sai…» fu l’ultima cosa che le disse prima che i pacificatori lo strappassero da lei con la forza, chiudendo con un colpo secco la porta, separandoli per sempre.

 

 

 

Aveva ripreso a piovere.

Roel fissò per qualche istante la catenina che teneva sul palmo, trovando poi la forza di mettersela al collo. L’immagine di Liv gli si stampò nella mente, la collana troppo lunga che si nascondeva perfettamente nell’incavo fra i seni, vicino allo sterno… vicino al cuore.

A lui il ciondolo arrivava un po’ più in alto.

Sorrise. Un sorriso triste mentre alzava lo sguardo al cielo, lasciando che le stille d’acqua gli rigassero il viso, imitando le lacrime che ancora non era riuscito a versare.

Senza di lei non era niente, non avrebbe sopportato nemmeno il suono della pioggia.

 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NdA;

 

Sono sempre io, sì.

Questo lungo delirio è chiaramente uno spin-off di Die on the front page, just  like the stars scritto/diretto/interpretato(?) dalla mia amata radioactive.

È la mietitura della piccola Liv vissuta dal punto di vista di Roel, il suo fidanzato, nonché tributo negli Hunger Games dell’anno successivo che potete trovare in I’m frozen to the bones.

Per il resto non ho nulla da dire, scriverla mi ha arrecato dolore, ma va bene. Supererò questo momento. Niente, spero che a radioactive sia piaciuta almeno un po’, ma boh. Ecco.

Il titolo è una frase di una canzone di Woodkid( ma va?) e… niente.


Sparisco, ciao.

 

~yingsu.

   
 
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