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Autore: Haesbich    16/10/2013    3 recensioni
Non chiedetemi da dove mi sia uscita, non ne ho idea.
E' una fanfiction senza pretese, una YunJae ispirata dalla canzone Sunny Day - meravigliosa - e la cui trama verte attorno ad essa.
A voi la lettura.
Genere: Fluff, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jaejoong
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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RATING: Verde

PAIRING: YunJae

GENERE: Fluff, Romantico, Sentimentale, Song fic

AVVERIMENTI: Un po' di inevitabile OOC

DISCLAIMER: I due soggetti non mi appartengono; scritto assolutamente non a scopo di lucro.

NOTE: Ehrr, sì, consiglio di leggerla ascoltando la nuova canzone di JaeJoong e di guardare il video che una fan spietata ha fatto apposta per le YunJae shipper, giusto per farci annegare nei feels.
Beh, buona lettura.
Haesbich.


A Sara, perché teoricamente sarebbe dovuta essere il suo regalo. ♥

Summer and winter

Ci ha provato, a lasciarlo andare.
Ci ha provato davvero a smettere di scrivergli, ma ogni volta che i giorni passavano il dolore si faceva impressionante, la nostalgia lancinante gli rendeva gli occhi lucidi. Il pensiero di ciò che aveva perso lo portava a cercarlo di nuovo, ancora e ancora, senza trovare la forza di lasciarlo indietro.
Usciva per strada, si guardava attorno e trovava cartelloni che pubblicizzavano il suo nuovo tour, il suo sorriso su ogni palazzo, i suoi occhi che lo seguivano qualsiasi via prendesse.
Si ritrovava di nuovo circondato da lui, di nuovo sommerso dai ricordi che non lo avevano mai lasciato e allora prendeva il cellulare e rispondeva ai messaggi che aveva ricevuto, strizzando gli occhi per evitare che il sole sul display gli impedisse di vedere cosa stava digitando.

"Mi manchi."

E ogni volta la risposta non tardava ad arrivare e insospettabilmente lui non era mai arrabbiato, non lo accusava mai.
Lo capiva, lo comprendeva, gli parlava e cercava di rendergli il sorriso raccontandogli tutto ancora prima che gli ponesse tutte le domande che gli vorticavano in testa.
Parlava a ruota libera e lui poteva immaginarlo benissimo: il suo sorriso, il modo in cui strizzava appena gli occhi quando rideva - gettando all'indietro il capo e piegandosi poi in avanti, coprendosi la bocca quando era ormai troppo tardi -, la sua gestualità a volte esagerata. A volte fin troppo posata.
Ricordava tutto, ogni dettaglio era impresso nella sua mente, ogni immagine era nitida come se l'avesse davanti. Solo che il suo viso non cambiava mai: era quello del ragazzo di tre anni prima, quello del suo ragazzo.
Ogni volta passa troppo tempo prima che lui trovi il coraggio di cercarlo, di accettare che ancora non è acqua passata, che ancora il suo cuore manca un battito a vedere il suo nome sotto il simbolo del messaggio, a sentire la canzone associata alla sua chiamata.
Ogni volta è un tuffo al cuore, una morsa troppo forte e che non riesce a lasciarlo libero.
Ogni volta si ritrova a sperare in un caso, in una coincidenza che lo riporti da lui, che li faccia incontrare lontano da un palco o dalle occasioni che gli altri programmano per loro; lontano dai luoghi in cui lui lo invita e in cui non ha mai il coraggio di andare perché sa che se lo facesse non si allontanerebbe più.
Passeggia nei luoghi che l'altro è solito frequentare e ogni volta è impeccabile, sicuro che quella sia la volta buona, che si vedranno di nuovo e lo affiancherà continuando a passeggiare al suo fianco, raccontandogli della sua vita, avvolgendolo con la sua sciarpa per non fargli prendere freddo, parlandogli con quella sua voce così dolce, così diversa quando lontana dai filtri del telefono.
Lo desidera. Lo desidera con tutto se stesso, ma sperare non basta, provare non basta.
Dovrebbe prendere il coraggio a due mani e fermarsi ad aspettare, dovrebbe smettere di provare a fuggire anche quando tenta di andargli incontro, imboccando le vie che sa lui non prenderà, vicine abbastanza da fargli sentire la sua presenza mentre sente il suo sguardo addosso dai cartelloni.
Deve lasciarlo andare, deve smettere di cercarlo, di desiderarlo.
Se lo ripete ogni giorno, provando a convincersene.
Cerca di non guardare il cellulare, di evitare il più possibile i programmi in cui è ospite, di sentire meno notizie possibili, ma è difficile; così maledettamente difficile.
Anche non volendolo tutto gli parla di lui perché ogni cosa è un ricordo, ogni cosa è riconducibile a lui.
E' ovunque, è in ogni cosa, in ogni luogo, e lui sa benissimo che la colpa non è dei cartelloni né delle canzoni che mandano alla radio, né dei suoi omonimi.
No, la colpa è solo dei ricordi che popolano la sua mente, che proiettano la sua immagine in ogni angolo della strada.
Qui è dove sono andati la prima volta che sono usciti insieme, solo loro due.
Lì è dove l'ha aiutato a pulirsi quando si era macchiato con il caffé.
Quello è il tatuatore da cui sono andati insieme perché, nonostante tutto, lui aveva bisogno di averlo vicino mentre l'inchiostro gli scriveva la sua storia sulla pelle.
Ecco, lui è come un tatuaggio, indelebile perché penetrato troppo a fondo.
Se lo sente sulla pelle, sottopelle.
Non ha più importanza cosa guarda, dove va, quel ragazzo è sempre con lui, anche se non c'è, anche se gli altri non possono vederlo, anche se gli altri non sanno la metà delle cose che pensa.
I suoi amici lo guardano, pensano sia distratto, ma non è così: è perso in un mondo solo suo, nei ricordi di loro che gli causano una strana tristezza mista a felicità.
C'è una definizione, per questo, una parola brasiliana.
Saudade è quella particolare specie di malinconia che si prova quando si è o si è stati molto felici, quando nell'allegria si insinua un sottile sapore di amaro.

Saudade è quello che prova lui quando lo pensa.
Non è solo nostalgia, non è rimpianto, è una gioia dal sapore amaro, una spina in un cuore altrimenti felice. E' la nostalgia dei ricordi felici che non possono tornare.
Dovrebbe lasciar perdere, dovrebbe smetterla di pensarci e per farlo prende la giacca ed esce, affondando le mani nelle tasche dei pantaloni e tenendo lo sguardo fisso a terra e le cuffiette dell'iPod nelle orecchie.
Il sole è timido, un residuo d'estate in un autunno che sta lasciando rapidamente il posto ad un inverno rigido. L'odore della neve gli punge il naso, il freddo lo convince a stringersi maggiormente nella giacca e a sollevarne il bavero per proteggere il collo nudo mentre si ferma, maledicendosi, davanti a un cartellone particolarmente grande che lo raffigura.
Lo guarda, guarda quel sorriso che sentiva sbocciare sotto le proprie dita, guarda quegli occhi che vedeva accendersi di gioia solo per lui, guarda i lineamenti spigolosi di quel volto, maschili, piacevoli, così diversi dai suoi, e finge che le lacrime che sente pizzicargli gli occhi siano dovute al freddo o alla canzone che sta passando in quel momento.
Finge che non sia colpa della maledetta saudade, che non sia la convinzione che non lo avrà mai più a fargli versare lacrime amare, che non sia la leggera consolazione di averlo quantomeno avuto nel passato, perché forse è vero che si è più infelici quando si sa cosa si perde, cosa ci si lascia alle spalle, quando si ricorda il sapore dei baci rubati.

La rabbia, la nostalgia, il desiderio lo travolgono, un singhiozzo leggero gli squassa il petto, facendolo tremare, poi un profumo familiare e la sofficità della lana che gli viene drappeggiata attorno al collo.

«Speravo di trovarti qui.»

JaeJoong non ha bisogno di girarsi per sapere chi c'è dietro di lui. In qualche istante YunHo gli si mette accanto.
Con la coda dell'occhio può vedere il suo viso, con il cuore può capire che vederlo cambiato gli fa male.
Sembra ancora più spigoloso, quel volto, ancora più maturo.
YunHo lo guarda, JaeJoong continua a guardare il cartellone per non affrontare i suoi occhi scuri, per non vedere che la luce in essi è cambiata. Non potrebbe sopportarlo, non riuscirebbe a tollerarlo.
Non era pronto ad affrontarlo, non stavolta, eppure ha aspettato, eppure si è fermato e ha smesso di sfuggire, di fuggire dalle immagini, dalla sua voce, dalle sue parole.
Resta fermo, rigido, una mano che stringe l'iPod nella tasca, l'altra che dal bavero della giacca si è spostata in modo da far affondare le dita nella lana, da artigliarla.
'Resta qui', sembrano urlare le sue dita affondate fra i punti a maglia.

«Hyung...»

La voce di YunHo è sempre la stessa, non sembra invecchiata di un giorno.

«Guardami...»

Glielo soffia come quando stavano insieme, come dopo il loro primo bacio.
JaeJoong lo ricorda ancora. L'euforia, l'abbraccio che gli aveva dato e il modo in cui si era fiondato sulle labbra del più piccolo, deciso, famelico, per poi allontanarsene imbarazzato, abbassando il viso.
“Guardami”, aveva detto quella volta, e anche questa, come allora, non riesce a fare a meno di obbedire.
Si gira, fissa gli occhi scuri in quelli di lui.
Oh, il suo viso, il suo sguardo, la piega di quelle maledette labbra.
La mano abbandona la sciarpa per appoggiarsi sulla sua guancia, senza che riesca a farne a meno, senza che se ne renda conto. Le dita scorrono lungo il profilo della mascella, risalgono lo zigomo, carezzano delicate le gote ruvide, gli zigomi, cercando di riappropriarsi del viso di quell'uomo che gli è tanto familiare. La mano si ferma, il pollice che si ostina a disegnare piccoli cerchi, l'indice che sfiora il lobo dell'orecchio.

«Scusa... Scusa se ho fatto così.»

La voce gli si spezza mentre sussurra quelle parole, ma YunHo sorride. Sorride e passa un braccio attorno alla sua vita, la fronte che si poggia contro la sua.

«Shh, non importa. Ti stavo aspettando. Ti amo, ti amo ancora.»

«Ti amo anch'io.»

E stavolta, mentre le bocche si trovano - incuranti della gente che li guarda, delle foto che le fan scattano, delle persone che li urtano passando -, JaeJoong è certo che YunHo sceglierebbe lui e non la carriera.
E' certo che saranno per sempre, estate e inverno che hanno la loro nuova primavera.

   
 
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