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Autore: Lori_Tommo96    18/10/2013    3 recensioni
Quindi lo lascerai andare così? Ero pronta al rifiuto, pronta a dire addio per sempre a quello che eravamo stati, ma non ero assolutamente preparata alle sue mani calde e accoglienti che mi presero il viso, alla sua lingua dolce che si insediò tra le mie labbra chiedendo l’accesso alla mia bocca.
Mi stava baciando e lo stava facendo come nessuno lo aveva mai fatto prima.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Care lettrici,
innanzitutto un grazie speciale a tutte coloro che hanno inserito questa storia tra le seguite/preferite/ricordate e per le visite così numerose.
E’ la mia prima storia e per me ricevere le vostre recensioni così belle è qualcosa di nuovo e molto appagante, in quanto non pensavo realmente che qualcuno potesse affezionarsi a Red Dress.
Siamo agli sgoccioli però, ai capitoli finali.
Abbiate ancora un po’ di pazienza, non mi abbandonate proprio all’ultimo e continuate a recensire/seguire la storia!
Grazie ancora, dal cuore, soprattutto alla mia fan numero uno: Ga_DjMalik, non finirò mai di ringraziarti per avermi convinta a pubblicare.
Detto ciò, 
Buona lettura a tutti!
 
 
 
Martedì. Erano passati due soli giorni e io stavo varcando la porta di casa mia, il braccio legato al collo con un foulard grigiastro, il gesso che pesava fastidiosamente e la mano avvolta da bende che sembrava non fare parte del mio corpo. Avrei giurato che fosse così, che sotto quell’involucro bianco non ci fosse veramente la mia mano, se non fosse stato per le fitte che mi procurava.
Era stato un viavai continuo all’ospedale il giorno prima: compagni di scuola, Hope, Mike, i miei nonni, mia cugina Ruth, anche Gemma e Anne.
Faceva male vedere Anne così premurosa nei miei confronti quando mia madre non si era risparmiata dal disprezzare Harry con tutta sé stessa.
Lui non aveva lasciato un secondo il mio fianco sinistro: anche se lo avevo cacciato era ritornato un’oretta dopo, da solo, con in mano due cappuccini caldi.
E mi ero insultata da morire per avergli urlato contro così duramente. In meno di quarantotto ore Harry mi dimostrò ancora una volta che ragazzo fantastico fosse.
Si era lasciato accusare da mia madre per l’accaduto senza battere ciglio (Cindy me l’aveva confessato in uno dei pochi momenti in cui lui non era nella stanza), mi aveva tenuto compagnia per delle ore intere senza mai alzarsi da quella sedia, non trattandomi nemmeno una volta come facevano tutti gli altri, che provavano pena, che mi chiedevano ogni cinque secondi come mi sentissi, costringendomi a rispondere “bene”, anche se avrei voluto urlare il contrario. Harry, nonostante la mia apatia, non mi lasciò per un attimo. Lui sapeva che era inutile chiedere, inutile parlarmene, così si limitava a farmi chiacchierare di altro, riuscendo perfino a non farmi pensare alcune volte, ma in cambio da me non riceveva nulla.
Mi dispiaceva non riuscire ad esprimere a parole la gratitudine nei suoi confronti, ma, sul serio, non ero in grado di reagire all’accaduto in nessun modo, se non in quello sbagliato.
Ogni qual volta cercavo di convincermi che sarebbe tutto tornato normale, con il tempo certo, pensavo ai miei esami per entrare all’accademia. Non avrei potuto darli, i miei mesi di sacrificio e lavoro erano stati inutili: niente più piano, niente più borsa di studio.
Provavo rabbia, nervoso, voglia di spaccare tutto, non riuscivo a farmi una ragione dell’accaduto e diventai fredda, scostante, apatica e perennemente incazzata col mondo.
Con queste sensazioni a corrodermi, misi piede in casa mia, accompagnata da Cindy e Hope, che era appena tornata da scuola e si era offerta di rimanere un po’ con me.
Harry sarebbe ripartito il giorno seguente e in quel momento, alle due di pomeriggio, stava probabilmente attaccato al cellulare a sistemare i suoi impegni di lavoro.
Gli avevo detto di andarsi a riposare un po’, ma sapevo che non l’avrebbe fatto nonostante trasudasse stanchezza da tutti i pori. La sua vita era una continua frenesia e aveva spento volutamente il cellulare nei tempo trascorso con me in ospedale, per rimandare a un altro momento le chiamate e gli impegni che lo assillavano.
Salii le scale alla svelta, non rivolgendo di proposito lo sguardo verso il soggiorno, seguita da Hope che accelerò a sua volta il passo. Arrivai in camera e mi sdraiai sul letto, avvolta di nuovo nella mia bolla apatica che mi circondava da due giorni. Hope si fermò sullo stipite della porta. Conoscevo quello sguardo, quando la mia amica biondina faceva quella smorfia significava solo una cosa: rimproveri in arrivo.
“Non vorrai mica che dopo venga Harry qui e ti trovi in questo stato vero? Con quella faccia a funerale! Adesso ti alzi” ordinò avvicinandosi al letto “vieni con me in bagno” mi tirò per il braccio sano e mi costrinse a seguirla strappandomi un mugolio “e ti dai una bella sistemata”.
Mi stupii ancora una volta della grinta di quel corpicino. Il suo tono non era severo, ma non ammetteva repliche. Mi ritrovai rinchiusa nel bagno con l’ordine tassativo di “farmi bella”.
Appena realizzai che sarebbe stato impossibile entrare nella doccia con il gesso al braccio e una mano totalmente inutilizzabile, sospirai affranta e riempii la vasca di acqua calda.
Lavarsi fu peggio che combattere una guerra mondiale. Le abrasioni che mi erano rimaste sul viso e sulle ginocchia bruciavano, il braccio dolorante lo misi al sicuro dall’acqua appoggiandolo sul bordo della vasca e feci una fatica immensa a insaponarmi, sciacquarmi e asciugarmi con un solo arto a disposizione, rinunciando in partenza all’idea di lavarmi i capelli.
Finito il mio bagno, cercai disperatamente di ignorare il mio mal di schiena e scesi a cercare Hope. Mi si gelò il sangue quando arrivai al piano di sotto. Non feci caso alla mia amica che mi invitò a sedermi accanto a lei sul divano per sfogliare insieme la nostra rivista preferita, non mi accorsi di mio padre, seduto in poltrona, che mi chiese se avevo bisogno di un antidolorifico, semplicemente guardai il mio adorato piano e mi sentii perforare da una lama, da parte a parte.
Stavo per crollare di nuovo, ma Hope non mi lasciò il tempo di pensare. In un attimo fu al mio fianco, mi trascinò con lei sul divano e cominciò a parlare senza sosta di alcuni attori che spuntavano dalla rivista.
Rimanemmo da sole in casa. Mio padre uscì per il lavoro, mia madre andò a fare spesa e mia sorella sparì semplicemente fuori dalla porta, senza dare spiegazioni
Hope, dopo svariati tentativi, riuscì perfino a farmi sorridere, come succedeva ogni volta che aprivamo quel giornaletto stupido.
“Un test che rivela se il tuo stile è vintage, retrò, da Holliwood’s star o casual” lesse ad alta voce la mia amica, non trattenendo un risolino divertito.
“Andiamo, si vede no che sono una star di Holliwood no?” ironizzai, ridendo a mia volta.
“Certo come no! E il fidanzato famoso non ti manca”
Hope mi fece l’occhiolino e si prese una leggera pacca sul ginocchio come risposta.
In quel momento il campanello suonò. Lei si alzò prima di me.
“Vado io!” annunciò, saltellando verso l’ingresso.
“Oh Harry, stavamo giusto parlando di te!” cinguettò.
Sentii quelle parole e, di colpo, scattai in piedi.
Aveva avuto il coraggio di bussare con il rischio che aprisse mia madre, non curandosene per nulla, tipico di Harry.
Raggiunsi l’ingresso e vidi il mio riccio preferito appoggiato allo stipite della porta. Bello, bello da mozzare il fiato anche solo con una t-shirt bianca e un paio di jeans.
“Cosa stavate dicendo di interessante che mi riguarda?” chiese ammiccando nella mia direzione.
Era impressionante come, dopo due giorni in cui a malapena riuscivo a rivolgergli la parola in maniera gentile, lui non si fosse per nulla irritato; capiva meglio di chiunque la situazione e questo mi portava ad amarlo ancora di più, nonostante una parte del mio ego non voleva che se ne tornasse via, che continuasse a vivere il suo sogno, cantare, mentre il mio dei sogni era stato spazzato via da un ubriaco alla guida. La verità? Ero invidiosa, arrabbiata, pretendevo egoisticamente che lui mi stesse accanto invece di continuare a vivere la sua vita. Avevo torto a comportarmi così, lo sapevo, e solo il mio amore nei suoi confronti riuscirono a farmi mantenere la lucidità, a non sputargli in faccia ciò che avevo dentro.
Gli sorrisi in modo beffardo e mi avvicinai alla porta.
“Stavamo commentando qualche bel fisico scolpito su un giornale, sedute comodamente sul divano” lo provocai.
“Scusate se vi ho interrotto allora, posso andarmene” tentò di allontanarsi, ma Hope lo fermò.
“Tu non vai da nessuna parte, sono io quella che se ne và. Ciao piccioncini!” ci salutò saltellando fuori da casa mia. Anche io volevo che Harry rimanesse, ma non era necessario che Hope se ne andasse, così “Non serve che vai” annunciai, facendola voltare.
“Sarei andata comunque, Mike mi aspetta al solito bar. Statemi bene” detto ciò si incamminò voltandoci le spalle.
Guardai la figura di Hope allontanarsi mentre una mano calda si posò sul mio viso, molto vicino a un’escoriazione che avevo su uno zigomo, perciò sussultai.
Harry mi guardò spaventato.
“Scusa, ti ho fatto male?” la sua voce roca un po’ impaurita mi fece tenerezza.
“No, figurati. Vieni dentro” lo invitai, facendomi da parte.
“C’è tua madre? Perché già ho rischiato una porta in faccia quando ho bussato, non vorrei prendere in testa qualche pentola” scherzò e mi strappò una risatina.
“No scemo, siamo soli!”
La mia affermazione lo fece sorridere, con il suo sorriso enigmatico e sensuale.
Entrò finalmente in casa e si chiuse la porta alle spalle.
Si chinò verso un mio orecchio e, con quella voce che mi faceva perdere la testa, sussurrò: “Per soli, intendi che non che non c’è proprio nessuno?”
Una scossa elettrica, potentissima, mi attraversò. Deglutii a fatica e annuii.
In un secondo mi ritrovai sollevata da terra da due braccia forti. Gemetti perché il mio corpo era ancora indolenzito, forse troppo, ma con un gesto meccanico attorcigliai le mie gambe attorno alla sua vita. Harry si accorse della mia smorfia di dolore.
“Devo ricordarmi che sei stata investita da un’auto, imponimi di ricordarmelo” proferì serio.
Non ebbi tempo di annuire, che si avventò sulle mie labbra, per poi salire al piano di sopra.
Sapevo che sarebbe stato delicato in ciò che stava per fare, quello di cui non ero certa era se avrei  comunque resistito. Già da quella posizione sentivo dei dolori insopportabili alla schiena e il braccio mi faceva male, un male cane.
Mi pentii di non avere accettato un antidolorifico da mio padre.
Il mio corpo implorava pietà, ma allo stesso tempo avevo voglia di Harry, soprattutto sapendo che non l’avrei visto per un po’.
Lui non sembrò accorgersi della mia espressione dolorante, aprì la porta della mia stanza, la richiuse alle sue spalle con notevole agilità e mi adagiò piano sul letto, si tolse le scarpe e lo stesso fece con le mie, poi si posizionò sopra di me.
Incrociai i suoi occhi pieni di eccitazione, la sentivo, la percepivo chiaramente, non solo dal suo sguardo.  
In quell’istante feci forza a me stessa: non dovevo rovinare quel momento, dopo quei tre giorni infernali ce lo meritavamo in fin dei conti, lui soprattutto.
Harry non fece gravare troppo il suo peso sul mio facendo leva sulle sue braccia, e mi baciò ovunque, lievemente, come se fossi fatta di cristallo.
Sul mio viso c’erano ancora dei segni evidenti di quello che mi era successo, ma lui li schivò con cura, non sfiorandoli mai. Volevo ricambiare quelle attenzioni, così con il braccio sano cominciai a sfiorargli il petto, da sopra la maglietta fin troppo fine.
Harry pensò bene di togliersela, lasciandomi ancora una volta ammaliata dalla sua bellezza. Ripresi ad accarezzare quel corpo, prima il tatuaggio delle rondini sul petto poi quello della farfalla sull’addome. Lo sentii rabbrividire e feci un sorrisino soddisfatto: ancora non mi capacitavo di come potessi avere quell’effetto su di lui.
Prese ad armeggiare con i miei jeans, togliendoli in una sola mossa. Mi fece stringere i denti. Le mie ginocchia erano sbucciate, probabilmente in seguito alla mia caduta rovinosa a terra, e bruciavano. Harry si accorse di avermi procurato dolore e mi baciò subito.
“Scusa” un bacio “scusami” un altro bacio.
“N-non importa. Non fermarti” azzardai a dire, nonostante anche il mio braccio mi implorasse di alzarmi, andare in bagno e prendere qualcosa di calmante dal mobiletto dei medicinali.
Ignorai le richieste del mio corpo e con la mano destra cercai di sganciare la cintura dei suoi pantaloni.
Ogni tentativo fu vano, così Harry mi aiutò, sorridendomi dolcemente prima di stamparmi un altro bacio. Avevo tanta voglia di lui quanta ne avevo di piangere e mettermi a gridare.
Ribaltò le posizioni con poca grazia. Dolore alla schiena, al braccio, ovunque.
Ancora una volta mi imposi di non farci caso, ma quando le sue mani andarono a sfilarmi la maglietta, facendomi sollevare le braccia in un movimento troppo azzardato della mano e della schiena, che si inarcò, cacciai un grido.
Harry lasciò il tessuto, che ricadde sul mio corpo, per poi guardarmi con aria preoccupata.
Abbassai lo sguardo e con la mano sana andai a massaggiarmi la schiena che mi dava delle fitte insopportabili.
“Giuli, basta così,forse è meglio…”
“No cazzo!” urlai “Io voglio averti, almeno una volta, prima che te ne vada! Perché tu tra poche ore te ne andrai giusto? E io rimarrò più sola di come mi sentivo le altre volte!”
Mi scostai dal suo corpo, alzandomi in piedi.
Le lacrime cominciarono a scendere incontrollate, il dolore alla mano si amplificò e il mio cuore subì un altro durissimo colpo quando mi accorsi che Harry mi stava guardando sconvolto. Ancora una volta gli avevo urlato contro, me l’ero presa con lui di nuovo.
Mi sedetti in fondo al letto e mi lasciai trasportare dai singhiozzi, pregando che Harry si smaterializzasse e non mi vedesse piangere così.
Invece lui c’era. Si alzò in piedi, si chinò davanti a me che tenevo la testa bassa e mi prese la mano, l’unica che poteva stringere.
“Lo so che non stai piangendo solo perché non faremo l’amore oggi pomeriggio. Non ti dico di smettere di piangere perché è inutile, quindi sfogati finché hai bisogno, ma non te la prendere con me, perché io non riesco a capire cos’hai nei miei confronti da essere così fredda e distaccata.”
Mi lasciò la mano e riprese, alzando la voce “Anche a me sai sarebbe piaciuto averti, ma non per farmi una sana scopata, ma perché in questi due giorni non avevo più avuto l’onore di essere trattato con dolcezza da te!”
Il suo tono era fermo e la sua espressione irritata. Le sue parole, così tremendamente vere, mi fecero capire che se avessi continuato a rovinare i pochi momenti che avevamo a disposizione per noi due, prima con le mie scenate di gelosia e le continue lamentele, poi con quello che mi era capitato, avrei finito per perderlo.
Il senso di colpa mi attanagliò il ventre. No, io forse non era giusto che vivessi quella situazione di merda, ma nemmeno Harry meritava il mio modo di fare.
Volevo chiedergli scusa, abbracciarlo, ma rimasi immobile. Era ancora chinato davanti a me, lui per terra e io seduta sul letto, lui senza maglia e io senza jeans, quando parlò di nuovo.
“Ti ho vista finire contro quel guard rail, ho visto il sangue e… quando sei svenuta pensavo…” la voce di Harry si spezzò e allora lo guardai. Era terrorizzato al ricordo, aveva avuto paura di perdermi, invece io ero tanto egoista da non accorgermi del suo amore nei miei confronti, di come, inevitabilmente, stavo rovinando tutto tra noi. Avevo giurato a me stessa che non sarebbe successo.
Lo avevo fatto piangere per colpa delle mie insicurezze, mi rimasto accanto in una tristissima camera di ospedale per ore e ore, e io? Lo avevo trattato come poco più di un conoscente, urlandogli persino contro.
Stupida. Ero una stupida egoista. Lo capii solo in quell’istante quando vidi i suoi occhi spegnersi.
Era stufo della situazione, visibilmente, e tramavo al pensiero che potesse essere stanco anche di me.
Gli presi il polso e lo tirai verso il mio corpo, costringendolo ad alzarsi e alzandomi a mia volta.
Lo abbracciai come potevo, con un solo braccio, e affondai il viso sul suo petto caldo, sulla sua pelle morbida. In quel momento il dolore fisico passò in secondo piano, perché mi accorsi che Harry se ne stava immobile, non accennando a ricambiare la stretta.
“Scusami” singhiozzai “Sono stata una stronza egoista in questi giorni. Hai passato una pausa dai concerti di merda ed è solo colpa mia, prima ti ho assillato con le mie paranoie, poi è successo tutto questo casino e ti ho anche trattato male” alzai la testa dal suo petto e cercai il suo sguardo.
Lo trovai e avrei preferito non vederlo. Era deluso, ma non arrabbiato e questo in parte mi sollevò, in parte mi fece sentire ancora più in colpa.
Gli accarezzai il viso più e più volte, il silenzio tra noi stava diventando insopportabile quasi come la sua immobilità: era più fermo di una statua, probabilmente incerto su cosa dire.
“Dimmi qualcosa” lo supplicai “insultami pure, ma dimmi qualcosa”.
Un sospiro. Lo conoscevo bene, Harry era una persona paziente, ma quando si arrabbiava sapeva essere autoritario ed era capace di tenere il broncio per dei giorni, quindi se avesse voluto insultarmi o urlarmi dietro, sarebbe già successo prima.
“Mi dispiace soltanto andare via. Dopo questi giorni incasinati ci avrebbe fatto bene rimanere un po’ di più insieme, perché ho paura che se domani me ne vado tu potresti… noi…”
Trasalii e gli chiusi la bocca con due dita impedendogli di concludere quella frase dannata che mi fece tremare.
“Non lo dire neanche per scherzo Styles!” affermai senza vacillare.
Harry mi strinse a sé, finalmente.
“Beh, io devo chiarire tutta questa faccenda, ma se tu mi schivi non risolveremo niente. Quindi possiamo parlare?” chiese dolcemente.
Soffocai una risatina contro il suo petto.
“Che c’è?” domandò confuso.
“Niente, so che adesso non avresti voluto parlare e mi dispiace anche per questo” bofonchiai arrossendo parecchio.
Harry sfoggiò il suo sorriso provocatorio e mezzo pervertito che mi faceva impazzire.
“Ci rifaremo carina, adesso vai a prendere qualcosa per i dolori,  penso che tu ne abbia bisogno. Poi torni qua da me” mi baciò leggermente e anche io mi sentii più leggera, come quel bacio.
“Agli ordini, arrivo subito”.
Mi infilai i jeans facendo attenzione a non farli strusciare troppo sulle ginocchia, uscii dalla stanza diretta verso il bagno. Aprii il mobiletto e presi le gocce più forti che avevamo in casa, per poi catapultarmi da lui, ansiosa di parlargli, di chiarire e di dirgli quanto lo amassi.
Harry mi stava aspettando sul letto, sdraiato comodamente e assorto nei suoi pensieri.
Mio malgrado, si era rimesso la t-shirt. Dovevamo sostenere una conversazione lucidamente, quindi riconobbi che non aveva poi fatto tanto male a rivestirsi.
Mi guardò facendomi segno di affiancarlo. Non me lo feci ripetere e mi strinsi a lui, sopra il mio letto forse troppo piccolo per entrambi, ma che mi dava una buona scusa per avvinghiarmi al mio corpo preferito. Harry mi accarezzava i capelli, aspettando che fossi io a cominciare, com’era giusto che fosse. Presi un bel respiro.
“Non avere te e non poter suonare sarà dura Harry, tanto, ma non voglio giustificarmi per come mi sono comportata” sussurrai giocando distrattamente con un lembo della sua maglietta, senza guardarlo in faccia.
“Sei anche giustificabile invece, non so come avrei reagito io al tuo posto, solo che se perdiamo in questo modo i pochi momenti che abbiamo per noi due non facciamo che peggiorare le cose”
Annuii. Aveva ragione, che altro potevo dirgli? Mi strinsi forte al suo petto sperando che mi dicesse “Non me ne vado Giu, non ti lascio da sola in una casa dove nessuno capirebbe quanto stai male, in un ambiente dove sanno quanto ci tieni ad andare alla Royal e al tuo pianoforte, ma ignorano i tuoi desideri”.
Harry non lo disse ovviamente, perché era inevitabile la sua partenza.
“Devi promettermi che sarai forte da sola però. Devi studiare, prendere il diploma e andare avanti ok? Ci saranno altre occasioni per la musica” disse più serio che mai, baciandomi la fronte.
“Non so cosa c’è sotto queste bende- mi indicai la mano fasciata e il polso ingessato- ma qualcosa mi dice che sarà come ripartire da zero” sospirai.
Harry mi sfiorò la guancia e scosse la testa.
“Sei stata tu un po’ di tempo fa a dirmi che suonare è come andare in bicicletta, o mi sbaglio?” chiese retorico, con un sorriso che avrebbe fatto invidia agli angeli.
In quel momento non ci credevo alle sue parole, non riuscivo ad essere positiva, così azzerai totalmente le preoccupazioni concentrandomi solo su quel sorriso.
Mi persi ad osservare il mio uomo ancora un po’ bambino, con quei capelli arruffati e morbidi, quelle fossette pronunciate e infantili su un viso che di fanciullesco aveva ancora poco.
“Come fai a sopportarmi?” chiesi senza neanche rendermene conto, dando voce a una domanda che mi vagava in testa. Harry mi guardò con aria interrogativa, poi scoppiò a ridere, alleggerendo l’atmosfera.
“Non lo so” scherzò, baciandomi il naso “forse ti amo troppo” concluse.
Non mi sarei mai abituata al suono di quelle due parole pronunciate dalle sue labbra, mai.
Brividi su brividi, stomaco rigirato, cuore che minacciava di esplodere, la sensazione migliore di sempre.
Lo baciai sapendo che non avrei potuto più farlo per un po’, succhiai le sue labbra, avvolsi la mia lingua alla sua e continuai il bacio finché non sentii il fiatone, fin quando il mio fisico non ne ebbe abbastanza, perché per il mio animo era impossibile averne troppo di lui, non c’era una portata massima per Harry Styles dentro di me.
Non servì pronunciare un banalissimo “anche io” per fargli capire che era così e che lo sarebbe sempre stato, solo dovevo lottare, ancora e ancora, perché i problemi non si erano risolti ma quadruplicati. Ma finché lui mi avrebbe baciata in quel modo, avrei affrontato tutto senza fiatare. 
  
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