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Autore: sleepingwithghosts    20/10/2013    6 recensioni
(...) mi ripetete come, di preciso, riusciremo a scovare Jared, Shannon e Tomo?»
Una malsana idea nata subito dopo aver visto Artifact. Tre amiche che partono alla ricerca dei loro eroi, prendendo un volo last minute per Los Angeles e che finiranno per mangiare tante ciambelle, questo è sicuro. Ma li incontreranno? Ci riusciranno davvero? Che l'avventura abbia inizio.
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Tomo Miličević, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Ho il culo quadrato», mi lamento. Cinque ore fa mi sono seduta su questa poltrona e non avuto ancora l’occasione di alzarmi per sgranchirmi le gambe. Ho davanti a me la quarta tazza di caffè americano, un giornale con le notizie internazionali e il libro di letteratura inglese sottolineato in modo disordinato. Sfrutto il tempo tra un’occhiata e l’altra fuori dalle vetrine del locale per prepararmi all’università che incombe su di me. Corso di scrittura creativa e video montaggio, a Londra, fra due mesi scarsi.

«Novità?», mi chiede Rain dall’altro capo del telefono.

«Nessuna, come ieri e come l’altro ieri», sbuffo. Ci siamo date dei turni per goderci la città e contemporaneamente tenere d’occhio la casa. Oggi il Grande Compito tocca a me, sola soletta. Credo che tra un po’ attaccherò bottone con qualcuno, un qualcuno a caso, perché l’unica parola che ho pronunciato da questa mattina è stata “thanks”, quattro volte, al cameriere. «Voi dove siete?»

«Stiamo arrivando», riaggancia.

Svuoto la tazza di caffè sotto lo sguardo divertito del cameriere che, velocemente, rispettando un tacito accordo che sembriamo aver stretto, cammina verso di me, e la riempie di nuovo. Gli sorriso grata, mi alzo, e mi dirigo verso il bagno. L’immagine che lo specchio sopra il lavandino mi rimanda è davvero, davvero, terribile. Il poco sonno, l’eccesso di caffeina in corpo e l’essermi dimenticata in camera gli occhiali, hanno fatto spuntare delle occhiaie mostruose sotto gli occhi. Per non parlare dei capelli, che non sembrano capelli ma un nido di vespe, e dei vestiti, stropicciati perché a quanto pare, nel motel, il ferro da stiro non è in dotazione della camera. Mi sciacquo il viso con dell’acqua fredda, sistemo il trucco sbavato e mi pizzico le guance per ridarci un colore sano e naturale. Torno in sala e un particolare mi salta all’occhio, quando, d’abitudine, guardo fuori dalle vetrate: il cancello elettrico del The Hive che si chiude con un tonfo.

Sbianco, e addio a tutta la fatica che ho fatto per ridarmi un po’di contegno. Sento proprio la vita che mi scivola via. È possibile che, negli unici cinque minuti che mi assento da quella poltrona blu che ormai è diventata la mia migliore amica, succeda qualcosa di così importante?

Mi avvio verso il bancone e con la voce alterata e l’inglese che diventa difficilissimo da parlare chiedo «Scusami», lancio un’occhiata al cartellino con il nome che il cameriere ha appuntato sulla camicia nera «scusa Joe, per caso è appena entrato o uscito qualcuno da quella casa?». Indico il The Hive con un dito e torno a guardarlo.

Non risponde subito, immagino si stia chiedendo perché io voglia saperlo, ma poi si stringe nelle spalle. «Sì, mi sembra di aver visto entrare una grossa moto».

«Merda!», esclamo in italiano. «Merda, Shannon! Quelle mi ammazzano, mi fanno a pezzetti minuscoli e mi spediscono con un pacco ad Hannibal. Il pranzo è servito dottore! Merda».

Dopo qualche secondo noto che Joe-il-cameriere mi sta guardando confuso, forse per l’italiano o forse per i movimenti convulsi e insensati che sto facendo, non lo so di preciso, e provo un po’di pena per lui. Si starà chiedendo che cosa ha fatto di male per avere una pazza nel suo locale. L’unica cosa che mi sento di dirgli è di lasciarmi perdere, poi mi scuso, sotto il suo sguardo incredulo, e chiamo Frances. Lei e non Rain perché spero in una morte meno dolorosa. Ma è quando sto cercando il nome in rubrica che le vedo varcare la soglia del bar. Sono morta e sepolta.

«Hi Darling, how are you?», chiede allegra Rain.

Deglutisco. Male male male. «Benissimo!», esclamo, la voce che sale di un numero indefinito di ottave, un sorriso fintissimo stampato in faccia. Mi guardano in modo sospettoso e il lascio che il sorriso-smorfia si allarghi ancora. «Caffè?», chiedo. Rain mi scruta un altro po’ e poi annuisce, Frances preferisce del thé. Faccio l’ordinazione a Joe, ancora convinto io sia pazza, che dopo poco ci porta tutto al tavolo, sorridendo fra sé. Sono diventata un fenomeno da baraccone.

«Vi siete date allo shopping, vedo», dico, cercando di portare la conversazione su altri lidi. Devo resistere e non dire nulla di Shannon, della sua grossa moto, del cancello che piano piano si chiude davanti ai miei occhi… questa notte farò gli incubi.

«Sono molto fiera dei miei acquisti», esclama soddisfatta Frances. Ama la moda. Come potrebbe non farlo, con una mamma che per un periodo di tempo ha fatto la stilista? «Ti abbiamo preso un regalo!».

Mi strozzo con il caffè e in testa mi si stampa la frase “sensi di colpa”, a caratteri cubitali. «Davvero?»

Rain prende qualcosa dalla borsa e me lo lancia contro. Riesco a srotolare la palla di stoffa che mi ha appena quasi colpito in piena faccia, e osservo il vestito blu notte che tengo fra le mani. «Ma è bellissimo! Lo metterò questa sera, quando staremo dentro quella stanza puzzolente a guardare la televisione». Ebbene sì, per qualche strana ragione le ultime due sere siamo finite, esauste, a rimanere distese tutte e tre nel letto matrimoniale a mangiare cereali e a fare maratone di telefilm. Le vite segrete di tre diciannovenni italiane a Los Angeles, prossimamente nel cinema della tua città.

«Usciremo prima o poi», dice imbarazzata Frances. Per qualche strana ragione è sempre la prima ad addormentarsi.

«Concordo», annuisce Rain.

Ridacchio. «Okay, grazie ragazze per avermi pensata».

«E tu, ci hai pensate o hai avuto tempo solo per Jane Austen o chiunque tu stia studiando?», domanda la mia migliore amica ilare. Sorridere e faccio per rispondere ma lei continua a parlare. «Pensavamo che è molto strano che non ci sia movimento nella casa, ma dal twitter di Jared sembra proprio sia in città. È possibile che ci sia sfuggito qualcosa?».

Penso che sì, ci è decisamente sfuggito qualcosa, qualcuno. Sospiro e so che la mia espressione si fa sofferente. «Devo dirvi una cosa». Entrambe alzano lo sguardo dalle loro bibite e mi guardano. «Shannon è passato qui davanti questa mattina».

«Cosa?!», esclamano all’unisono. Morta e sepolta dicevo.

«Ma io ero in bagno». Via il dente via il dolore.

«COSA?!», ripetono urlando. Mi volto verso Joe e lo vedo guardare verso di noi con fare divertito.

«Mi scappava la pipì» è tutto quello che riesco a dire. Mi guardano allibite e io mi sento di nuovo una bambina di quattro anni che viene sgridata dalla mamma. Di merda, in pratica. «Mi scappava tantissimo, sono andata in bagno e quando sono tornata il cancello si stava chiudendo e allora ho chiesto a Joe e lui mi ha detto che era arrivata una grossa moto e una grossa moto ce l’ha solo Shannon e poi siete arrivate voi e io non volevo dirvelo ma poi mi avete regalato il vestito e fatto tutto quel discorso e mi sono sentita in colpa e …» sono in assenza di ossigeno per aver detto un periodo di tale portare senza nessuna interruzione. Loro si limitano a continuare a guardarmi. La situazione è insostenibile. Ho bisogno di aria, di un salvagente, devo dire qualcosa che non sia “mi scappava la pipì”.

«I knew it, I knew it». Volto la testa verso destra dopo aver sentito una voce veramente vicina al mio orecchio e noto una signora molto bella sulla sessantina stare impettita vicino al nostro tavolo, un sorriso sulle labbra. Il mio salvagente, solo che ha i capelli bianchi e non galleggia.

«Scusi?», chiede Rain in inglese.

«Ammiro il vostro lavoro, era il mio sogno da piccola. In più sapete un’altra lingua e parlate con quella per non farvi scoprire! Italiano? Geniali, davvero!». Guardo le mie amiche. Non sto capendo. Non stanno capendo neanche loro.

«… cosa?», sussurro.

«Oh, lo so che non potete dire apertamente in giro che siete delle investigatrici private, è una specie di prima regola del Fight Club, lo so, ma io l’ho scoperto, non me lo avete detto voi, potete anche ammetterlo ora», ribatte lei, ammiccandoci.

Investigatrici private, noi? Strabuzzo gli occhi. «Mi dispiace deluderla ma…», comincio, ma vengo interrotta dalla voce di Rain. «Ci scusi, non volevamo essere maleducate, ma sa, è il protocollo, non possiamo proprio parlarne. Contiamo nella sua discrezione».

«Oh, ma certo, oh! Ma ditemi un po’, non è che potreste dirmi di che caso di tratta? Tradimento? Droga? Cosa?», domanda.

«Sa, non potremmo…», dice Rain.

«Tradimento», conclude per lei Frances.

«Decisamente tradimento», confermo.

Gli occhi dell’anziana si illuminano. «Quindi avete le prove! Che lavoro emozionante che fate, che ragazze fortunate!», esclama «ma oh, vi sto rubando tempo utile. Buona giornata ragazze, buon lavoro» e, detto questo, se ne va camminando fuori dal locale, accompagnata dal rumore dei tacchi sul pavimento. Ci scambiamo uno sguardo e poi scoppiamo a ridere.

«Da stalker a investigatrici privare in zero-due, mica male direi».

 

 

 

Punto uno: non pensavo fosse così difficile ambientare una storia in un paese linguisticamente diverso. Spero di essere chiara nei passaggi italiano/inglese eccetera, perché davvero non è semplice come sembra.
Punto due: lo so, sto sfiorando la demenza, perdonatemi.
Punto tre: grazie ai lettori silenziosi e alle ragazze che hanno recensito.
Solito bacino sul naso, Deb.

  
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