«Ho
il culo quadrato», mi lamento. Cinque ore fa mi sono seduta
su questa poltrona
e non avuto ancora l’occasione di alzarmi per sgranchirmi le
gambe. Ho davanti
a me la quarta tazza di caffè americano, un giornale con le
notizie internazionali
e il libro di letteratura inglese sottolineato in modo disordinato.
Sfrutto il
tempo tra un’occhiata e l’altra fuori dalle vetrine
del locale per prepararmi
all’università che incombe su di me. Corso di
scrittura creativa e video
montaggio, a Londra, fra due mesi scarsi.
«Novità?»,
mi chiede Rain dall’altro capo del telefono.
«Nessuna,
come ieri e come l’altro ieri», sbuffo. Ci siamo
date dei turni per goderci la
città e contemporaneamente tenere d’occhio la
casa. Oggi il Grande Compito
tocca a me, sola soletta. Credo che tra un po’
attaccherò bottone con qualcuno,
un qualcuno a caso, perché l’unica parola che ho
pronunciato da questa mattina
è stata “thanks”, quattro volte, al
cameriere. «Voi dove siete?»
«Stiamo
arrivando», riaggancia.
Svuoto
la tazza di caffè sotto lo sguardo divertito del cameriere
che, velocemente,
rispettando un tacito accordo che sembriamo aver stretto, cammina verso
di me,
e la riempie di nuovo. Gli sorriso grata, mi alzo, e mi dirigo verso il
bagno. L’immagine
che lo specchio sopra il lavandino mi rimanda è davvero, davvero, terribile. Il poco sonno,
l’eccesso di caffeina in corpo e
l’essermi dimenticata in camera gli occhiali, hanno fatto
spuntare delle
occhiaie mostruose sotto gli occhi. Per non parlare dei capelli, che
non
sembrano capelli ma un nido di vespe, e dei vestiti, stropicciati
perché a
quanto pare, nel motel, il ferro da stiro non è in dotazione
della camera. Mi sciacquo
il viso con dell’acqua fredda, sistemo il trucco sbavato e mi
pizzico le guance
per ridarci un colore sano e naturale. Torno in sala e un particolare
mi salta
all’occhio, quando, d’abitudine, guardo fuori dalle
vetrate: il cancello
elettrico del The Hive che si chiude con un tonfo.
Sbianco,
e addio a tutta la fatica che ho fatto per ridarmi un po’di
contegno. Sento proprio
la vita che mi scivola via. È possibile che, negli unici
cinque minuti che mi
assento da quella poltrona blu che ormai è diventata la mia
migliore amica,
succeda qualcosa di così importante?
Mi
avvio verso il bancone e con la voce alterata e l’inglese che
diventa
difficilissimo da parlare chiedo «Scusami», lancio
un’occhiata al cartellino con
il nome che il cameriere ha appuntato sulla camicia nera
«scusa Joe, per caso è
appena entrato o uscito qualcuno da quella casa?». Indico il
The Hive con un
dito e torno a guardarlo.
Non
risponde subito, immagino si stia chiedendo perché io voglia
saperlo, ma poi si
stringe nelle spalle. «Sì, mi sembra di aver visto
entrare una grossa moto».
«Merda!»,
esclamo in italiano. «Merda, Shannon! Quelle mi ammazzano, mi
fanno a pezzetti minuscoli
e mi spediscono con un pacco ad Hannibal. Il pranzo è
servito dottore! Merda».
Dopo
qualche secondo noto che Joe-il-cameriere mi sta guardando confuso,
forse per l’italiano
o forse per i movimenti convulsi e insensati che sto facendo, non lo so
di
preciso, e provo un po’di pena per lui. Si starà
chiedendo che cosa ha fatto di
male per avere una pazza nel suo locale. L’unica cosa che mi
sento di dirgli è
di lasciarmi perdere, poi mi scuso, sotto il suo sguardo incredulo, e
chiamo
Frances. Lei e non Rain perché spero in una morte meno
dolorosa. Ma è quando
sto cercando il nome in rubrica che le vedo varcare la soglia del bar.
Sono morta
e sepolta.
«Hi Darling, how are
you?», chiede allegra
Rain.
Deglutisco.
Male male male. «Benissimo!», esclamo, la voce che
sale di un numero indefinito
di ottave, un sorriso fintissimo stampato in faccia. Mi guardano in
modo
sospettoso e il lascio che il sorriso-smorfia si allarghi ancora.
«Caffè?»,
chiedo. Rain mi scruta un altro po’ e poi annuisce, Frances
preferisce del thé.
Faccio l’ordinazione a Joe, ancora convinto io sia pazza, che
dopo poco ci
porta tutto al tavolo, sorridendo fra sé. Sono diventata un
fenomeno da
baraccone.
«Vi
siete date allo shopping, vedo», dico, cercando di portare la
conversazione su
altri lidi. Devo resistere e non dire nulla di Shannon, della sua
grossa moto,
del cancello che piano piano si chiude davanti ai miei
occhi… questa notte farò
gli incubi.
«Sono
molto fiera dei miei acquisti», esclama soddisfatta Frances.
Ama la moda. Come
potrebbe non farlo, con una mamma che per un periodo di tempo ha fatto
la
stilista? «Ti abbiamo preso un regalo!».
Mi
strozzo con il caffè e in testa mi si stampa la frase
“sensi di colpa”, a
caratteri cubitali. «Davvero?»
Rain
prende qualcosa dalla borsa e me lo lancia contro. Riesco a srotolare
la palla
di stoffa che mi ha appena quasi colpito in piena faccia, e osservo il
vestito
blu notte che tengo fra le mani. «Ma è bellissimo!
Lo metterò questa sera,
quando staremo dentro quella stanza puzzolente a guardare la
televisione». Ebbene
sì, per qualche strana ragione le ultime due sere siamo
finite, esauste, a
rimanere distese tutte e tre nel letto matrimoniale a mangiare cereali
e a fare
maratone di telefilm. Le vite segrete di tre diciannovenni italiane a
Los
Angeles, prossimamente nel cinema della tua città.
«Usciremo
prima o poi», dice imbarazzata Frances. Per qualche strana
ragione è sempre la
prima ad addormentarsi.
«Concordo»,
annuisce Rain.
Ridacchio.
«Okay, grazie ragazze per avermi pensata».
«E
tu, ci hai pensate o hai avuto tempo solo per Jane Austen o chiunque tu
stia
studiando?», domanda la mia migliore amica ilare. Sorridere e
faccio per
rispondere ma lei continua a parlare. «Pensavamo che
è molto strano che non ci
sia movimento nella casa, ma dal twitter di Jared sembra proprio sia in
città. È
possibile che ci sia sfuggito qualcosa?».
Penso
che sì, ci è decisamente sfuggito qualcosa, qualcuno.
Sospiro e so che la mia espressione si fa sofferente. «Devo
dirvi una cosa». Entrambe
alzano lo sguardo dalle loro bibite e mi guardano. «Shannon
è passato qui
davanti questa mattina».
«Cosa?!»,
esclamano all’unisono. Morta e sepolta dicevo.
«Ma
io ero in bagno». Via il dente via il dolore.
«COSA?!»,
ripetono urlando. Mi volto verso Joe e lo vedo guardare verso di noi
con fare
divertito.
«Mi
scappava la pipì» è tutto quello che
riesco a dire. Mi guardano allibite e io
mi sento di nuovo una bambina di quattro anni che viene sgridata dalla
mamma. Di
merda, in pratica. «Mi scappava tantissimo, sono andata in
bagno e quando sono
tornata il cancello si stava chiudendo e allora ho chiesto a Joe e lui
mi ha
detto che era arrivata una grossa moto e una grossa moto ce
l’ha solo Shannon e
poi siete arrivate voi e io non volevo dirvelo ma poi mi avete regalato
il
vestito e fatto tutto quel discorso e mi sono sentita in colpa e
…» sono in
assenza di ossigeno per aver detto un periodo di tale portare senza
nessuna
interruzione. Loro si limitano a continuare a guardarmi. La situazione
è
insostenibile. Ho bisogno di aria, di un salvagente, devo dire qualcosa
che non
sia “mi scappava la pipì”.
«I knew it, I knew
it». Volto la
testa verso destra dopo aver sentito una voce veramente vicina al mio
orecchio
e noto una signora molto bella sulla sessantina stare impettita vicino
al
nostro tavolo, un sorriso sulle labbra. Il mio salvagente, solo che ha
i
capelli bianchi e non galleggia.
«Scusi?»,
chiede Rain in inglese.
«Ammiro
il vostro lavoro, era il mio sogno da piccola. In più sapete
un’altra lingua e
parlate con quella per non farvi scoprire! Italiano? Geniali,
davvero!». Guardo
le mie amiche. Non sto capendo. Non stanno capendo neanche loro.
«…
cosa?», sussurro.
«Oh,
lo so che non potete dire apertamente in giro che siete delle
investigatrici
private, è una specie di prima regola del Fight Club, lo so,
ma io l’ho
scoperto, non me lo avete detto voi, potete anche ammetterlo
ora», ribatte lei,
ammiccandoci.
Investigatrici
private, noi? Strabuzzo gli occhi. «Mi dispiace deluderla
ma…», comincio, ma
vengo interrotta dalla voce di Rain. «Ci scusi, non volevamo
essere maleducate,
ma sa, è il protocollo, non possiamo proprio parlarne.
Contiamo nella sua
discrezione».
«Oh,
ma certo, oh! Ma ditemi un po’, non è che potreste
dirmi di che caso di tratta?
Tradimento? Droga? Cosa?», domanda.
«Sa,
non potremmo…», dice Rain.
«Tradimento»,
conclude per lei Frances.
«Decisamente
tradimento», confermo.
Gli
occhi dell’anziana si illuminano. «Quindi avete le
prove! Che lavoro emozionante
che fate, che ragazze fortunate!», esclama «ma oh,
vi sto rubando tempo utile. Buona
giornata ragazze, buon lavoro» e, detto questo, se ne va
camminando fuori dal
locale, accompagnata dal rumore dei tacchi sul pavimento. Ci scambiamo
uno
sguardo e poi scoppiamo a ridere.
«Da
stalker a investigatrici privare in zero-due, mica male
direi».
Punto
uno: non pensavo fosse così difficile ambientare una storia
in un paese
linguisticamente diverso. Spero di essere chiara nei passaggi
italiano/inglese
eccetera, perché davvero non è semplice come
sembra.
Punto
due: lo so, sto sfiorando la demenza, perdonatemi.
Punto
tre: grazie ai lettori silenziosi e alle ragazze che hanno recensito.
Solito
bacino sul naso, Deb.