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Autore: tagliarsi_con_gli_origami    20/10/2013    7 recensioni
Harry Styles vive in una villetta a schiera di Richmond con sua sorella Gemma.
Louis Tomlinson è un ex calciatore dalla carriera stroncata da un infortunio, e si muove a malapena nel disordine cronico del suo attico in centro a Londra.
Harry e Louis si incontrano in un bagno a Covent Garden.
Potrebbe essere l'inizio di qualcosa, se Harry non fosse già legato all'unica donna della sua vita, Darcy, la sua bambina di sei mesi.
Harry e Louis si incontrano in un bagno. Forse finirà così, perchè Louis di bambini non vuole nemmeno sentir parlare.
Harry e Louis si incontrano in un bagno, in un vialetto, ad un barbecue, nel mezzo di due vite che forse non dovevano nemmeno scontrarsi.
Impronte di mani diverse sulla parete bianca di una cameretta per bambini.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Shania Twain che piace tanto a Harry.
Specialmente una canzone che si chiama You're Still The One.
A Keith Tomlinson, perchè è Larry, che abbia scritto o meno
quello che io sono convinto abbia scritto.


 
Benzina, cenere e birra.



Look how far we've come my baby
We mighta took the long way
We knew we'd get there someday 
They said, "I bet they'll never make it"
But just look at us holding on
We're still together still going strong 
(You're Still The One, Shania Twain)

 
Il seggiolino di Darcy la mette a disagio. Harry riesce a vederlo attraverso i capelli neri e disordinati. Lo sguardo è leggermente frenetico mentre si siede sulla sponda del sedile del passeggero, allaccia la cintura, armeggia con l'autoradio e i cd disposti disordinatamente nel cruscotto. Sceglie con attenzione, anche se è nervosa. Precisione maniacale nel decidere quale colonna sonora accompagnerà parole sbocconcellate e silenzi imbarazzanti. Ci vuole la canzone giusta per riempire quel genere di vuoti.
Alla fine opta per un mix tape masterizzato, vecchie canzoni che grattano un po', roche e stonate a tratti. Registrate due volte, magari, perché una non era abbastanza.
Harry ama quei cd con le custodie mescolate, le canzoni scritte con il pennarello indelebile dalla punta sottile e le dediche scarabocchiate sul retro. Ogni persona che sia salita su quella macchina ha la sua compilation nel cruscotto.
Tranne Louis, forse, perché lui è più un ronzio basso e continuo, quello di quando si tappano le orecchie e si stappano nelle gallerie. È un rumore di fondo che è sempre un picco squillante nel cervello, ma non lascia penetrare il silenzio, non lo lascia dilagare. Non si interrompe.
Melissa smette di studiare ogni zigrinatura dell'unghia del suo indice.
Un vago odore di benzina accompagna le sue parole
“Stai-”
“Bene. Sì, me l'hai già cantata la canzone...” Harry ha le dita così strette attorno al volante da farsi sbiancare le nocche. 
“Harry”
“Melissa” forse continuare a punzecchiarsi rimanderà il momento in cui dovranno ammettere che ci sono cose da dire che non possono semplicemente essere investite con la macchina.
Lei sbuffa, voltandosi. Harry la guarda di traverso un istante, dimenticando la strada e la linea bianca di mezzeria che traballa.
“Harold Edward Styles, eri d'accordo anche tu” 
Se lo ricorda. A tratti, in modo confuso, patetico e un po' disperato. Vorrebbe avere la mente lucida per analizzare quella serata, ma riesce solo a battere i denti come sulla metropolitana di notte, a febbraio. Darcy che dormiva nel marsupio e le luci accese del portico di casa di Gemma. Il senso di inadeguatezza, di abbandono. La paura, il panico.
Sempre Darcy, e l'espressione di sua sorella mentre si scansava per farlo entrare. L'odore delle lenzuola pulite e della vernice fresca la mattina dopo, dipingendo la ringhiera della scalinata.
Non ricorda quasi nulla di Melissa, se non le sue dita che tremavano attorno alle chiavi della macchina, l'orlo asimmetrico dei suoi jeans con il risvolto, i suoi stivali con il tacco consumato sul pianerottolo.
Non ricorda cosa si sono detti, non ricorda le sue parole e l'espressione del suo viso mentre se ne andava.
Ricorda come si è sentito, e vorrebbe essere capace di parlare con lei di questo. 
Ma non lo è.
“Io? Ero d'accordo IO che TU facessi le valigie un giorno a caso della settimana e sparissi dalla faccia della Terra?” c'è sempre la rabbia prima di tutto il resto. Prima della delusione, dell'affetto, del senso di abbandono, della paura. La rabbia è tremendamente più facile da scagliare addosso agli altri.
Melissa si morde il labbro, le dita che ancora s'intrecciano nervosamente 
“Lo sai cosa-” 
“Sì, lo so, depressione post partum” si sente uno stronzo. Nell'esatto momento in cui il tono di quelle parole si sparge, disordinatamente ostile, nell'abitacolo, Harry sente di aver esagerato. 
Melissa ha occhi grandi di colore diverso, un particolare che lui ha notato il primo giorno di scuola in seconda media, e lo ha sempre fatto sentire in soggezione.
Quegli occhi lo fissano, i suoi zigomi e la sua tempia sinistra, catturano il margine dell'iride fissa sulla strada. 
“Non è stata una festa Harry. Per niente” distoglie lo sguardo da lui, e si lascia andare contro lo schienale. Non significa che si è rilassata, che è a suo agio. Significa solo che è stanca, così tanto da non riuscire a sfidarlo. 
“E adesso?” deglutisce, svolta alla prima uscita verso il centro, e si immette nel traffico. La macchina si muove a rilento, cautamente, e Harry si rilassa, il piede sulla frizione che smette di mandare crampi lancinanti a tutto il polpaccio. “Sbarelli ancora o...” sorridono entrambi del disagio smozzicato di Harry. Poco, in imbarazzo, ma quasi riescono a respirare meglio nell'abitacolo.
“Sbarello ancora, di tanto in tanto. Ma so cosa devo fare, come comportarmi. Sai, le cose che impari a conoscere di te stessa quando il tuo cervello ti manda a farti fottere” il semaforo diventa verde e si riflette sui loro volti seri. Harry rimane zitto ad ascoltarla, ad osservarla sorridere leggermente, e perdersi per quei quattro secondi necessari a rimettere insieme i pezzi, i giorni, le settimane. Forse i mesi, o forse no.
L'auto si muove lenta a trenta centimetri dalla Golf rossa e i suoi cinque passeggeri che agitano le braccia in aria ad ogni semaforo rosso.
Melissa resta ad osservarli con lo sguardo assente e cupo. Forse i suoi giorni a braccia in alto sono finiti, e Harry nemmeno se n'è accorto. Si rigira fra le mani un pacchetto di sigarette al mentolo, e lo guarda in silenzio per chiedere il permesso. Harry abbassa il finestrino del passeggero con il pulsante sul volante e frena. Rosso.
Il puzzle della sua faccia si ricompone sotto la luce dell'accendino, e sorride “C'è una persona. Nella mia vita intendo...lui ha qualcosa” aspira una boccata di fumo e la sputa fuori dal finestrino a metà. Lascia cadere la cenere con un movimento appena accennato dell'indice.
“Qualcosa?” Harry avverte quel brivido di anticipazione lungo la spina dorsale. Quella sensazione di chi sa che le poche parole che verranno dopo sono esattamente quelle che vorticano nella sua testa.
Avere qualcuno che tenga le cose insieme, o che le lasci incasinate, ma con uno strano senso che fa stare bene.
“Qualcosa” scrolla le spalle e indica un punto a pochi centimetri del suo specchietto “Attento allo scooter” abbassa il volume di Sunday Bloody Sunday, la quinta traccia sul cd “Non mi sento come se un frullatore mi avesse appena centrifugata e sparata nell'iperspazio. Sono sempre io, sai com'è, deliri e tutto il resto, ma lui è quel genere di persona con cui non devo fare sempre finta di essere normale, e sono molto meno incasinata se non devo pretendere da me stessa di non essere incasinata” sorride di nuovo, tamburellando le dita sulla mascherina dell'autoradio.
Poi lo guarda con l'espressione decisa e sarcastica delle interrogazioni a sorpresa alle superiori
“Accosta dai, siamo abbastanza lontani da casa perché non possa sclerare, uccidervi tutti e rapire Darcy” sorride mentre lo dice, con le spalle curve e i capelli sugli occhi, ma la sua voce non trema, né per la risata né per il pianto.
“Non l'ho fatto per-” la voce di Harry è intrisa di nevrosi e giustificazioni che si serrano, e di paure che affiorano. Ma lui e Melissa si conoscono da dodici anni due settimane e tre giorni, e hanno fatto un figlio insieme, in uno di quei giorni. E Harry ha visto gli occhi di Melissa svuotarsi di ogni cosa, di ogni senso e di ogni emozione, e implorarlo di costruire impalcature attorno alle parole, i gesti, la perdita. Di non abbandonarla alla deriva, e non abbandonare Darcy.
C'è qualcosa di denso e solido nel suo sguardo, sicuro. Forte. Non calmo, o pacifico, ma vibrante. Una sicurezza, una ruvidezza nuova che sa essere morbida senza deflagrare.
“L'hai fatto esattamente per quello” ridacchia, con quella stessa confidenza un po' brulicante di significati che li accomuna “Ma va bene, Harry, lo so che sono un casino. Tu hai tutte le fottutissime ragioni di questo mondo a fartela sotto”
Forse, proprio in onore di quell'intesa silenziosa, Harry deve scacciare la familiarità di quel momento e appesantire di nuovo l'aria.
“Io voglio solo sapere che vuoi fare Melissa. Tutto qui. Cosa cazzo vuoi fare” deglutisce nel gelo che ha seminato attorno a sé, nella tensione che irrigidisce le spalle di lei, il suo piede sull'acceleratore, sulla frizione. Il freno, prima di accostare e fermare la macchina, finalmente.
Melissa si stringe nelle spalle, riavviandosi i capelli dietro l'orecchio luccicante di piercing di varie dimensioni e metalli.
“Non sono venuta a riprendermi Darcy, se è questo che ti fa uscire di testa. Vorrei farlo, veramente, ma non lo farò” inspira “Ryan dice-”
“Ryan? È lui il mago del training autogeno?” l'amarezza, comunque, non lo lascia affogare del tutto
“Non sfottere Harold” 
“Scusa” sogghignano, uno strano vomito di tensione e pensieri che scrolla di dosso un po' di angosce
“Comunque sì, è lui. È un biologo marino, e gli hanno offerto una cattedra a Tampa, in Florida. È a posto, abbiamo parlato di questo un sacco di tempo”
“E...”
“E io ero dell'idea di piantare un casino che nemmeno Chernobyl per riprendermi Darcy e portarla in Florida con me.” risponde semplicemente, con sicurezza, senza vergogna. Harry invidia per una manciata di secondi la sua onestà, e altrettanto vorrebbe sbatterle senza complimenti il viso sul cruscotto.
“Lo sai come sono fatta...” non vuole scusarsi, perché ha ragione. Harry sapeva, nel momento in cui ha accettato di essere il padre di sua figlia in nome di quell'altalenante amicizia da persone psicologicamente disagiate, sapeva “Ryan pensa che non sia giusto, e io ti ho visto con Darcy, e con Gemma...non lo so. Sembri” allunga la mano destra su quella di Harry, tamburellando con leggerezza le sue nocche tese. Anelli che cozzano e individualità che si scontrano. Un mezzo sorriso sbocconcellato nello specchietto retrovisore, uno sguardo appena “stabile”
Stabile. Di tutti gli aggettivi che avrebbe potuto mettere insieme, Harry non si aspettava assolutamente la stabilità.
“Boh Harry, tu mi conosci, e io conosco te. Eravamo delle belle teste di cazzo alle superiori. Io lo sono ancora, di sicuro” ridacchia intrecciando l'indice a quello di lui “Ma in te c'è qualcosa che non riconosco, un modo più calmo di stare al mondo e...è bello. E non voglio farti questo e basta, per poi partire e far finta di niente” di nuovo quello sguardo. È come un punto fermo, una constatazione, una decisione già presa. 
Harry si passa una mano fra i capelli, in quella pausa dalla realtà che dura solo un paio di secondi, ma è incredibilmente confortante.
Sospira.
“Sarà una merda, e sarà un casino. E non voglio perdere mia figlia. Ma sto provando a far andare le cose un po' meno a puttane ultimamente, e sapere che una delle poche persone al mondo che non ha ancora messo una taglia sulla mia testa potrebbe odiarmi per tutto il resto della vita, non rientra nei miei piani” incrocia le braccia e si sistema meglio sul sedile “Voglio stare bene, voglio essere qualcuno a cui un bambino può appoggiarsi e sentirsi a sicuro. Non la madre depressa che non esce di casa per tre settimane e non mangia per giorni, e non si lava, e chissà che altro. E non sono quella persona, ancora” Harry si volta nella luce baluginante e lattea dei lampioni sulla strada. Si volta e aspetta. Non sa nemmeno cosa, forse un senso, o un punto a quella frase. Qualcosa di definitivo che lo lasci respirare regolarmente di nuovo. 
“Tu sì. Tu e Gemma, e quella strana combriccola di pazzi che ti porti appresso. E magari anche quel tipo con le bretelle...” 
Louis. Il rumore ripetuto che gli fracassa il cervello da mesi si acuisce un istante.
“Cosa?” lei sorride mentre Harry mette di nuovo in moto e fa inversione a U
“Credi che sia arrivata qui 'stasera, e sia entrata in casa tua come se niente fosse dopo quasi un anno?” sbuffa, e il fiato caldo che gli scivola fuori dalla bocca le scosta i capelli dal viso “Sarà la decima volta, minimo, che parcheggio sul vialetto e rimango in macchina ad osservarvi. So del tizio con la Porsche e le scarpe da fighetto. Hai la faccia da coglione quando stai con lui” 
Louis. La bassa frequenza della sua esistenza che spintona le tempie
“La faccia da coglione?”
Louis. La velocità delle onde nel suo cervello che impazzisce e perde il ritmo.
“Sì, la solita faccia che hai quando sei completamente perso per qualcuno, e non lo sai nemmeno”
Oh, lo so, col cazzo che lo so.
Louis.
Melissa espira, sorride, ride, sghignazza e ride di nuovo.
“Sei proprio fottuto”
Louis.
Quello che era un ronzio flemmatico fra le pieghe della sua materia grigia, è una sirena spiegata e lamentosa in cerca di una pace instabile e sclerotica.
Louis.

***

La tredicesima volta che capiti sullo stesso canale facendo zapping, forse dovrebbe balenarti vagamente per l'anticamera del cervello che sei uno sfigato irrecuperabile ed è ora di spegnere la maledetta tv.
Ma Louis abbandona il telecomando fra i cuscini del divano, e distende i piedi nudi sul bracciolo. Lo schermo resta acceso, il volume poco al di sopra della soglia di percezione, le immagini nitide da schermo in HD che si alternano stroboscopiche, ignorate. La luce nella stanza è confortante però, lasciarsi distrarre dal movimento, dal rumore di sottofondo, dalle parole vuote che mastica senza ascoltarle. Il silenzio è troppo ossessivo e claustrofobico. Louis ha sempre preferito la parvenza di caos alla calma. Luce accesa, qualsiasi rumore di sottofondo, anche solo l'impressione di non essere completamente solo.
La Corona sfrigola contro il lime infilato a forza nel collo della bottiglia, dimenticata. L'attrice della soap opera argentina in replica tutta la notte fissa il suo partner con lo sguardo inespressivo e desolatamente tragico tipico delle scene cariche di pathos, e lui continua a fissare il soffitto, annoiato.
C'è stata una festa, ci sono stati flash, autografi, rimpatriate alcoliche e aneddoti grotteschi da spogliatoio che aveva rimosso. Ex compagni di squadra dall'epidermide fritta dalle lampade e la pelle tirata sugli zigomi. 
Vecchi a trentanni, che non sanno più che scuse inventare per passare il tempo.
Ha rivisto un paio di ex fidanzate, modelle e attrici che non hanno mai davvero sfondato, e speravano in una spintarella alla carriera sculettandogli vicino a qualche cena e un evento nel fine settimana. Il suo vecchio manager, il doppiopetto e il Rolex, sorrisi falsi e piani machiavellici, alle spalle di un altro idiota pronto a uscire con la prima tizia anonima scritturata per la parte pur di non tradire l'immagine di gran scopatore in divisa da calcio.
Riesce a sorridere, anche, perché non essere più quella persona, adesso, è quasi come togliere un tappo dai polmoni e arrivare alla fine di un respiro senza tremare. Stringere qualcosa che prima scivolava, e guardare il suo riflesso sull'anta dell'armadietto senza la paura di perdersi in lineamenti tremolanti e tratteggiati malamente. 
È rimasto in piedi ad un certo punto, alla fine della serata, ad osservare quella gente conversare, bere, ridere e guardarsi attorno senza armonia. Senza intenzioni. Ciondolando nello spazio senza un peso.
Una direzione. 
Lou non sapeva nemmeno potesse esistere, prima, una direzione. Per i passi, i movimenti, gli sguardi, parcheggiare, telefonare, chiamare, fermarsi. Una direzione dove non avvolgere il nastro infinite volte per trovare un senso, e stare bene anche senza averlo, un senso.
L'odore della birra è quasi piacevole, la Corona si sta scaldando nella bottiglia, ma non gli importa davvero, perché anche la familiarità dello sfrigolare del lime e delle bollicine lo fa stare di merda. Anche la televisione a volume bassissimo, e quelle immagini schizofreniche sullo schermo, e lo stereo spento, e i cd che non ha ancora sistemato, e una strana voglia di ascoltare di nuovo i The Fray come quando si stiracchiava sui sedili dell'ultimo autobus di Doncaster dopo gli allenamenti, con i muscoli accartocciati e una fame comatosa.
Ha fame anche adesso, ma di un frigo quasi vuoto alla fine del mese e riempito con troppi omogeneizzati. 
Non di fragole del cazzo importate da chissà dove, Champagne e cibo imbustato pronto per il forno a microonde. Non è la fame di quelle cene senza gomiti sul tavolo e il sigaro alla fine della serata. Non della cocaina spalmata sugli specchietti del trucco, e la biancheria spaiata dimenticata fra i cuscini del divano. Non fame del cerchio alla testa e dell'incoscienza del giorno dopo, dei paparazzi appostati dietro i cespugli, e nei parcheggi degli alberghi. Non le interviste con gli occhiali da sole anche di notte per la sbronza ancora da smaltire.
Non ha fame della persona che era, e sbocconcellava risposte a metà condite di sarcasmo e prese in giro. 
È pizza di Domino's forse, una partita a Fifa sicuro di perdere miseramente solo per ascoltare le proteste di Zayn e la risata gorgogliante di Harry, nascosto dietro l'anta del frigo aperto e mezzo vuoto, un paio di birre comprate di corsa dal pakistano e troppi barattoli di marmellata aperti. Niall che lo sfotte perché è veramente da sfigati essere un ex capo cannoniere della Premier League e farsi stracciare a calcio da un irlandese mezzo ubriaco. È fame di quella pace disordinata sempre sopra le righe, di un caos armonioso e avvolgente che circonda ma non soffoca.
È voglia di casa. 
Una direzione.
“Cristo Louis, sei patetico...” Stan non ha nemmeno telefonato, ovviamente. 
Ha il doppione delle chiavi, perché dovrebbe degnarsi di avvertire.
Lou quasi riesce a ridere della cassa di Corona che ha appena appoggiato al tavolino da caffè accanto al divano. 
Patetico. 
Le bottiglie di vetro tintinnano sbattendo l'una contro l'altra, e Stan si lascia cadere nello spazio minuscolo lasciato libero dalle sue gambe distese
“E' sabato notte Tomlinson, cazzo. Mezzo Regno Unito venderebbe sua madre per essere dove sei tu, e ti nascondi in ciabatte dietro gli scatoloni del trasloco, sparandoti questa merda da pensionati, senza nemmeno essere vagamente ubriaco?” scuote la testa cercando il telecomando fra i cuscini.
Louis raccoglie le gambe e butta giù il primo sorso di birra
“Quindi?”
“Quindi usciamo, razza di imbecille. Usciamo e ci sbronziamo, e cerchiamo vagamente di scopare, e riempire questa solitudine esistenziale che non ci abbandona mai e bla bla bla” Stan armeggia con la prima bottiglia di Corona, la stappa e fa cozzare l'imboccatura contro quella di lui, in un brindisi muto, frettoloso e leggermente inconsapevole. 
“Stan...”
“Dio Santo Lou! Sono mesi che ti ossessioni con l'idea di tornare a giocare. E adesso sei qui, cazzo, hai così tanto tempo per giocare che potresti vederlo al mercato nero, e hai la faccia di uno che ha scoperto di aver mangiato i suoi genitori, una notte, tornando dal campeggio! Per l'amore di 'stocazzo coach, come minimo dovresti correre nudo sull'autostrada!” Louis beve in silenzio, fissando il soffitto. Stan ha ragione, e non solo perché è davvero stato ossessionato dall'idea di tornare a giocare praticamente dal momento esatto in cui ha scoperto di non poterlo più fare, ma perché essere lì è stata una sua scelta, una decisione che credeva di aver preso con naturalezza e razionalità. 
Automaticamente. 
Ma il Doncaster Rovers non vuole un allenatore, e Louis lo sa. Forse lo sa anche Stan, ma è sempre stato il genere di amico che prova a indorare la pillola, se riesce.
“Sono un cazzo di ragazzo immagine, Stan. Prime pagine e settimanali di gossip” ride amaramente, le bollicine della Corona che gli risalgono lungo il naso, il sapore acre del lime sulle labbra leggermente screpolate. Brucia un po'. Tutto brucia “io non so nemmeno da dove cominciare ad allenare qualcuno” si stringe nelle spalle, di una consapevolezza che ha qualcosa di piacevole. Remotamente e dolorosamente piacevole. È una certezza, per lo meno. Riuscire a riconoscere le proprie sensazioni e saperle catalogare in qualche modo. Metterle da qualche parte. 
E il senso di colpa lo lascia in pace per qualche secondo, perché non è solo lui che stava scappando, Simon, Louis, Cheryl, stavano scappando tutti quanti.
Forse anche Eleanor, forse Stan sta scappando in quel momento, con la sua birra già bevuta per metà e lo sguardo sospettoso.
Forse anche Harry, a Londra, cullando la sua bambina mentre canta Angie a mezza voce, e Gemma, Niall, quello stronzetto arrogante di Nick Grimshaw. Tutti quanti.
Lui che è scappato e Harry che l'ha lasciato andare.
Accampare una montagna di scuse per non battere le palpebre.
“Cazzate” sbotta l'altro “te la fai sotto e basta”
Sorride
“Anche. Sicuramente. Ma non solo...” si abbraccia le ginocchia, i piedi nudi che si raffreddano nella corrente fresca che entra dalla finestra socchiusa “E' qualcosa di ancora diverso Stan...io non voglio stare qui. Non c'è-” il giusto odore, la giusta consistenza. 
Harry.
La direzione.
Doncaster e il suo gazzettino del venerdì, le sue strade simmetriche e il caos che non esiste.
Non il suo caos.
Ed è surreale realizzarlo in quel modo, stravaccato su un divano nuovo, Stan seduto a malapena sul bordo del cuscino, la tv senza volume con la sua telenovela argentina in loop e una Corona appena toccata accanto. 
Odore di birra e di lime.
Disapprovazione e strane certezze.
Stan lo fissa senza parlare, osservando a sopracciglia aggrottate i percorsi di senso che tracciano le sue pupille. 
Louis ricambia il suo sguardo, un sorriso incerto e vago
“Lo so che stai pensando che sono un pazzo furioso sull'orlo di un esaurimento” l'altro tossisce ironicamente
“Lou, amico, è da una vita che penso tu sia un pazzo furioso. Ma all'esaurimento non c'ero ancora arrivato” sospira, si raggomitola accanto a lui sul divano e finisce la birra con un lungo sorso acrobatico “Ma non so perché sei qui, se ti fa così schifo” fa schioccare la lingua all'esitazione di lui.
Sorride, Louis William Tomlinson, perché lui invece lo sa.
Il cellulare vibra sopra la tv, abbandonato.
È tardi, incredibilmente tardi perché chiunque possa chiamarlo convinto che risponderebbe davvero.
Non è tardi. Se fosse lui non sarebbe tardi. 
Sarebbe solo tempismo del cazzo. Ma il tempismo è fottutamente sopravvalutato.
Non sarà mai tardi davvero.
Si alza, il contatto con il pavimento freddo che lo fa rabbrividire un po', un leggero formicolio alle dita dei piedi. Ha dato un calcio alla Corona per sbaglio e si è rovesciata. L'odore di birra è più intenso e confortante adesso.
Il telefono smette di vibrare, e una luce si accende ad intermittenza sullo schermo.
Louis armeggia con la password per sbloccarlo e legge, le lettere che un po' gli danzano contro le retine, perché è tardi, è buio e lui ha sempre avuto bisogno dei dannati occhiali anche se non li ha mai indossati con un senso logico.
“E' stata una serata assurda.
È una notte folle, e ci sono un milione di cose che vorrei dire, e devo dire, e ad un certo punto ero così fuori che pensavo davvero di trovarti a casa, alla fine.
È un messaggio del cazzo, ma sono sbronzo e sono le tre di notte, quindi chissenefrega.
Continuo a pensare che andrebbe meglio se ci fossi tu, anche se sei un cazzone fighetto con le scarpe da vela. Potrei gestirla meglio questa situazione assurda.
Va be'.
Spero che i tizi nella doccia abbiano la gobba e la gonorrea. Magari anche un pisello ridicolo. 
Fa un po' freddo qui”
Harry.
Ci sono almeno quindici errori di battitura, e il t9 ha corretto metà delle parole senza senso, ma è Harry. Completamente Harry. Sbronzo, depresso e logorroico Harry.
E' lui, di solito, quello che parla per riempire il silenzio che lo terrorizza. Louis, ogni volta, in ogni pausa. 
Harry di solito sorride, mastica continuamente il suo chewingum alla menta, lascia che le sue fossette rispondano al posto suo. 
Qualcosa dev'essere successo allora, si trova a pensare Lou senza nemmeno accorgersi di aver appena indossato a caso un paio di scarpe senza calzini.
“Lou! Lou! Dove cazzo vai? Louis!” Stan lo segue per la casa mentre infila biancheria sparsa e vestiti spaiati nel suo borsone da calcio nuovo di zecca.
“Devo fare una cosa” non sa nemmeno cosa. Non decollerà mai un aereo, a quell'ora, da Doncaster. 
Ma esistono i treni, e gli autobus, i taxi, l'autostop, gli alieni.
Andare a piedi anche.
“Sono le tre di notte cazzone! Hai una fottuta partita domani!” 
Responsabilità. Un sacco di vie di fuga. Un sacco di scuse a disposizione.
Nessuna che voglia davvero usare.
Scrolla le spalle armeggiando con gli occhiali da sole. È stupido pensarci in quel momento, agli occhiali. È notte, e il sole non è che splenda esattamente in stile California, a Docastero, o a Londra. Ma ci sono piccoli rituali che lo fanno sempre sentire meglio. Coprire gli occhi e nascondersi dietro un paio di lenti a specchio è una di quelle cose.
“Tanto sono in tribuna” scrolla le spalle impugnando la maniglia.
Stan emette un verso frustrato, sbattendo il ginocchio contro il tavolino da caffè
“Lou. Amico. Io non lo so perché sei venuto fin qui se non ci vuoi stare...se tornare a Doncaster ti fa sclerare e deprimere. Ma cazzo, amico, cazzo. Se non te ne frega niente dei Tre Moschettieri nei loro uffici dorati buon per te, ma almeno fallo per la squadra. Ci sono persone che si aspettano qualcosa da te.”
E' vero. Ed è una sensazione così strana da far formicolare la pelle. Qualcuno si aspetta qualcosa. Per la prima volta dopo mesi, anni, forse tutta la vita. 
E Louis si aspetta qualcosa da se stesso, e da Harry. E la sua vita, e i suoi amici. 
Quando smetti di essere solo, di sentirti solo, non importa più se lo sei stato davvero.
La squadra, e quei tre, e anche Eleanor, e sua madre, e chissà chi altro. Tutti si aspettano che lui sia la persona che ha promesso di essere.
Inspira, espira. La porta aperta su un corridoio monocromatico e ripetitivo. 
Responsabilità e fughe.
Addenta il labbro con gli incisivi, gli occhiali in bilico sul naso e la cerniera del borsone mezza aperta.
Il cellulare vibra di nuovo.
Harry.
“Scusa, sono un cazzone. Lascia perdere”
Resta immobile, Louis Tomlinson. In piedi, mezzo passo fuori, mezzo dentro. Stan che lo osserva in silenzio, la delusione e la preoccupazione ad alternarsi in modo discontinuo fra le pieghe della fronte. 
Stupido. Così stupido.
Harry ha una figlia, cazzo, e Louis una squadra, un'intera squadra.
Una vita. Doncaster. Amici, famiglia.
Forse vaghe possibilità di redenzione. Tornare indietro, crescere, magari diventare il genere di persona che Darcy potrebbe chiamare Boo quando lo vede arrivare, e non scappare via.
Ma sbattere ovunque come una pallina del flipper non è la soluzione.
Non quella che lui vorrebbe.
Non uno stupido aneddoto da raccontare agli amici fra dieci anni. Non una storiella ridicola su come è quasi andato in autostop fino a Richmond per piombare di nuovo nella vita della persona che avrebbe potuto amare.
Essere quella persona. 
Si lascia cadere sul divano, la testa che precipita pesante sullo schienale.
Sospira.
“Ma che cazzo c'è di marcio nel mio cervello Stan?”
L'amico sorride, stappa una birra, e butta giù un sorso
“Ti rispondo se mi fai il piacere di toglierti quei ridicoli occhiali da sole” sorride anche Lou, chiudendo gli occhi un istante prima di lasciar cadere gli occhiali sul divano.
Si passa una mano sul viso.
Una vibrazione.
Due.
Tre.
“Non lo so ma” il primo messaggio
“Sono un cazzone” il secondo
“Arriviamo” il terzo.
Harry.
Arriviamo.
La Corona non gli cade dalle mani solo perché Stan ha ancora i riflessi allenati di un portiere.



















Notine^^: non so più cosa scrivere in queste note...se non grazie di cuore per tutto l'amore che vortica attorno a tutto questo. Io non ci sono abituato ahahahah
I Larry vi amano, e io pure <3
   
 
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